Nel Tempo di Passione contempliamo la sofferenza di Gesù per riconciliarci con il fatto di essere deboli e mortali, disturbati e minacciati da altri, destinati alla morte. Ciò ci rende umani e ci libera dalla paura che più profondamente si annida in noi: che certamente non possiamo essere come Dio. E ci libera anche dalle sofferenze sostitutive che internamente non ci aiutano nella nostra crescita.

IL TEMPO DI PASSIONE

P. Carmelo Casile

Nelle due ultime settimane prima di Pasqua è messa in primo piano la Passione di Gesù. I motivi per cui la Chiesa c’invita a meditare sulla Passione di Gesù sono tre.

Il primo consiste nel fatto che l’uomo fugge volentieri dal dolore. Tuttavia, nell’essere umano, la sofferenza fa parte necessariamente della sua esistenza limitata (= della sua creaturalità), di cui fanno parte i suoi condizionamenti e debolezze, e la sua stessa mortalità (= il suo essere-per-la-morte). Nonostante ciò, molti non vogliono riconoscere che sono limatati e mortali e si comportano come se fossero dèi. Qui ha le sue radici il peccato originale: nel voler essere come Dio, onnipotenti, autosufficienti, indiscutibili. Da questo peccato originale proviene tutto il male. Allora, ognuno si deve nascondere dall’altro, visto che certamente non siamo Dio, ma assoluta nudità. Così ridotto, uno sente invidia dell’altro e decide di eliminarlo dal cammino della vita, per poter affermare la propria grandezza, come Caino. 

Durante il Tempo di Passione, la Chiesa ci propone la contemplazione di Dio che soffre, affinché ci allontaniamo dalla nostra follia di grandezza, dall’anelito di voler essere come Dio. Questa monomania (= delirio limitato a una sola idea) di grandezza non soltanto conduce a nuovi peccati, ma ci porta anche alla malattia. Chi non vuole affrontare i dispiaceri della sua esistenza limitata va in cerca d’altre sofferenze in sostituzione della necessaria sofferenza dell’uomo nella sua esistenza. 

Chi pensa che è il migliore, il più grande di tutti, che deve fare tutto perfettamente, questi finisce per trovarsi in una neurosi di angoscia. Oggi si possono notare molti surrogati della sofferenza. C’è chi soffre di problemi gastrici o d’ulcera dello stomaco per il fatto che non può sopportare che il mondo non si orienti secondo le sue idee e si rode dentro per il dispiacere di questa delusione. C’è ancora chi viene colto da infarto cardiaco perché scappa da se stesso e si stordisce con un’attività costante. Tutti i cammini di fuga dalla sofferenza conducono ad una nuova sofferenza, a sofferenze sostitutive.

Nel Tempo di Passione contempliamo la sofferenza di Gesù per riconciliarci con il fatto di essere deboli e mortali, disturbati e minacciati da altri, destinati alla morte. Ciò ci rende umani e ci libera dalla paura che più profondamente si annida in noi: che certamente non possiamo essere come Dio. E ci libera anche dalle sofferenze sostitutive che internamente non ci aiutano nella nostra crescita.

Il secondo motivo per cui la Chiesa ci mette a confronto con la Passione di Cristo, consiste nel fatto che possiamo ritrovare noi stessi precisamente in questo Gesù sofferente. Ripercorriamo la sua Via crucis e scopriamo che ricalca le stazioni della nostra stessa vita. Nella sofferenza di Gesù diventa ammissibile e si dignifica anche la nostra. Non dobbiamo reprimerla. Non è necessario che consumiamo energie per mostrarci forti davanti agli altri, quando invece stiamo male. Non abbiamo bisogno di farci alcun rimprovero quando siamo in conflitto con noi stessi. Possiamo avere dei problemi con gli altri e possiamo essere ammalati. Non viviamo sotto la pressione che per forza dobbiamo essere normali e completamente sani. In Gesù vediamo che c’è spazio presso Dio per la nostra sofferenza.

