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Lunedi – “La grazia della vergogna”
La prima Lettura, del Profeta Daniele (9,4-10), è una confessione dei peccati. Il popolo riconosce che ha peccato. Riconosce che il Signore è stato fedele con noi ma noi «abbiamo peccato, abbiamo operato da malvagi e da empi. Siamo stati ribelli, ci siamo allontanati dai tuoi comandamenti e dalle tue leggi! Non abbiamo obbedito ai tuoi servi, i Profeti, i quali nel tuo nome hanno parlato ai nostri re, ai nostri principi, ai nostri padri e a tutto il popolo del paese» (vv. 5-6). C’è una confessione dei peccati, un riconoscere che abbiamo peccato.
E quando noi ci prepariamo a ricevere il sacramento della Riconciliazione, dobbiamo fare quello che si chiama “esame di coscienza” e vedere cosa ho fatto io davanti a Dio: ho peccato. Riconoscere il peccato. Ma questo riconoscere il peccato non può essere soltanto fare un elenco dei peccati intellettuale, dire “ho peccato”, poi lo dico al padre e il padre mi perdona. Non è necessario, non è giusto fare questo. Questo sarebbe come fare un elenco delle cose che devo fare o che devo avere o che ho fatto male, ma rimane nella testa. Una vera confessione dei peccati deve rimanere nel cuore. Andare a confessarsi non è soltanto dire al sacerdote questo elenco, “ho fatto questo, questo, questo, questo …”, e poi me ne vado, sono perdonato. No, non è questo. Ci vuole un passo, un passo in più, che è la confessione delle nostre miserie, ma dal cuore; cioè, che quell’elenco che io ho fatto delle cose cattive, scenda al cuore.
E così fa Daniele, il Profeta. “A te, Signore, conviene la giustizia; a noi, la vergogna” (cfr v. 7). Quando io riconosco che ho peccato, che non ho pregato bene, e questo lo sento nel cuore, ci viene questo sentimento di vergogna: “Io mi vergogno di avere fatto questo. Ti chiedo perdono con vergogna”. E la vergogna per i nostri peccati è una grazia, dobbiamo chiederla: “Signore, che io mi vergogni”. Una persona che ha perso la vergogna perde l’autorità morale, perde il rispetto degli altri. È uno svergognato. Lo stesso accade con Dio: “A noi la vergogna, a te la giustizia”. A noi la vergogna. La vergogna sul volto, come oggi. «Signore – continua [Daniele] – la vergogna sul volto a noi, ai nostri re, ai nostri principi, ai nostri padri, perché abbiamo peccato contro di te» (v. 8). «Al Signore nostro Dio – prima aveva detto “la giustizia”, adesso dice – la misericordia» (v. 9). Quando noi abbiamo non solo il ricordo, la memoria dei peccati che abbiamo fatto, ma anche il sentimento della vergogna, questo tocca il cuore di Dio e risponde con misericordia. Il cammino per andare incontro alla misericordia di Dio è vergognarsi delle cose brutte, delle cose cattive che abbiamo fatto. Così, quando io andrò a confessarmi, dirò non solo l’elenco dei peccati, ma i sentimenti di confusione, di vergogna per avere fatto questo a un Dio tanto buono, tanto misericordioso, tanto giusto.
Chiediamo oggi la grazia della vergogna: vergognarci dei nostri peccati. Che il Signore a tutti noi conceda questa grazia.
Lunedì, 9 marzo 2020
Martedì – “Peccatori, ma in dialogo con Dio”
Ieri la Parola di Dio ci insegnava riconoscere i nostri peccati e a confessarli, ma non solo con la mente, anche con il cuore, con uno spirito di vergogna; la vergogna come un atteggiamento più nobile davanti a Dio per i nostri peccati. E oggi il Signore chiama tutti noi peccatori a dialogare con Lui (cfr Is 1,10.16-20). Perché il peccato ci rinchiude in noi stessi, ci fa nascondere o nascondere la nostra verità, dentro. È quello che è successo ad Adamo ed Eva: dopo il peccato si sono nascosti, perché avevano vergogna; erano nudi (cfr Gen 3,8-10). E il peccatore, quando sente la vergogna, poi ha la tentazione di nascondersi. E il Signore chiama: «Su, venite e discutiamo – dice il Signore -» (Is 1,18); “parliamo del tuo peccato, parliamo della tua situazione. Non abbiate paura”. E continua: «Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana» (v. 18). “Venite, perché io sono capace di cambiare tutto – ci dice il Signore -, non abbiate paura di venire a parlare, siate coraggiosi anche con le vostre miserie”.
