Formazione Permanente 2023
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OSTACOLI DA SUPERARE NEL CAMMINO SPIRITUALE 
DEL DISCEPOLO MISSIONARIO COMBONIANO (3)
P. Carmelo Casile

Introduzione
1. La nostra vita spirituale appare debole e bisognosa di discernimento 

  • 1.1. Il formalismo pietistico
  • 1.2. Il formalismo religioso di stampo ideologico
  • 1.3. La spinta della “spiritualità della liberazione” al superamento del formalismo pietistico e ideologico 
  • 1.4. Il cammino di vita spirituale proposto nel Documento Conclusivo di Aparecida 

2. Un malinteso concetto di consacrazione circola anche in mezzo a noi
3. La provocazione dell’assenza e dell’abbondanza delle vocazioni nel nostro Istituto
4. Un errore fatale: identificare il carisma con il progetto apostolico

5. Ripercussione della visione riduttiva del carisma nel cammino formativo
6. Un’attenzione costante: tenere saldi i pilastri della vita di consacrazione missionaria 
7. Un rischio da evitare
8. Ruolo della cura della vita interiore dei membri della comunità
Conclusione: La lezione di Hetty Hilesum: la dedizione agli altri come esito della vita spirituale.

3. La provocazione dell’assenza e dell’abbondanza delle vocazioni nel nostro Istituto

L’assenza delle vocazioni nel nostro Istituto, come avviene soprattutto in tutto il mondo occidentale, è ormai un dato di fatto che ci deve interrogare e provocare fino in fondo. Non basta costatarlo e aggirarlo concludendo che è così per tutti. Non si tratta, infatti, solo di una crisi quantitativa e puramente statistica, ma anche qualitativa, che intacca la nostra vita di consacrati come è dimostrato dal numero elevato di coloro che lasciano l’Istituto. I Superiori non solo non hanno più personale per rispondere a tutte le esigenze della Missione, ma passano una buona parte del loro tempo con confratelli demotivati sia sul piano spirituale che su quello missionario. Questa situazione merita di essere affrontata direttamente, in modo da gettare uno sguardo sulla consistenza dei fondamenti che si offrono a quanti intendono porsi alla sequela di Cristo in uno stato di vita cristiana che comporta il massimo della donazione di sé (RV 2). Provare seriamente a riflettere e a confrontarsi insieme su questi argomenti, interrogarsi seriamente sul significato spirituale della programmazione in atto nella realtà dei vari settori della vita dell’Istituto di oggi, sarebbe certamente il dato più significativo per il benessere della formazione.

È più che evidente tra di noi l’enfasi data agli aspetti morali, politici, sociali, ecologici, antropologici e psicologici più che spirituali. Certamente è un’attenzione particolare che nasce dalle emergenze del vasto campo della missione a cui siamo consacrati; il problema non sta in quest’attenzione che è dovuta per fedeltà alla nostra stessa vocazione, ma nel fatto che diamo troppo per scontato tutto il discorso sui fondamenti evangelici e spirituali di questi stessi problemi. E questo avviene all’interno della nostra vita di “cenacolo” e anche riguardo alla gente e soprattutto ai giovani che potrebbero seguirci, dimenticando che ciò che viene dato per scontato, non è affatto detto che lo sia realmente. Forse non ci siamo ancora sufficientemente accorti che abbiamo bisogno di riscoprire i fondamenti della vita ecclesiale e spirituale per noi e per quelli che accompagniamo. E questo implica tempo, uso di mezzi appropriati, disponibilità e impegno a lavorare con metodo e disciplina su se stessi, e quindi programmazione a livello personale e comunitario. Solo così si può far “scattare” il passaggio verso un’autentica dimensione religiosa della vita e re-imparare a vivere e a proclamare la fede cristiana. Senza questo scatto, corriamo il pericolo di rimanere menomati nella vita spirituale per causa dell’atrofia dei nostri dinamismi spirituali, e quindi di cadere nel “tragico” gioco della privatizzazione della fede, della separazione tra la vita vissuta di una persona e la sua esperienza religiosa, e di rinchiudere l’apostolato missionario in una specie di mondo aziendale, che non coinvolge in profondità o in maniera integrale le persone. In questo momento della vita dell’Istituto sembra che s’impone una domanda, se cioè non ci siamo lasciati ingannare, concentrando la nostra attenzione sulla dimensione umana, accettando le categorie di una “spiritualità laica” e operando solo o prevalentemente all’interno di queste realtà. Se questo sta succedendo, allora non ci si intende più, non si capisce più la Chiesa, non si fa più una proposta vocazionale integrata nel Mistero di Cristo e non riusciamo a fare un vero stop e organizzarci per trovare la via per uscirne fuori. 