C’è ancora un terzo motivo che spinge la Chiesa a celebrare la passione di Gesù. Ci mostra che nella nostra sofferenza non siamo soli, ma in compagnia di Gesù. La sofferenza ci unisce a Lui. Chi soffre si sente spesso completamente solo, escluso dal circolo dei sani, isolato. Ciò lo sa perché lo sperimenta, chiunque è affetto da una malattia incurabile. Gli altri gli girano attorno, cercano di evitarlo. Egli stesso ha paura di essere di inciampo e quindi di confidare ad un altro il suo stato d’infermità, perché ciò certamente lo turberebbe nei suoi sentimenti e nel suo benessere. La celebrazione della Passione ci rivela che la nostra sofferenza ci avvicina a Gesù. Sì, ci rivela che è un cammino per incontrarlo, per unirci a Lui ed essere un tutt’uno con Lui. La comunione con Cristo ci dà la forza per abbracciare la nostra situazione. Non abbiamo nessun motivo per sentirci esclusi dalla vita a causa della nostra sofferenza, neppure falliti o finiti; al contrario, dobbiamo sentirci come persone che Dio ha scelto e che giudica capaci di soffrire con Cristo perché siano anche glorificate con Lui.

INTRODUZIONE ALLA PASSIONE SECONDO MARCO

All’inizio della Settimana Santa è utile offrire un’introduzione generale al racconto della passione. Infatti, nella liturgia di questa settimana la Chiesa legge il racconto della passione per esteso, e può essere utile averne una visione d’insieme. Ma c’è anche una giustificazione più profonda: i cc. 14-15 di Marco costituiscono l’unità letteraria più ampia e più antica che il vangelo ci conserva, in funzione della quale è stato scritto il vangelo stesso. Infatti, il racconto della passione è il nucleo della tradizione primitiva cristiana che per primo è pervenuto alla forma di narrazione continua. Questo perché la passione di Gesù fu e resta, per i discepoli di allora e di sempre, il fatto più sconcertante, il primo interrogativo cui occorreva trovare una risposta, anche (e soprattutto!) dopo la risurrezione.

Faremo osservazioni: 1) sul testo; 2) sul contesto; 3) sulla cronologia della passione nel vangelo di Marco; 4) sul come leggere la passione; 5) infine offriremo alcuni spunti per la riflessione.

1. Il testo

I due capitoli della passione secondo Marco ci lasciano intravedere in modo molto più chiaro che in qualsiasi altra parte del vangelo, un racconto già ben strutturato che per primo era andato formandosi nella primitiva tradizione come risultato di varie esigenze e circostanze (per la celebrazione della cena del Signore, per la catechesi, per omelie a scopo parenetico o esortatorio). Anche gli altri evangelisti (cf. Mt cc. 26-27, soprattutto Lc cc. 22-23 e questa volta anche Gv cc. 18-19 (- la cui testimonianza è particolarmente preziosa, per mostrare quanto lo schema di questa antichissima narrazione avesse assunto un’importanza e una diffusione tutta speciale -) presentano a grandi linee la medesima successione dei fatti principali: dopo un’introduzione, il tradimento di Giuda, l’ultima cena, l’indicazione del traditore, l’arresto, il duplice processo, la crocifissione. Già da questi rilievi generali si può constatare la centralità del racconto della passione di Gesù nei vangeli, fino al punto da far intendere che tutti i capitoli precedenti sono una grande e articolata preparazione a questo momento, come evento culminante della sua vita.

Ciò appare evidente soprattutto in Marco, che fin dall’inizio del suo vangelo e poi via via in punti capitali, introduce la prospettiva della morte di Gesù come conseguenza e conclusione del suo ministero in mezzo alla gente: cf. già 1,14 (accostamento fra l’arresto del Battista e la predicazione di Gesù); 3,6; 8,31; 9,31; 10,33s.; e i cc. 11-13 i cui episodi sono ambientati in Gerusalemme e centrati in particolare sul tempio che sarà distrutto, così come Gesù sarà annientato sulla croce. Certamente anche in questi capitoli il testo di Marco – che peraltro rispecchia più fedelmente la tradizione primitiva – manifesta l’opera redazionale dell’evangelista, come apparirà dal commento ai singoli brani.