Mi viene in mente quel santo che era così penitente, pregava tanto. E cercava sempre di dare al Signore tutto quello che il Signore gli chiedeva. Ma il Signore non era contento. E un giorno lui un po’ si era come arrabbiato con il Signore, perché aveva un caratteraccio quel santo. E dice al Signore: “Ma, Signore, io non ti capisco. Io ti do tutto, tutto e tu sempre sei come insoddisfatto, come se mancasse qualcosa. Cosa manca?”. “Dammi i tuoi peccati: è questo che manca”. Avere il coraggio di andare con le nostre miserie a parlare con il Signore: “Su, venite, discutiamo! Non abbiate paura”. «Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana» (v. 18).
Questo è l’invito del Signore. Ma sempre c’è un inganno: invece di andare a parlare con il Signore, fare finta di non essere peccatori. È quello che il Signore rimprovera ai dottori della legge (cfr Mt 23,1-12). Queste persone fanno le opere «per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati rabbì dalla gente» (vv. 5-6). L’apparenza, la vanità. Coprire la verità del nostro cuore con la vanità. La vanità non guarisce mai! La vanità non guarisce mai; è anche velenosa, va avanti portandoti la malattia al cuore, portandoti quella durezza di cuore che ti dice: “No, non andare dal Signore, non andare. Rimani tu…”.
La vanità è proprio il posto per chiudersi alla chiamata del Signore. Invece, l’invito del Signore è quello di un padre, di un fratello: “Venite! Parliamo, parliamo. Alla fine Io sono capace di cambiare la tua vita dal rosso al bianco”.
Che questa Parola del Signore ci incoraggi; che la nostra preghiera sia una preghiera reale. Della nostra realtà, dei nostri peccati, delle nostre miserie, parlare con il Signore. Lui sa, Lui sa che cosa siamo noi. Noi lo sappiamo, ma la vanità ci invita sempre a coprire. Che il Signore ci aiuti.
Martedì, 10 marzo
Mercoledì – “La vanità ci allontana dalla Croce di Cristo”
La prima Lettura, un passo del profeta Geremia (18,18-20), è davvero una profezia sulla Passione del Signore. Cosa dicono i nemici? «Venite, ostacoliamolo quando parla; non badiamo a tutte le sue parole» (v. 18). “Mettiamogli degli ostacoli”. Non dice: “Vinciamo su di lui, facciamolo fuori”, no. Rendere difficile la vita, tormentarlo. È la sofferenza del profeta, ma lì c’è una profezia su Gesù. Lo stesso Gesù nel Vangelo (Mt 20,17-28) ci parla di questo: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché venga deriso e flagellato e crocifisso» (vv. 18-19). Non è soltanto una sentenza di morte: c’è di più. C’è l’umiliazione, c’è l’accanimento. E quando c’è accanimento nella persecuzione di un cristiano, di una persona, c’è il demonio. Il demonio ha due stili: la seduzione, con le promesse mondane, come ha voluto fare con Gesù nel deserto, sedurlo e con la seduzione fargli cambiare il piano della redenzione; e, se questo non va, l’accanimento. Non ha mezzi termini, il demonio. La sua superbia è così grande che cerca di distruggere, e distruggere godendo della distruzione con l’accanimento. Pensiamo alle persecuzioni di tanti santi, di tanti cristiani: non li uccidono subito, ma li fanno soffrire e cercano in tutte le maniere di umiliarli, fino alla fine. Non bisogna confondere una semplice persecuzione sociale, politica, religiosa con l’accanimento del diavolo. Il diavolo si accanisce, per distruggere. Pensiamo all’Apocalisse: vuole ingoiare quel figlio della donna, che sta per nascere (cfr 12,4).