Alla luce di queste constatazioni, potrebbe essere provvidenziale il fatto che le nostre file si assottigliano sempre di più soprattutto in Europa, e da qualche parte (come in Africa) si gonfiano anche per via di prospettive di ordine sociologico più che spirituale, creando nuovi problemi invece che soluzioni. Almeno potremmo convincerci di dover iniziare seriamente a riflettere e a pregare e ritornare al nostro “amore di prima” (Ap 2,1-7), assecondando il richiamo del “Messaggio dei Consigli Generali Comboniani” del 15 Marzo 2003:

“L’evento della canonizzazione fa risuonare dentro di noi una forte chiamata a “rigenerare” la passione per il nostro carisma comune, chiamata che ci spinge ad una vita consacrata più autentica, ad una spiritualità più solida e ad una fedeltà alla missione più profetica. La canonizzazione di Daniele Comboni vuole trovarci uniti nel percorrere le orme della sua santità”. 

Secondo l’Apocalisse, le tentazioni che la comunità di Efeso doveva affrontare erano quelle che anche noi dobbiamo affrontare oggi, e cioè la tentazione che viene con il logorio del tempo: si raffredda l’amore che si era acceso nei primi momenti della conversione – consacrazione; e poi la mancanza di coraggio per rimanere attaccati alla “mentalità di Cristo”, lasciandoci coinvolgere in mentalità secolarizzanti. 

Che noi che viviamo nella Chiesa come battezzati che hanno fatto dell’evangelizzazione la ragione della propria vita (cfr. RV 56)”, dobbiamo imparare dal mondo chi è Gesù Cristo per noi, è un sintomo di malessere molto grave. Certe cose il mondo non le può insegnare al cristiano, proprio perché sono nate con i cristiani. Non siamo giunti, forse, a una situazione esplicitamente denunciata da san Paolo, secondo il quale è contro ogni logica voler finire la propria vita con la carne, dopo averla iniziata nello Spirito? 

È significativo il fatto che il Capitolo Generale del 2022, tra le cinque priorità che propone all’Istituto per il prossimo sessennio, le prime tre sono dedicate alla Spiritualità, alla Identità e vita comunitaria e alla Revisione della formazione.

Queste tre priorità mi sembra che siano ben sottolineate nella “Presentazione del Consiglio Generale”, in cui viene detto:

« “Io sono la vite, voi i tralci” (Gv 15,5) è stato il brano ispiratore durante il cammino capitolare che ci ha permesso di crescere nella consapevolezza che siamo i tralci della vite che è Gesù Cristo e il vignaiolo è Dio Padre di tutti. Questa consapevolezza deve aiutarci nel nostro quotidiano a maturare una spiritualità forte che ci faccia vivere e gustare un’esperienza di fede e di fiducia nel Signore come linfa vitale della nostra scelta alla vita consacrata e missionaria, com’è stato anche per il nostro Fondatore che si è fidato completamente di Dio: “chi confida in sé stesso, confida nel più grande asino del mondo… tutta la nostra confidenza deve essere in Dio” (Scritti 6880-81).

Anche Papa Francesco, nell’udienza ai capitolari del 18 giugno, ha sottolineato quest’aspetto: “La missione – la sua fonte, il suo dinamismo e i suoi frutti – dipendono totalmente dall’unione con Cristo e dalla forza dello Spirito Santo. Gesù lo ha detto chiaramente a quelli che aveva scelto come ‘apostoli’, cioè ‘inviati’: ‘Senza di me non potete far nulla’ (Gv 15,5). Non ha detto: ‘potete fare poco’, no, ha detto: ‘non potete fare nulla’… Solo se siamo come tralci ben attaccati alla vite, la linfa dello Spirito passa da Cristo in noi e qualsiasi cosa facciamo porta frutto, perché non è opera nostra, ma è l’amore di Cristo che agisce attraverso di noi”.

“Il Capitolo Generale ha innanzitutto la responsabilità di promuovere la fedeltà dell’Istituto alla sua missione specifica nella Chiesa. Perciò ha la competenza di rivedere ogni aspetto della sua vita e attività(RV 153) ».

4. Un errore fatale: identificare il carisma con il progetto apostolico

Tra le tante ragioni del basso indice di perseveranza dei nostri candidati il Consiglio Generale tramite il P. Generale nel messaggio «Insieme verso l’Assemblea Intercapitolare 2006», riconosce che “forse, il clima che i giovani respirano nell’Istituto e la testimonianza che diamo non devono essere tanto convincenti. Forse nella prospettiva della nostra vita abbiamo lasciato affievolire lo spirito di contemplazione e d’abbandono in Dio; forse abbiamo lasciato sbiadire lo slancio missionario come unico e fondamentale amore della nostra consacrazione”. Ci troviamo, dunque, di fronte a una comunità comboniana, in cui il clima e la testimonianza sono poco convincenti.

