Il vero sogno dell’uomo resta una libertà in cui autonomia e responsabilità possano essere riconosciute come due facce della medesima medaglia, che possono crescere o diminuire solo insieme. Ogni volta che la medaglia va in frantumi riesplode puntualmente un conflitto fra libertà e uguaglianza, per il quale nella modernità si sono versati fiumi di sangue, e il vessillo della fraternità viene ammainato. Eppure, come afferma papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti, «La fraternità ha qualcosa di positivo da offrire alla libertà e all’uguaglianza» (n. 103).

Per gentile concessione dell’autore
Prof. Luigi Alici
https://luigialici.blogspot.com

1.    Desiderio e bisogno

Qualsiasi abbozzo di riflessione intorno a una antropologia dei bisogni chiama in causa soprattutto la necessità di identificare una soglia critica, oltre la quale la forma fisiologicamente ordinata di tale rapporto degenera in una alterazione patologica. In linea di principio, ciò può avvenire sia quando i bisogni sono indotti in modo estrinseco (come sembra suggerire il titolo che mi è stato affidato), sia quando è lo statuto antropologico a consentire, avallare, o addirittura incoraggiare una dilatazione incontrollata dei bisogni stessi.

A ben guardare è difficile separare i due fenomeni. La tesi che vorrei proporre riguarda precisamente una convergenza dei due fattori, che si potenziano reciprocamente, rendendo particolarmente severa e pervasiva la crisi che stiamo vivendo; questo senza indulgere a un catastrofismo che aggiungerebbe al problema l’aggravante di una incapacità di guardare più lontano. In realtà dobbiamo guardare più lontano; solo guardando lontano possiamo tenere aperti gli orizzonti del possibile.

Del resto, in questo ciclo di riflessioni, che indaga cause o rimedi delle disuguaglianze nel rapporto tra economia e tecnologia, è ben presente anche l’invito a interrogarsi su ogni visione riduttiva dell’umano, che vorrebbe dare per scontata l’impossibilità di una umanità diversa. Il mio intento è precisamente questo: cercare di tenere insieme i due lati della questione e riflettere sul loro reciproco potenziamento: da un lato, l’espansione artificiosa dei bisogni, destinata a farsi sempre più aggressiva e insieme autolesionista; dall’altro, l’attenuarsi, fino all’oscuramento, di una visione antropologica, che rischia in questo modo di essere non solo vittima ma addirittura complice più o meno consapevole dell’intero processo.

Dinanzi alla formidabile complessità del problema, dovrò accontentarmi di qualche riferimento elementare, che spero possa risultare meno dispersivo inquadrandolo nel contesto delle grandi trasformazioni epocali del nostro tempo – non epoca di cambiamento, ma vero e proprio cambiamento d’epoca – di cui il nostro tema è un ingrediente determinante.

Occorrerà anzitutto circoscrivere la semantica dei bisogni, provando a distinguerla da quella del desiderio, tenendo bene a mente che sul terreno terminologico le eccezioni a volte superano le regole. In prima approssimazione, potremmo accontentarci di connotare il desiderio come orizzonte architettonico delle tendenze umane più profonde, che possono concentrarsi non solo su singoli oggetti ma, più radicalmente, sull’intero: inteso non solo come la totalità del finito, ma anche come ciò che trascende l’intero dell’esperienza. In tal caso, il desiderio di infinito postula l’infinito del desiderio.

Rispetto allo scenario sconfinato e aperto del desiderio, il bisogno allude invece a una mancanza determinata, relativa a qualcosa di necessario intrinsecamente o estrinsecamente (questo è il punto), con cui ha un rapporto privativo e di dipendenza, volto a una soddisfazione immediata, il più delle volte nella sfera dell’istintuale.

È precisamente la pretesa di saturare l’apertura infinita del desiderio nella cattiva infinità della soddisfazione dei bisogni all’origine di quella esplosione patologica delle dipendenze che è come la controfigura perversa di un’epoca che celebra dal mattino alla sera il mito dell’autonomia. L’anoressia spirituale, collegata al crollo della fede in un Dio trascendente e infinito, e la bulimia sensoriale, con cui si tenta invano un compenso nell’ordine del finito, cercando di sopprimere la mancanza con una coazione a ripetere, sono da questo punto di vista due lati della medesima medaglia.

Il desiderio, al contrario, non è una mancanza, è piuttosto un germoglio che fiorisce e che domanda di essere sapientemente  coltivato; esprime dunque un’eccedenza spirituale, mentre la logica autodistruttiva delle dipendenze teme l’insoddisfazione come un’esperienza insopportabile, per cui alla fine in ogni forma patologica di addiction si riduce a un paradosso infernale: si può vivere solo facendosi morire. Occorre piuttosto riconoscere e superare le nostre dipendenze, rileggendole in positivo come un debito con il mondo e con gli altri, per poter ricostruire ricostruire una “dipendenza felice” (N. Sarthou-Lajus).