I due ladri che erano crocifissi con Gesù, sono stati condannati, crocifissi e li hanno lasciati morire in pace. Nessuno li insultava: non interessava. L’insulto era soltanto per Gesù, contro Gesù. Gesù dice agli apostoli che sarà condannato a morte, ma sarà “deriso, flagellato, crocifisso”… Si fanno beffe di Lui.
E la strada per uscire dall’accanimento del diavolo, da questa distruzione, è lo spirito mondano, quello che la mamma chiede per i figli, i figli di Zebedeo (cfr Mt 20,20-21). Gesù parla di umiliazione, che è il proprio destino, e lì gli chiedono apparenza, potere. La vanità, lo spirito mondano è proprio la strada che il diavolo offre per allontanarsi dalla Croce di Cristo. La propria realizzazione, il carrierismo, il successo mondano: sono tutte strade non cristiane, sono tutte strade per coprire la Croce di Gesù.
Che il Signore ci dia la grazia di saper discernere quando c’è lo spirito che vuole distruggerci con l’accanimento, e quando lo stesso spirito vuole consolarci con le apparenze del mondo, con la vanità. Ma non dimentichiamo: quando c’è accanimento, c’è l’odio, la vendetta del diavolo sconfitto. È così fino a oggi, nella Chiesa. Pensiamo a tanti cristiani, come sono crudelmente perseguitati. In questi giorni, i giornali parlavano di Asia Bibi: nove anni in carcere, soffrendo. È l’accanimento del diavolo.
Che il Signore ci dia la grazia di discernere il cammino del Signore, che è Croce, dal cammino del mondo, che è vanità, apparire, maquillage.
Mercoledì, 11 marzo 2020
Giovedì – “Per non cadere nell’indifferenza”
Questo racconto di Gesù (cfr Lc 16,19-31) è molto chiaro; può anche sembrare un racconto per i bambini: è molto semplice. Gesù vuole indicare con questo non solo una storia, ma la possibilità che tutta l’umanità viva così, anche che noi, tutti, viviamo così.
Due uomini, uno soddisfatto, che sapeva vestirsi bene, forse cercava i più grandi stilisti del tempo, per vestirsi; indossava vestiti di porpora e lino finissimo. E poi, che se la passava bene, perché ogni giorno si dava a lauti banchetti. Lui era felice così. Non aveva preoccupazioni, prendeva qualche precauzione, forse qualche pillola contro il colesterolo per i banchetti, ma così la vita andava bene. Era tranquillo.
Alla sua porta stava un povero: Lazzaro si chiamava. Il ricco sapeva che c’era il povero, lì, lui lo sapeva, ma gli sembrava naturale: “Io me la passo bene e questo… Così è la vita, che si arrangi”. Al massimo, forse – non lo dice, il Vangelo – alle volte inviava qualche cosa, qualche briciola… E così passò la vita di questi due. Ambedue sono passati per la legge di noi tutti: morire. Morì il ricco e morì Lazzaro. Il Vangelo dice che Lazzaro è stato portato in Cielo, con Abramo, nel seno di Abramo. Del ricco soltanto dice: “Fu sepolto”. Punto. E finì (cfr v. 22).
Ci sono due cose che colpiscono: il fatto che il ricco sapesse che c’era questo povero e che sapesse il nome, Lazzaro. Ma non gli importava, gli sembrava naturale. Il ricco forse faceva anche i suoi affari che alla fine andavano contro i poveri. Conosceva molto chiaramente, era informato di questa realtà. E la seconda cosa che a me tocca tanto è la parola «grande abisso» (v. 26), che Abramo dice al ricco. “Fra noi e voi c’è un grande abisso, non possiamo comunicare; non possiamo passare da una parte all’altra”. È lo stesso abisso che nella vita c’era fra il ricco e Lazzaro: l’abisso non incominciò là, l’abisso incominciò qua.