Riflettendo sulla mia esperienza come formatore e come animatore del Corso di rinnovamento di Roma, ho l’impressione che i giovani che arrivano nelle nostre case di formazione, in genere, sono stati indotti a concepire la vita missionaria come la vita di un militante cristiano o di un attivista sociale che è celibe e che sceglie di vivere con altri, che lottano per una causa comune in favore dei più deboli. Non sembra che abbiano captato che la vita missionaria a cui aspirano, è anzitutto vita centrata su un’intensa esperienza religiosa cristiana, che si sviluppa come esperienza d’amicizia con Cristo Gesù, in confronto al quale tutto va considerato come spazzatura (Fil 3, 8-11), e quindi come stile evangelico di vita e comemissione di annunciare Gesù Cristo al mondo intero, a partire dai più poveri e lontani, con il rischio di giocarsi la vita per la verità e la giustizia. 

In una vocazione autentica, ciò che motiva in primo luogo la scelta di un giovane è il dono di sé a Dio, un voler essere per Dio solo, dentro una chiamata in cui percepisce Dio come Amore assoluto e incondizionato. E ciò implica un’esperienza religiosa radicale, come risposta irresistibile e assoluta a Colui che per primo l’ha amato. In quanto consacrato si percepisce allora come “testimone dell’Invisibile”, perché ha incontrato Dio in Colui che “ha amato i suoi fino alla fine”. Ho costatato che un novizio, che varca la soglia del Noviziato mosso da una simile esperienza, ha già fatto affettivamente, cioè nel suo cuore, la consacrazione religiosa e si mette da subito in sintonia con il cammino del noviziato; è uno che non ha bisogno di essere trascinato, ma trascina, anche gli stessi formatori…., e si fa con gioia e generosità “vicino dei poveri” a cominciare da quelli di casa. È con questi soggetti che s’instaura un autentico dialogo formativo…

Per tanto, se nel cammino formativo la dimensione religiosa non è esplicitamente dominante, se è tergiversata o annacquata, la prospettiva di una vocazione intesa come un insieme di attività “impegnate” suppone la proposta e la comprensione della vocazione come risposta ad un imperativo morale o ad un’emergenza sociale, e ciò è insufficiente per entrare in una vita di consacrazione missionaria che sia vita centrata nell’incontro con Dio e che giustifichi le rinunce che l’accompagnano. Queste hanno senso quando servono per proclamare che non c’è niente di più grande che credere nel primato dell’Amore che Dio ha per noi e nella forza della sua Parola (Cf RV 20-21; 46).

P. André Manaranche ci ricorda che nella vita dell’apostolo di Gesù la funzione (= apostolato) e la vita (= discepolato) coincidono rigorosamente, a meno che non vengano separate dalle nostre astrazioni. L’intima compagnia con Gesù unifica l’esistenza apostolica, impedendo che “lo strafare per Lui”la discristifichi insensibilmente e la renda una semplice vita generosa (= filantropica).

Da questo fatto lo stesso autore deduce che una vita apostolica separata dalla compagnia di Gesù, Maestro e Signore, è insignificante. In questo caso la critica mordace in nome di Gesù contro la società non è conseguenza della partecipazione alla funzione profetica di Cristo, per cui è una critica inutile che nasce da uno zelo apostolico aggressivo e amareggiato. Visto da quelli che stanno al di fuori, l’apostolo senza la compagnia di Gesù dà credito all’idea che l’Apostolato è l’infame sfruttamento di una persona da parte del suo Dio: un Dio austero che le dà frustate, imponendole uno stile di vita e ritmi di lavoro che sterilizzano ogni felicità. Allora, il discepolo che suscita una simile riputazione verso il suo Maestro e Signore, finisce per diffamarlo precisamente quando è convinto di servirlo.

Lo zelo per alcuni valori morali essenziali di cui l’umanità ha urgente bisogno – come Giustizia/Pace e Conservazione del creato o l’“opzione per i poveri”, ecc. – può far dimenticare al missionario che nella sua attività di evangelizzazione è chiamato ad impegnarsi nella “liberazione integrale dell’uomo”, cioè in quella liberazione che “trova il suo compimento e consolidamento nella piena comunione con Dio Padre e tra gli uomini” (RV 61); se ciò non avviene, fa sparire dall’orizzonte dell’attività missionaria l’urgenza dell’annuncio del Mistero di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio e Salvatore del mondo (cf (RV 59), e dimenticare o annebbiare la dimensione salvifica della consacrazione missionaria religiosa (cf. RV 22; 46; 58).