2. Il paradosso moderno

Il rapporto tra bisogni indotti e visione antropologica conosce una profonda metamorfosi in epoca moderna, quando sulla verticalità metafisica del desiderio, riconosciuta dal pensiero antico e medievale come culmine e compimento dell’umano, tende a prevalere una dinamica storica di soddisfazione dei bisogni immediati, in nome di un individualismo possessivo fondato su un originario diritto di proprietà dell’io su se stesso e sul proprio corpo, conferito dalla natura.

A partire da qui si sviluppa un pendolarismo che attraversa la modernità e arriva fino a noi: per un verso, prende corpo un antropocentrismo prometeico, che innalza il soggetto umano sopra la natura e la storia in virtù di una irriducibile postura acquisitiva e dominativa (il soggetto non è assoggettato, le passioni non sono passive, il privato non è una privazione); per altro verso, l’antropocentrismo deve fare i conti con una sequenza ininterrotta di “umiliazioni del soggetto”: sul piano cosmologico, con l’affermazione del sistema copernicano; sul piano biologico, in conseguenza dell’evoluzionismo darwiniano; sul piano psicologico, come frutto della scoperta freudiana dell’inconscio.

La ricerca di una sintesi fra questi due aspetti attraversa, com’è noto, il pensiero moderno, in un crocevia di implicazioni, che investono il piano psicologico, sociale, economico e politico. Sul piano più propriamente antropologico la sintesi implica la possibilità di tenere insieme il lato attivo e quello passivo della vita personale, evitando sia una sindrome da Prometeo scatenato che calpesta la responsabilità, sia, al contrario, un livellamento naturalistico che calpesta l’autonomia.

Anche la rivelazione cristiana, rispetto al dualismo di essere e divenire, tipico del pensiero greco, aveva portato in primo piano la centralità della storia. Tuttavia, in una prospettiva illuminata da una teologia della creazione e della redenzione, la storia è uno spazio circoscritto e irripetibile in cui si decide il destino eterno della persona, mentre la proiezione escatologica di un’antropologia in cui finito e infinito si toccano impedisce di inseguire un compimento storicistico dell’umano.

La messa in guardia contro ogni deriva idolatrica, che attraversa la Bibbia da cima a fondo, scaturisce precisamente dalla protervia illusoria di poter surrogare l’eclisse di Dio con una pletora di assoluti terrestri. Il penultimo che diventa ultimo non può mantenere le sue promesse. Nelo stesso tempo l’eccedenza escatologica del desiderio non comporta necessariamente una disattenzione spiritualistica ai bisogni più naturali. L’ultimo non è nemico del penultimo, è il penultimo che in alcuni casi può diventare nemico di se stesso.

3. Dal moderno al postmoderno

I conflitti fra “grandi narrazioni” che attraversano la modernità (razionalismo ed empirismo, illuminismo e romanticismo, marxismo e liberalismo…) oggi si stemperano, nell’epoca dei “post” (postmoderno, postumano, postmetafisico, postsecolare…), in un sincretismo che favorisce un singolare “matrimonio di convenienza” fra un’estetica del sentire, che s’insedia nel perimetro insindacabile del privato, e un’economia dell’utile, che disegna l’infrastruttura formale dello spazio pubblico.

In questo contesto s’intrecciano inestricabilmente due percorsi simmetrici e complementari: a un progressivo indebolimento della ragione, che smarrisce la capacità di intercettare i fini, accontentandosi di farsi coscienza critica e ritagliandosi compiti di ascolto, interpretazione e narrazione del vissuto, risponde una crescita ipertrofica della razionalità strumentale, assoldata nella ottimizzazione funzionale dei processi di globalizzazione, ai quali lo sviluppo del digitale offre un potenziamento sconfinato. Anche Hegel aveva messo in guardia sui pericoli di questa dissociazione tra intelletto e ragione, e sugli effetti alienanti della dialettica di servo e padrone (lo spirito, oggettivandosi, dà luogo a un’alterità a cui si sente estraneo). Poco più di un secolo dopo e in tutt’altro contesto, la teoria critica della società messa a punto profeticamente dagli esponenti della Scuola di Francoforte denuncia gli effetti nefasti di una dialettica dell’illuminismo, che si capovolge nel mito positivistico della pura fattualità, frutto di una “crisi della ragione” competente sui fini e di una reificazione dell’umano: «La macchina ha gettato a terra il conducente, e corre cieca nello spazio» (M. Horkheimer).