Ho pensato a quale fosse il dramma di quest’uomo: il dramma di essere molto, molto informato, ma con il cuore chiuso. Le informazioni di quest’uomo ricco non arrivavano al cuore, non sapeva commuoversi, non si poteva commuovere del dramma degli altri. Neppure chiamare uno dei ragazzi che servivano a mensa e dire: “Portagli questo, quell’altro…”. Il dramma dell’informazione che non scende al cuore. Questo succede anche a noi. Tutti noi sappiamo, perché lo abbiamo sentito al telegiornale o lo abbiamo visto sui giornali, quanti bambini patiscono la fame oggi nel mondo; quanti bambini non hanno le medicine necessarie; quanti bambini non possono andare a scuola. Continenti, con questo dramma: lo sappiamo. “Eh, poveretti…”. E continuiamo. Questa informazione non scende al cuore, e tanti di noi, tanti gruppi di uomini e donne vivono in questo distacco tra quello che pensano, quello che sanno, e quello che sentono: è staccato il cuore dalla mente. Sono indifferenti. Come il ricco era indifferente al dolore di Lazzaro. C’è l’abisso dell’indifferenza.
A Lampedusa, quando sono andato la prima volta, mi è venuta questa parola: la globalizzazione dell’indifferenza. Forse noi oggi, qui, a Roma, siamo preoccupati perché “sembra che i negozi siano chiusi, io devo andare a comprare quello, e sembra che non posso fare la passeggiata tutti i giorni, e sembra questo…“. Preoccupati per le mie cose. E dimentichiamo i bambini affamati, dimentichiamo quella povera gente che sta sui confini dei Paesi, cercando la libertà; questi migranti forzati che fuggono dalla fame e dalla guerra e trovano solo un muro, un muro fatto di ferro, un muro di filo spinato, ma un muro che non li lascia passare. Sappiamo che esiste questo, ma al cuore non va, non scende. Viviamo nell’indifferenza: l’indifferenza è questo dramma di essere bene informato ma non sentire la realtà altrui. Questo è l’abisso: l’abisso dell’indifferenza.
Poi c’è un’altra cosa che colpisce. Qui sappiamo il nome del povero, lo sappiamo: Lazzaro. Anche il ricco lo sapeva, perché quando era negli inferi chiede ad Abramo di inviare Lazzaro, lo riconobbe, lì: “Mandami lui” (cfr v. 24). Ma non sappiamo il nome del ricco. Il Vangelo non ci dice come si chiamava questo signore. Non aveva nome. Aveva perso il nome. Aveva soltanto gli aggettivi della sua vita: ricco, potente… tanti aggettivi. Questo è quello che fa l’egoismo in noi: fa perdere la nostra identità reale, il nostro nome, e ci porta a valutare solo gli aggettivi. La mondanità ci aiuta, in questo. Siamo caduti nella cultura degli aggettivi, dove il tuo valore è quello che tu hai, quello che tu puoi, ma non “come ti chiami”: hai perso il nome. L’indifferenza porta a questo. Perdere il nome. Siamo soltanto “i ricchi”, siamo questo, siamo quell’altro. Siamo gli aggettivi.
Chiediamo oggi al Signore la grazia di non cadere nell’indifferenza, la grazia che tutte le informazioni che abbiamo sui dolori umani scendano al cuore e ci muovano a fare qualcosa per gli altri.
Giovedì, 12 marzo 2020
Venerdì – “Non dimentichiamo la gratuità della rivelazione”
Ambedue le Letture sono una profezia della Passione del Signore. Giuseppe venduto come schiavo per 20 sicli d’argento, consegnato ai pagani (cfr Gen 37,3-4.12-13.17-28). E la parabola di Gesù, che chiaramente parla in simbolo dell’uccisione del Figlio (cfr Mt 21,33-43.45). Questa storia di un uomo che possedeva un terreno, «vi piantò una vigna – la cura con cui l’aveva fatto -, la circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre – l’aveva fatto bene -. Poi la diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano» (v. 33). Questo è il popolo di Dio. Il Signore scelse quel popolo, c’è una elezione di quella gente. È il popolo dell’elezione. C’è anche una promessa: “Andate avanti. Tu sei il mio popolo”, una promessa fatta ad Abramo. E c’è anche un’alleanza fatta con il popolo al Sinai. Il popolo deve sempre custodire nella memoria l’elezione, che è un popolo eletto, la promessa per guardare avanti in speranza e l’alleanza per vivere ogni giorno la fedeltà.