Questa mentalità riduttiva della consacrazione missionaria l’Istituto la proietta molto chiaramente sui giovani che bussano alla nostra porta per cominciare un dialogo vocazionale. 

Non è, infatti, difficile percepire che tra noi Comboniani esiste la tendenza a identificare il carisma con il progetto apostolico, o con le opzioni operative fatte all’interno del progetto stesso, fino a ridurlo a quella dimensione di esso che ci interessa di più… Si coglie, cioè, il dono dello Spirito Santo in modo riduttivo e prevalentemente se non semplicemente funzionale. Questo modo riduttivo di considerare il dono dello Spirito (= il carisma), ricevuto per mezzo di san Daniele Comboni, impoverisce il missionario, fino a portarlo alla perdita dell’identità vocazionale (cfr. AC ’91, 11.3); porta, infatti, a far perdere di vista nella vita quotidiana il versante mistico-spirituale e comunitario e il corrispondente cammino ascetico per interiorizzare il carisma in modo integrale. 

In questo processo d’impoverimento dell’identità è presente il peso della pretesa di ridurre la vita spirituale alla semplice attività apostolica, allo “stare con la gente”, come se l’attività in se stessa per il fatto di essere apostolica è automaticamente spirituale, cioè vissuta nel e secondo lo Spirito di Gesù. In realtà, ognuno comunica il senso di Dio, impara ed è evangelizzato dall’attività che svolge, a partire dal grado di libertà interiore, dalla docilità allo Spirito del Signore Gesù, che gli consente di lasciarsi toccare e plasmare dalla realtà esterna e così crescere nella vita spirituale nella, dalla e per la missione durante tutta la vita. 

Quest’affermazione ha il suo riscontro nel concreto della nostra vita di Missionari Comboniani. 

Infatti, gli ultimi Capitoli Generali, come risulta dai rispettivi Atti Capitolari, sottolineano con evidente preoccupazione l’individualismo, l’attivismo, un insufficiente impegno nella preghiera personale e nello studio, un’incidenza frammentaria dell’esperienza carismatica di Daniele Comboni nel processo di formazione di base e permanente e nella vita quotidiana, l’incapacità d’integrare le esigenze di preghiera, studio e lavoro, ecc…. .

La Direzione Generale, nel Messaggio del 6 gennaio 2005, riconosce che questi limiti sono ancora presenti nell’Istituto, li riassume dicendo di aver notato “una certa stanchezza, l’affievolimento dello spirito di appartenenza, la dispersione, l’isolamento e l’individualismo”, e quindi richiama alcuni limiti in particolare.

Tutte queste costatazioni son riprese e completate nel Capitolo del 2009. 

Lo stato di vita dell’Istituto nel momento presente è illustrato con chiarezza in una serie di “Riflessioni”, che il P. Manuel Augusto Lopes Ferreira, alla fine del suo mandato come Superiore Generale, ha pubblicato nel Bollettino Informativo della Provincia Portoghese e che ha completato con due interventi apparsi in “Comboni.org” in vista del prossimo Capitolo Generale. Essi sono:

«Porque “falham” os capítulos?» (15 Agosto 2014), «Porque tarda o “efeito Francisco” a chegar até nós?» (10 Ottobre 2014).

Sono “riflessioni” che meritano di essere prese in considerazione, per fare il punto della nostra situazione attuale come Missionari Comboniani. 

Le stesse perplessità sono condivise dall’attuale Superiore Generale, come si può vedere nella sua lettera “La missione che nasce dal cuore” e nell’Omelia per la celebrazione del 144o anniversario della fondazione dell’Istituto Comboniano (Roma, giugno 2011).

La situazione di uno zelo missionario riduttivo o di “una certa stanchezza” va chiarita a livello di Istituto per non continuare a proiettarlo a livello di promozione vocazionale e delle varie tappe formative. Pretendere di vincere questo virus con una seria impostazione del Noviziato senza che ci sia continuità nella fase successiva dello Scolasticato e nella vita quotidiana delle varie comunità locali, è un modo assolutamente insufficiente, perché può portare i più giovani ad una crisi di delusione, che sfoci nell’uscita o all’accettazione del Noviziato e Scolasticato come parentesi, per ritornare poi e adattarsi alla visione e alla prassi della vita missionaria religiosa come possibilità di attività “impegnate”, nelle quali il giovane professo spera di trovare la realizzazione della propria vita, impegnandosi negli studi e in favore degli altri, e accantona l’impegno nel cammino dello spirito.