Nella seconda metà del Novecento, è stato soprattutto Hans Jonas a denunciare gli effetti perversi di questo sdoppiamento dualistico; una insaziabile onnipotenza tecnologica convive con una impotenza antropologica in cui la debolezza sconfina nella rinuncia: «Tremiamo nella nudità di un nihilismo nel quale il massimo di potere si unisce al massimo di vuoto, il massimo di capacità al minimo di sapere intorno agli scopi». Stretta fra questa tenaglia, la riflessione antropologica conosce una prevalente declinazione sul piano sociologico-culturale, mentre un nichilismo di fondo finisce per diventare complice involontario di un consumismo travolgente.

Gli effetti della ragione strumentale, tecnologicamente potenziata, diventano evidenti nella finanziarizzazione dell’economia: ai bisogni che perdono progressivamente ogni ancoraggio antropologico corrispondono consumi che si allontanano dalla catena produttiva e assurgono a fini in sé (M. Bianchi). La macchina insaziabile della speculazione finanziaria amplifica crisi cicliche di indebitamento (dello Stato, delle banche, delle imprese, dei consumatori), che erodono il tessuto della fiducia e rendono l’economia particolarmente vulnerabile (C.M. Reinhart – K.S. Rogoff).

Nello stesso tempo, sul piano del costume cambia il rapporto con le cose, che l’essere umano tende a introiettare, modificando l’ordine delle emozioni e ricavandone una nuova identità (F. Trentemann). Dinanzi al consolidarsi di gerarchie utilitaristiche, in un’epoca di “passioni tristi” il desiderio diventa una minaccia (M. Benasayag – G. Schmit), mentre nel passaggio dal consumo al consumismo si consolida l’equivoca ricerca di una felicità istantanea e perpetua (Z. Bauman).

4. Quale antropologia?

Il recupero di una visione antropologica si sviluppa su piani diversi e complementari. Nel cuore del Novecento, la tradizione personalista si era impegnata anzitutto nell’anteporre un’etica dei bisogni a una mera economia dei consumi, in modo da riconoscere un “diritto al minimo vitale” di cui le istituzioni pubbliche debbono farsi carico (E. Mounier). Su questa linea, la riaffermazione del primato del bene comune oggi deve misurarsi criticamente con l’avvento dell’economia di mercato capitalistica e con l’etica utilitaristica, aprendo la scienza economica a una dimensione relazionale (S. Zamagni).

Una svolta spirituale, culturale e politica d’altro canto è possibile, solo ponendoci in ascolto delle sapienze antropologiche custodite dalle culture del mondo e intercettando modelli economici alternativi (R. Mancini), senza rinunciare a demistificare criticamente vecchie e nuove forme di alienazione sociale (E. Piromalli). La stessa riproposizione di una “filosofia della frugalità”, come forma elementare di saggezza che nasce da un impegno non egoistico a favore degli altri, da un lato deve garantire la possibilità di soddisfare bisogni primari e dall’altro favorire l’accesso pubblico a beni ulteriori, naturali e culturali (W. Westacott).

È evidente che la rinuncia a uno statuto antropologico, capace di accreditare una sporgenza spirituale della persona umana rispetto alla transitorietà effimera delle pulsioni e delle emozioni, così come alla relatività delle situazioni storiche e dei condizionamenti sociali, rende tutto più difficile (G. Canobbio). Questo deficit antropologico è evidente oggi sia mel paradigma antropocentrico che in quello biocentrico, eredi di antiche contrapposizioni (L. Alici).

Da un lato, l’antropocentrismo moderno conosce un risveglio formidabile entro un contesto tecnocentrico che vagheggia la trasgressione dello statuto biologico a favore di un radicale potenziamento umano e promette una nuova stagione di “libertà aumentata”. Da un altro lato, invece, gli orientamenti tipici del paradigma biocentrico (ambientalismo, ecologismo, etiche degli animali, etiche delle piante…) vedono proprio nella celebrazione della libertà una dichiarazione di guerra contro la biosfera e assumono l’equilibrio biologico dell’ecosistema come forma esemplare secondo cui riscrivere l’intera agenda dei bisogni umani.

Il primo approccio, drasticamente riduzionista sul piano epistemologico, è disinvoltamente libertario sul piano etico e fieramente schierato nella difesa a oltranza dell’autonomia individuale, a costo di avallare forme incontrollabili di disuguaglianza; il secondo approccio, invece, tendenzialmente olistico, invoca un’etica eteronoma severamente normativa, ispirata al principio di responsabilità e a una critica delle disuguaglianze che si spinge fino al rifiuto della differenza personale rispetto al mondo vegetale e animale.