Ma in questa parabola succede che, quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, questa gente si era dimenticata che non erano i padroni: «I contadini presero i servi, e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Poi mandò altri servi, più numerosi, ma li trattarono allo stesso modo» (v. 35-36). Certamente Gesù fa vedere qui come – sta parlando ai dottori della legge – come i dottori della legge hanno trattato i profeti. «Da ultimo mandò loro il proprio figlio – pensando che avrebbero avuto rispetto per il proprio figlio -. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”» (v. 37-38). Hanno rubato l’eredità, che era un’altra. Una storia di infedeltà, di infedeltà alla elezione, di infedeltà alla promessa, di infedeltà all’alleanza, che è un dono. L’elezione, la promessa e l’alleanza sono un dono di Dio. Infedeltà al dono di Dio. Non capire che era un dono e prenderlo come proprietà. Questa gente, si è appropriata del dono e ha tolto questo essere dono per trasformarlo in proprietà mia. E il dono che è ricchezza, è apertura, è benedizione, è stato chiuso, ingabbiato in una dottrina di leggi, tante. È stato ideologizzato. E così il dono ha perso la sua natura di dono, è finito in una ideologia. Soprattutto in un’ideologia moralistica piena di precetti, anche ridicola perché scende alla casistica per ogni cosa. Si sono appropriati del dono.
Questo è il grande peccato. È il peccato di dimenticare che Dio si è fatto dono Lui stesso per noi, che Dio ci ha dato questo come dono e, dimenticando questo, diventare padroni. E la promessa non è più promessa, l’elezione non è più elezione, l’alleanza va interpretata secondo il “mio” parere, ideologizzata.
Qui, in questo atteggiamento io vedo forse l’inizio, nel Vangelo, del clericalismo, che è una perversione, che rinnega sempre l’elezione gratuita di Dio, l’alleanza gratuita di Dio, la promessa gratuita di Dio. Dimentica la gratuità della rivelazione, dimentica che Dio si è manifestato come dono, si è fatto dono per noi e noi dobbiamo darlo, farlo vedere agli altri come dono, non come possesso nostro. Il clericalismo non è una cosa solo di questi giorni, la rigidità non è una cosa di questi giorni, già al tempo di Gesù c’era. E poi Gesù andrà avanti nella spiegazione delle parabole – questo è il capitolo 21 -, andrà avanti fino ad arrivare al capitolo 23 con la condanna, dove si vede l’ira di Dio contro coloro che prendono il dono come proprietà e riducono la sua ricchezza ai capricci ideologici della loro mente.
Chiediamo oggi al Signore la grazia di ricevere il dono come dono e trasmettere il dono come dono, non come proprietà, non in un modo settario, in un modo rigido, in un modo clericalista.
Venerdì, 13 marzo 2020
Sabato – “Vivere in casa, ma non sentirsi a casa”
Tante volte abbiamo sentito questo passo del Vangelo (cfr Lc 15,1-3.11-32). Questa parabola Gesù la dice in un contesto speciale: «Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”» (vv. 1-2). E Gesù rispose loro con questa parabola.
Cosa dicono? La gente, i peccatori si avvicinano in silenzio, non sanno cosa dire, ma la loro presenza dice tante cose, volevano ascoltare. I dottori della legge cosa dicono? Criticano. “Mormoravano”, dice il Vangelo, cercando di cancellare l’autorità che Gesù aveva con la gente. Questa la grande accusa: “Mangia con i peccatori, è uno impuro”. Poi la parabola è un po’ la spiegazione di questo dramma, di questo problema. Cosa sentono questi? La gente sente il bisogno di salvezza. La gente non sa distinguere bene, intellettualmente: “Io ho bisogno di trovare il mio Signore, che mi riempia”, ha bisogno di una guida, di un pastore. E la gente si avvicina a Gesù perché vede in Lui un pastore, ha bisogno di essere aiutata a camminare nella vita. Sente questo bisogno. Gli altri, i dottori hanno un senso di sufficienza: “Noi siamo andati all’università, ho fatto un dottorato, no, due dottorati. So bene, bene, bene cosa dice la legge; anzi conosco tutte, tutte, tutte le spiegazioni, tutti i casi, tutti gli atteggiamenti casistici”. E hanno un senso di sufficienza e disprezzano la gente, disprezzano i peccatori: il disprezzo verso i peccatori.