Questo è il modo di procedere adatto per avvelenare le radici della propria identità e il futuro della consacrazione a Dio per la missione. 

Al contrario lo sviluppo della vita spirituale porta il missionario a unificare tutte le proprie energie e risorse naturali e soprannaturali, e a esprimerle nella linea della vocazione missionaria. Egli è chiamato a essere apostolo e deve essere capace di vedere tutta la sua vita e la sua persona in funzione del ministero apostolico proprio dei MCCJ. Se centra la sua vita su una certa esperienza di Dio, è perché si sente chiamato ad annunciare questa esperienza (RV 20; 46; 81-82); se costruisce se stesso secondo un concreto programma ascetico (RV 2. 2; 3. 2; 90. 2; ecc.), è perché ciò lo abilita a un determinato stile di servizio missionario (cfr. AC ‘91, 13; 13. 1; ecc.); se vive l’amore fraterno all’interno della comunità religiosa come in un “nuovo piccolo cenacolo di Apostoli”, è perché l’amore fraterno che va oltre la carne e il sangue, è per sua natura segno della presenza di Cristo e del suo Regno: “Umanità nuova nata dallo Spirito” (RV 36; cfr.  AC ‘91, 30; 30. 1), ed è la prima testimonianza che deve dar al mondo. 

La Regola di Vita ci indica il cammino per trovare “il come” sviluppare o riqualificare la nostra vita a partire dalla specificità del nostro carisma senza operare riduzioni depauperanti; traccia per noi un cammino di sequela di Cristo, qualificato dagli ideali e dall’esperienza del Comboni come sono vissuti dall’Istituto, ci indica un metodo per introdurci e progredire nel “cammino dello spirito”, ci traccia anche le linee portanti su cui costruire la Ratio missionis.  Tuttavia, si ha l’impressione che la Regola di Vita è da noi poco frequentata, quindi non è conosciuta in profondità e regola ancora poco la nostra vita personale e comunitaria….

Cerchiamo di capire lo sviluppo della vita spirituale alla luce dell’immagine dell’albero

Per capire la necessità dello sviluppo della vita spirituale, ci può servire l’immagine dell’albero. Il Concilio Vat. II, infatti, presenta la Vita Consacrata come “un albero piantato da Dio nel suo campo”, che è Chiesa (Cf LG 43). 

Ci fa bene allora pensare all’albero, al suo modo di crescere e di vivere. Un albero con molta chioma e poche radici viene sradicato al primo colpo di vento, mentre in un albero con molte radici e poca chioma la linfa scorre a stento, e quindi siamo di fronte a una esistenza rachitica dell’albero. L’albero, per tanto, deve stare ben immerso nella terra per rimanere ben stabile sopra di essa, e perciò le sue radici e la chioma devono crescere in misura proporzionata, solo così potrà offrire ombra e riparo e alla stagione giusta potrà coprirsi di fiori e di frutti.

Né va dimenticato che se l’origine dei frutti è nelle radici dell’albero, tuttavia la produzione effettiva e la qualità dei frutti dipendono dalla corretta potatura dell’albero stesso. Se l’albero non è potato o è potato male, si raccolgono solo foglie….

Se la nostra vita missionaria religiosa vuole prendere il largo nel mondo di oggi, deve reggersi sulle due dimensioni inscindibili della trascendenza (= radici) e dell’incarnazione (= chioma), che la riconducono al primato di Dio, ma cercato e vissuto nella storia.

Il richiamo alle radici e alla necessità della potatura dell’albero, ci ricorda il necessario cammino ascetico e il confronto chiarificatore con il nostro passato come presupposto per la riuscita nella vita e nel cammino spirituale, per realizzare quell’autentico incontro con Dio, che sfoci nella testimonianza e nella proclamazione del suo amore davanti al mondo (cfr. RV 46). 

Se quest’impegno è debole, lasciato alla spontaneità e all’improvvisazione, vuol dire che abbiamo la pretesa di vivere nella parte alta dell’albero, tra i rami, le foglie e i frutti, eludendo la fatica di prenderci cura delle radici e dello stato inferiore del terreno, in cui l’albero della nostra vita è radicato e da cui riceve il nutrimento. Così continuiamo a vivere «in superficie», senza curarci della qualità e autenticità dei frutti e perdendo di vista il fatto che «all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus caritas est, 1). 

P. Carmelo Casile 
Casavatore, Gennaio 2015 / Marzo 2023