2. Il contesto

Il breve soggiorno di Gesù a Gerusalemme volge ormai al termine. I sommi sacerdoti e gli scribi tirano le fila della congiura che avevano tramato da lungo tempo. Le motivazioni e i retro scena di questo complotto, che qui viene solo nominato, risultano evidenti da tutta la narrazione che precede. In essa appare chiaro perché Gesù di Nazaret entra in conflitto con i capi del popolo: per il messaggio che porta e che incarna, egli provoca una rottura netta e inconciliabile con i criteri dominanti che i suoi nemici sostengono. Con lui, infatti, è giunta la liberazione del regno di Dio (1,15), che sovverte il codice di valori di tutti gli oppressori (cf. ultima disputa). Finalmente prende corpo la decisione di ucciderlo, che si era profilata fin dal primo incontro con Gesù (3,6). Tale decisione era stata solo accennata, ma aveva lasciato il lettore col fiato sospeso e aveva pesato su tutta la vita pubblica del Maestro come un’ombra, una fatalità incombente e oscura. Ai suoi discepoli, alla cui formazione si è ormai esclusivamente dedicato, Gesù ha chiarito il significato e la portata della sua uccisione (cf. le tre predizioni della passione e tutte le istruzioni di questa seconda parte del vangelo). Marco stesso, descrivendo Gesù nelle sue opere e nelle sue parole, ha mostrato al lettore attento come tale evento rientri nel disegno di Dio, al quale spetta l’ultima parola. Infatti, a tutta la storia di male e di cattiveria dell’uomo, che si riversa contro Gesù, Dio risponde rivelando la sua parola definitiva, che è risurrezione e vita donata a tutti.

Per timore della folla (14,2; cf. 11,18; 12,12), che lo ascoltava volentieri (12,37), i capi attendevano il momento buono per passare dalla decisione all’esecuzione. Ce n’è voluto di tempo per cogliere l’occasione propizia! Esattamente tutto quel tempo che è bastato a Gesù per compiere ciò che doveva fare. Per essere perpetrato, anche il male esige il suo tempo, e non riesce mai a impedire che intanto si compia tutto ciò che si deve!

Infatti questo tempo, che i suoi avversari hanno usato per ordire insidie, Gesù l’ha speso tutto nel fare il bene. Per questo ora i suoi discepoli, che l’hanno seguito di persona o mediante il racconto dell’evangelista, sono in grado di capire anche il significato della croce, che è il punto inevitabile d’incontro tra colui che opera il bene e colui che trama il male. La croce è lo scandalo finale che coglie Gesù e chi vuole seguirlo; è l’enigma fondamentale che i discepoli hanno potuto sciogliere solo alla luce del mattino di pasqua, rivedendo il significato di tutta la vita del Nazareno; che proprio sulla croce appare loro come la rivelazione di Dio.

Marco intende provocare i suoi lettori allo stesso scandalo del Dio crocifisso, in tutta la sua crudezza. Qui puntava tutto il suo racconto.

3. La cronologia

Per questo, se prima l’evangelista si accontentava di dati cronologici sommari, ora, giunto il grande dramma della passione, scandisce con precisione il tempo, inquadrandolo nell’arco di una settimana, come il racconto della creazione. Sta, infatti, presentando, com’è accennato nella prima parola del vangelo, il «principio» della nuova creazione, che scaturisce dalla morte del Cristo, Gesù, Figlio di Dio. Così tutta l’attività di Gesù a Gerusalemme è divisa in sette giorni, numero della perfezione:

1° giorno (11,1-11: domenica): salita di Gesù a Gerusalemme;

2° giorno (11,12-19: lunedì): maledizione del tempio e del popolo infedele (fico sterile);

3° giorno (11,20-13,37: martedì): rivelazione di Gesù signore e giudice della storia (5 dispute e discorso escatologico);

4° giorno (14,1-11: mercoledì): unzione messianica mentre è decisa la sua morte;

5° giorno (14,12-16: giovedì): preparazione della pasqua;

6° giorno (14,17-15,47: tenendo presente che per gli ebrei il giorno cominciava al calare del sole: venerdì): ultima cena, orazione nell’orto, arresto, processo davanti al sinedrio, condanna, svolgimento e compimento della passione, morte e sepoltura di Gesù. Pur cadendo probabilmente la pasqua in giorno di sabato, Marco la fa cadere di venerdì per far coincidere la pasqua ebraica con la morte e sepoltura di Gesù (cf. 14,1). Questo lo fa per un profondo motivo teologico: vuol mostrare come la vera pasqua si compia con l’uccisione del vero agnello. Nel sesto giorno la creazione è compiuta. E Cristo che muore in croce, dando il suo Spirito, è il compimento della nuova creazione.