Nella parabola, lo stesso, cosa dicono? Il figlio dice al Padre: “Dammi i soldi e me ne vado” (cfr v. 12). Il padre dà, ma non dice nulla, perché è padre, forse avrà avuto il ricordo di qualche ragazzata che aveva fatto da giovane, ma non dice nulla. Un padre sa soffrire in silenzio. Un padre guarda il tempo. Lascia passare dei momenti brutti. A volte l’atteggiamento di un padre è “fare lo scemo” davanti alle mancanze dei figli. L’altro figlio rimprovera il padre: “Sei stato ingiusto”.
E cosa sentono questi della parabola? Il ragazzo sente voglia di “mangiarsi il mondo”, di andare oltre, di uscire di casa, forse la vive come una prigione. E ha anche quella sufficienza di dire al padre: “Dammi quello che tocca a me”. Sente coraggio, forza. Cosa sente il padre? Il padre sente dolore, tenerezza e molto amore. Poi quando il figlio dice quell’altra parola: «Mi alzerò – quando rientra in sé stesso – mi alzerò e andrò da mio padre» (v. 18), trova il padre che lo aspetta, lo vede da lontano (cfr v. 20). Un padre che sa aspettare i tempi dei figli. Cosa sente il figlio maggiore? Dice il Vangelo: «Egli si indignò» (v. 28), sente quel disprezzo. E a volte indignarsi, è l’unico modo di sentirsi degno per quella gente.
Queste sono le cose che si dicono in questo passo del Vangelo, e le cose che si sentono.
Ma qual è il problema? Il problema – cominciamo dal figlio maggiore – il problema è che lui era a casa, ma non si era accorto mai di cosa significasse vivere a casa: faceva i suoi doveri, faceva il suo lavoro, ma non capiva cosa fosse un rapporto di amore con il padre. Quel il figlio «si indignò e non voleva entrare» (v. 28). “Ma questa non è la mia casa?” – aveva pensato. Lo stesso dei dottori della legge. “Non c’è ordine, è venuto questo peccatore qui e gli hanno fatto la festa, e io?”. Il padre dice la parola chiara: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo» (v. 31). E di questo, il figlio non se n’era accorto, viveva a casa come fosse un albergo, senza sentire quella paternità… Tanti “alberganti” nella casa della Chiesa che si credono i padroni! È interessante: il padre non dice alcuna parola al figlio che torna dal peccato, soltanto lo bacia, lo abbraccia e gli fa festa (cfr v. 20); a questo invece [il maggiore] deve spiegare, per entrare nel suo cuore: aveva il cuore “blindato” per le sue concezioni della paternità, della figliolanza, del modo di vivere.
Ricordo una volta un saggio sacerdote anziano – un grande confessore, è stato missionario, un uomo che amava tanto la Chiesa – parlando di un sacerdote giovane molto sicuro di sé stesso, molto credente, che pensava di valere, di avere dei diritti nella Chiesa, diceva: “Io prego per questo, perché il Signore gli metta una buccia di banana e lo faccia scivolare: quello gli farà bene”. Come se dicesse – sembra una bestemmia –: “Gli farà bene peccare perché avrà bisogno di chiedere perdono e troverà il Padre”.
Tante cose ci dice questa parabola del Signore che è la risposta a coloro che lo criticavano perché andava con i peccatori. Ma anche oggi tanti, gente di Chiesa, criticano coloro che si avvicinano alle persone bisognose, alle persone umili, alle persone che lavorano, anche che lavorano per noi. Che il Signore ci dia la grazia di capire qual è il problema. Il problema è vivere in casa ma non sentirsi a casa, perché non c’è rapporto di paternità, di fratellanza, soltanto c’è il rapporto di compagni di lavoro.
Sabato, 14 marzo 2020