È comunque singolare che in approcci così contrastanti, ai quali corrispondono ricadute pratiche molto diverse, affiori una convergenza di fatto verso una decostruzione antropologica, rispettivamente per eccesso o per difetto: nel primo caso, non c’è una natura umana immutabile, che per questo potrà essere riplasmata da cima a fondo quando l’evoluzione biologica sarà interamente riassorbita nell’evoluzione tecnologica; nel secondo caso, l’unica e vera casa dell’umano è il mondo naturale, a cui esso dev’essere ricondotto, una volta liberato dal mito della propria superiorità. Nel primo caso, lo spazio autonomo dell’antropologia è interamente occupato dalla tecnologia, nel secondo dalla cosmologia.

In entrambi i casi, tuttavia, la natura umana trova solo fuori di sé la propria identità ultima: non in un orizzonte di trascendenza, che ragione e fede possono concorrere ad avvalorare, ma nelle promesse distopiche del transumano o nel grembo muto dell’infraumano. Due prospettive molto diverse, eppure ridotte anch’esse a semplici opzioni invocate di volta in volta, in modo quasi schizofrenico, a seconda delle circostanze: si può essere nello stesso giorno contro il nucleare o contro gli OGM perché la natura è normativa, e poco dopo a favore dell’utero in affitto o dell’eutanasia perché sono normativi i nostri bisogni.

Schiacciata fra queste opposte consacrazioni – dell’artificiale o del naturale –, la persona umana rischia una doppia schiavitù: da un lato, dietro la bandiera della libertà, il mito di una umanità aumentata rischia di strangolarci nel circolo vizioso di nuovi bisogni e nuove schiavitù; dall’altro lato, dietro la bandiera dell’uguaglianza, una responsabilità ispirata ai dettami di un olismo naturalistico rischia di avallare un modello di darwinismo sociale in cui il fatto che il pesce grande mangi il pesce piccolo non è mai un problema.

Come non si possono celebrare i sogni che in realtà sono incubi distopici, allo stesso modo non dobbiamo rinunciare ai sogni per paura degli incubi. Il vero sogno dell’uomo resta una libertà in cui autonomia e responsabilità possano essere riconosciute come due facce della medesima medaglia, che possono crescere o diminuire solo insieme. Ogni volta che la medaglia va in frantumi riesplode puntualmente un conflitto fra libertà e uguaglianza, per il quale nella modernità si sono versati fiumi di sangue, e il vessillo della fraternità viene ammainato. Eppure, come afferma papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti, «La fraternità ha qualcosa di positivo da offrire alla libertà e all’uguaglianza» (n. 103). Una tesi che già Bergson, nel 1932, aveva lucidamente messo a fuoco ne Le due fonti della morale della religione, affermando che la democrazia, nella sua essenza intimamente evangelica, «proclama la libertà, richiede l’uguaglianza e riconcilia queste due sorelle nemiche, ricordando loro di essere sorelle, mettendo al di sopra di tutto la fraternità».

Riferimenti

Alici L., Liberi tutti. Il bene, la vita, i legami, Vita e Pensiero, Milano 2022

Bauman Z., Consumo, dunque sono, Laterza, Roma – Bari 2010

Benasayag M. – Schmit G., L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2008

Bianchi M., Consumo, in L. Bruni – S. Zamagni, Dizionario di economia civile, Città Nuova, Roma 2009, 234-239

Canobbio G., Fine dell’eccezione umana? La sfida delle scienze all’antropologia, Morcelliana, Brescia 2018

Horkheimer M., Eclisse della ragione, Einaudi, Torino 1969

Jonas H., Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1990

Mancini R., Trasformare l’economia. Fonti culturali, modelli alternativi, prospettive politiche, FrancoAngeli, Milano 2014

Mounier E., Manifesto al servizio del personalismo comunitario, Ecumenica, Cassano 1975

Piromalli E., L’alienazione sociale oggi. Una prospettiva teorico-critica, Carocci, Roma 2023

Reinhart C.M. – Rogoff K.S., Questa volta è diverso. Otto secoli di follia finanziaria, Il Saggiatore, Milano 2010

Sarthou-Lajus N., Vertigine della dipendenza, Vita e Pensiero, Milano 2023

Trentemann F., L’impero delle cose. Come siamo diventati consumatori. Dal XV al XXI secolo, Einaudi, Torino 2017

Westacott W., Frugalità. Storie della vita semplice, Luiss University Press, Roma 2017

Zamagni S., L’economia del bene comune, Città Nuova, Roma 2007.

[Intervento su “Bisogni indotti e visione antropologica“, nell’ambito del ciclo “Economia e tecnologia, causa o rimedio delle disuguaglianze?”, Accademia Cattolica di Brescia, 7 febbraio 2024]

Postato 3 weeks ago da Luigi Alici