Il 7º giorno, il giorno del sabato, il giorno santo di Dio, il giorno del suo riposo coincide col riposo di Gesù nel sepolcro. È il giorno della discesa agli inferi, il giorno morto, il giorno del silenzio. La creazione, uscita dal silenzio, torna al silenzio e tace e dorme col Cristo nella tomba, ridotta al nulla da cui è sorta. Ma in Cristo, fedele a Dio, essa è affidata alla fedeltà del Dio dei vivi. Egli non permette al suo Cristo di vedere la corruzione (Sal 16,10), e riscatta dalla morte chi gli è fedele. A questo giorno, che è il sabato, il giorno della vita attraverso la morte, non è dedicato nessun versetto: si fa cenno solo che è «passato» (16,1), per lasciare il posto al vero 7º giorno, chiamato anche l’«ottavo giorno», in cui il «sole è già sorto» (16,2-8): è il giorno della risurrezione, il giorno del vero riposo di Dio, il giorno definitivo di festa di Dio e dell’uomo, in cui ormai vive la nuova creazione, vero tempio di Dio aperto a tutti. È il giorno ultimo, in cui si rivela il volto di Dio tra gli uomini, il giorno del «vangelo», cioè del lieto annuncio della vita di Dio comunicata agli uomini; è il giorno dell’ascesa a Gerusalemme nella gioia e nell’abbondanza dei frutti (a differenza di 11,1-11!); è il giorno carico di giustizia, di pace e di amore, il «giorno del Signore» («domenica»!) donato in Gesù all’uomo (cf. 2,27!).

In questa inquadratura si può osservare che, se il momento finale è la gloria della risurrezione, il punto centrale più sviluppato e più lungo del dramma è costituito dal venerdì santo, il giorno del compimento della creazione che culmina sulla croce. In essa, infatti, Marco – e prima di lui la comunità dei discepoli – ha colto il punto decisivo della storia di Gesù, che rende conto di tutta la sua vita prima e dopo la morte. Per questo il venerdì – che presenta l’ultima ora della terra e che inizia nelle tenebre della notte per terminare nell’oscurità del mezzogiorno e nel silenzio della tomba – è il giorno più lungo di tutto il vangelo, il giorno pieno, descritto in modo dettagliato, senza perdere nessun momento. Della notte si scandiscono tutte le quattro veglie mediante la successione dei fatti: ultima cena, agonia nell’orto, cattura e, infine, sua rivelazione davanti al sinedrio. Dopo questa sua rivelazione tanto luminosa, che oscura tutto, anche le ore del giorno, che finiranno appunto nelle tenebre, sono scandite con cura di tre in tre: il mattino la condanna (15,1); ore 9 la crocifissione (15,25); ore 12 si oscura il sole di mezzogiorno (15,33); ore 15 rivelazione di Dio nella morte in croce (15,34ss.) e al tramonto la sepoltura (15,42).

In questa inquadratura vediamo dei profondi significati teologici che danno il senso di tutta la passione. Innanzitutto la coincidenza della morte di Gesù con la pasqua ebraica vuol dimostrare come la nostra pasqua, la festa della nostra liberazione, si compie sulla croce: è in essa che l’uomo è riscattato dalla schiavitù. Questo è il senso della croce, sapienza di Dio, che l’uomo non può cogliere. Inoltre il venerdì è il sesto giorno della creazione, quello del suo compimento, quando fu creato Adamo «a immagine e somiglianza di Dio». Ma Adamo, per voler essere Dio, cadde e perse se stesso, perdendo colui del quale era immagine. Anche il venerdì in cui Gesù muore è il sesto giorno del suo soggiorno a Gerusalemme, il giorno del compimento della sua opera. Infatti, sull’albero della croce si ripara la caduta di Adamo e riappare sul volto di Gesù il vero volto di Dio (15,39). Finisce così la vecchia creazione posta sotto il segno del male e della morte, e si compie la nuova creazione, quella del nuovo Adamo.

Nella storia della passione si può leggere la controstoria di Adamo: Gesù è il nuovo Adamo, che percorre a ritroso tutta la storia di peccato del vecchio Adamo. Per questo tutto il male del mondo si riversa su di lui che, operando solo il bene, nuota contro la corrente del fiume della storia. Nella sua morte giunge alla fine dell’opera, e ricompone l’uomo con la sua immagine, ma in un modo nuovo e inatteso, solo adombrato nella prima creazione: dell’uomo morto in croce, infatti, il centurione dirà: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio» (15,39). Così nel cammino inverso a quello di Adamo, viene vinto e capovolto il peccato dell’origine. L’uomo ritrova il suo volto tanto cercato… «Ecce homo!». È il volto stesso di Dio che ha cercato l’uomo e l’ha trovato nella sua morte.

4. Come leggere la passione

Si è detto che i vangeli sono «una storia della passione preceduta da una lunga introduzione». Ciò vale in modo particolare per il vangelo di Marco, che è tutto un commento retrospettivo alla passione stessa.

Per intendere nella giusta luce l’opera di Marco, bisogna però anche tener presente che il suo è «un libro delle epifanie segrete», in cui la gloria di Dio si manifesta non nel fulgore di una trascendenza schiacciante, ma nell’ignominia della sua impotenza assoluta: solo nella sua morte, non prima, l’uomo può riconoscere Gesù nella sua realtà di Figlio di Dio.

Per i primi discepoli, la difficoltà più grave non fu quella di ammettere che il Crocifisso era risorto, ma quella di riconoscere nel Risorto il Crocifisso. Il vangelo, infatti, non fu scritto per provare che, nonostante il tragico fallimento della croce, poi tutto si è risolto per il meglio. L’intento del vangelo è mostrare che il Cristo, Figlio di Dio, glorificato nella risurrezione, è Gesù-servo-crocifisso, e non c’è altra via alla vita che quella della croce. Se uno ritiene semplicemente che il Crocifisso è risorto, riduce la fede cristiana a un mito di risurrezione e non coglie il mistero dell’uomo Gesù, la gloria del vangelo, la lieta e stupefacente notizia che il Risorto è il Crocifisso.

Per chi ha letto il vangelo, il racconto della passione per sé non andrebbe commentato.

Va solo contemplato, pregato, vissuto.

Nei salmi dell’antico Israele era la realtà sofferta, l’esperienza vissuta e meditata, che si faceva parola e preghiera davanti a Dio.

Qui è la parola e la presenza di colui che sta presso Dio, che entra nella storia umana, assumendo un corpo uguale al nostro: il Verbo infatti si è fatto carne in Gesù.

Il passio può quindi essere considerato il più grande salmo, se per salmo s’intende non la storia che si fa parola, ma la Parola che si fa storia. È il più grande salmo storico in senso pieno; la realtà di cui tutte le Scritture hanno parlato (cf. Lc 24,25ss.). É insieme la preghiera dell’uomo che si fa realtà e la realtà assoluta di Dio che si fa preghiera per l’uomo; è la preghiera-realtà, alla quale tutto il resto delle Scritture in generale e del vangelo in particolare predispone e prepara. 

In esso ogni parola è contemplazione, e insieme tacita preghiera che fonda la Chiesa, nell’invocazione a identificarsi con colui che contempla. Ma tutto resta incomprensibile, se non si vede la passione violenta di Dio che cerca l’uomo, il suo amore per noi che si consuma nella sua morte. Non si può cogliere il mistero della croce, se non si vede lì il mistero dell’amore di Dio. L’amore, infatti, porta fuori di sé, dilata l’animo e si fa carico di tutto (cf. 1Cor 13,7): Dio, sulla croce di Cristo, raggiunge il punto più lontano da sé, e abbraccia l’universo e si fa carico di tutto il mondo. Sulla croce si manifesta pienamente chi è Dio: il Dio diverso, il Dio amore in tutta la sua passione d’amore, di quell’amore che lo rende assolutamente diverso da sé.

La croce è la rivelazione della verità stessa di Dio che è amore. E questa rivelazione è croce perché è insieme la rivelazione della verità dell’uomo che cerca Dio in una situazione di male – che è la violenza subita da chi opera il bene, la storia negativa di chi subisce il male. Dato il male del mondo, la croce si pone quindi come il luogo inevitabile d’incontro tra Dio che cerca l’uomo e l’uomo che cerca Dio: è l’incrociarsi di due passioni, di Dio e dell’uomo, che ambedue si perdono per ritrovarsi l’uno nell’altro. La croce è, infatti, l’espressione totale dell’umanità di Dio e della divinità dell’uomo.

Oltre Gesù, intorno alla cui persona gravita tutto il passio, ci sono tante altre figure (i discepoli, Pietro, il popolo, Pilato, i sacerdoti, ecc.): esse non sono un semplice contorno. Non devono tuttavia neanche stornare l’attenzione di chi contempla. Sono le ombre della cecità umana, che la piena luce di Cristo mette in risalto; sono quegli elementi negativi, nei quali facilmente ci riconosciamo: siamo noi, ancora lontani dall’essere assimilati dalla piena luce di Cristo, che invochiamo.

Mentre in genere nella preghiera biblica si loda Dio a piena voce, perché si cantano le cose che egli ha fatto per noi, nel passio tace ogni voce, anche di lode. La parola stessa dell’uomo tende a scomparire dietro il nudo fatto, e cede il posto a una cronaca molto sobria, anzi cruda. Si usa la parola solo per quel tanto che serve a dare corpo narrativo al fatto, senza velarlo con commenti, sia pure di preghiera. Questo perché il passio è quella preghiera tutta particolare, nella quale non si narra che cosa Dio ha fatto, ma che cosa Dio si è fatto per noi. Dio è insieme soggetto e oggetto nell’azione! Lo stupore di chi narra e di chi legge è tale, che la parola viene meno e si riduce all’essenziale, lasciando parlare questa storia stessa, tanto eloquente che nessuna parola umana ne può esprimere un commento. È Dio che si è totalmente espresso, e presenta se stesso a noi e si dona nella morte di Gesù. Si rivela così, senza velo, la sua smisurata passione per l’uomo, quel suo amore senza limiti che lo porterà molto lontano, fino ad essere totalmente diverso da sé, per portare su di sé e assorbire nel suo amore infinito tutto, anche l’infinitamente contrario.

Il racconto della passione sembra sgorgare dall’incontro di due silenzi: il silenzio del Dio vivente che di sua natura è inesprimibile, e il silenzio dell’uomo, che di sua natura tace perché è mortale.

Come nella parola di lui, che è vita, fu suscitata la vita del mondo per la morte, così nel silenzio della sua morte in croce scaturisce il nuovo mondo che non conosce più la morte: sulla croce del Cristo morente, il silenzio di Dio si fa parola di vita, che riempie il silenzio dell’uomo.

5. Spunti di riflessione

Gesù non è morto, è stato ucciso! È una verità spesso dimenticata. La differenza tra la morte e l’uccisione è enorme. La prima è un processo di carattere naturale per cui il progressivo deteriorarsi dell’organismo vivente conduce inevitabilmente alla cessazione della vita. La seconda è martirio (dal greco «martyrein»: testimoniare), cioè appunto testimonianza di vita, che sostanzia come tali i valori vissuti: è la vita che diventa trasparenza di sé, e giunge al suo compimento testimoniandosi fin dentro la morte. L’uccisione non è quindi un evento naturale negativo, ma una morte «attiva», causata da colui che muore, il quale, proprio nel suo morire, identifica la sua vita con le sue ragioni di vita. Si tratta di una identificazione della vita col suo fondamento: così la vita, invece di giungere alla sua fine, raggiunge veramente il suo fine.

Mentre quindi la morte è la fine, il martirio è il fine di una vita. Che Gesù non sia stato ucciso incidentalmente, ma sia martire dei valori per cui vive, risulta chiaro fin dalla prima pagina del vangelo.

Inoltre è da osservare che Gesù è stato ucciso giustamente (!) dal potere religioso e civile, rispettivamente come bestemmiatore e come sovversivo. Il suo messaggio e la sua esistenza, infatti, rappresentano una bestemmia inaudita per ogni persona religiosa: un uomo che si fa Dio! (cf. 2,7; 14,64). Per il potere civile, invece, Gesù è un elemento pericoloso, da eliminare: infatti, è il Messia, che deve restituire la sua dignità al popolo umiliato, e che fa consistere la vera grandezza nel servizio, sovvertendo ogni codice sociale, per cui il primo è schiavo di tutti (cf. 9,35; 10,42-44).

Per questo Gesù finisce fra i peccatori (15,28) e subisce sul patibolo della croce la morte dello schiavo ribelle.

Tutto questo fa parte essenziale del vangelo, in quanto lieto annuncio della figliolanza divina e della piena liberazione dell’uomo da ogni schiavitù.

Alla testimonianza di Gesù, gli evangelisti contrappongono la controtestimonianza dei discepoli, che colpisce il cristiano quasi più della cattiveria o vigliaccheria o incomprensione degli altri uomini. Queste scene, che occupano ampi spazi nel racconto della passione, hanno un valore insieme cristologico e parenetico: mostrano cioè, per contrasto, la figura di Gesù, e indicano contemporaneamente alla Chiesa la distanza tra ciò che essa è e ciò che dovrebbe diventare, per essere con Cristo.

Da questo fatto assume un particolare rilievo la solitudine di Gesù, dalla scena dell’orto alla defezione dei discepoli e al rinnegamento di Pietro. È una solitudine vasta quanto il mondo. Sullo sfondo il tradimento di uno dei suoi e del suo popolo, tradimento incomprensibile, almeno pari all’incomprensibilità di quest’uomo Gesù. A questo si aggiunga l’accanimento ben comprensibile e scontato dei capi religiosi e civili del popolo, che capiscono, ma non possono accettare!

L’abbandono da parte di Dio (15,34), realmente vissuto, è il centro dell’agonia di Gesù. E il calice più amaro che Gesù ha assaporato, la solitudine più completa di chi, odiato o abbandonato dagli uomini che ama, si domanda con gli altri: «Dov’è il mio Dio?» (cf. Sal 42,4-11; 79,10). E constata con angoscia che umanamente è vero quel che dicono tutti intorno: «Per lui non c’è salvezza nel suo Dio» (cf. Sal 3,3; cf. 15,29-34), mentre tutto dà ragione all’insensato che dice: «Dio non c’è» (Sal 14,1). Gesù sperimenta fino in fondo il silenzio e l’assenza di Dio. È l’uomo annientato, che, lottando per il bene, porta sulle spalle il cumulo di ogni maledizione, e si sente abbandonato da tutti.

La lontananza da Dio costituisce l’abisso misterioso del male del mondo: l’abbandono di Dio è il peccato di Adamo che l’uomo Gesù porta su di sé, e ne è schiacciato.

Marco ci presenta questa situazione di Gesù in tutta la sua crudezza, senza recuperi o attenuanti, a differenza degli altri evangelisti.

Gesù ha bevuto fino alla feccia l’esperienza negativa più profonda dell’uomo, ed è stato inghiottito da questo calice troppo grande di morte. Gesù ha toccato il limite ultimo dell’angoscia umana, dove l’uomo non può non disperare. Ma in questa situazione Gesù ha sperato contro ogni speranza; e si abbandona al Padre che l’ha abbandonato, con preghiera e fiducia filale. È la fede piena come abbandono totale alla fedeltà di Dio, verso il quale si grida proprio nella disperazione.

Tipico del vangelo di Marco, il «libro delle epifanie segrete», è la manifestazione di Dio «sub-contrario» delle nostre aspettative: è la logica della croce, croce, che contraddice ogni logica umana (cf. 1Cor 1,17-2,5).

Ecco allora che l’agonizzante è colui che lotta con lucida volontà (14,32-42). Il catturato parla con libertà piena (vv. 48ss.). Il giudicato dagli uomini è il giudice supremo (v. 62). Il reietto e incoronato di spine è il vero re, e il patibolo dello schiavo è il suo trono sovrano. Colui che non si salva è il salvatore del mondo (15,1-32). Il sole di mezzogiorno impallidisce come la luna al mattino e scompare di fronte a tanta luce (v. 33); e «l’alto grido» (v. 37) di Gesù, che risuona come disperata impotenza di fronte alla morte, è in realtà il gemito prepotente della nuova creazione che sta per nascere: al suo grido si squarcia il velo del tempio (v. 38), e la gloria di Dio appare per la prima volta sulla terra (v. 39). Dio ha udito finalmente il gemito del povero e dell’oppresso che sale dalla terra al cielo.

Se Dio l’ha abbandonato fino in fondo, fino alla morte, la sua morte è la ratifica di tutta la sua vita da parte di Dio: lui è il servitore di Jahvè, nel cui corpo morente si assomma tutta la negatività del cosmo, che in esso muore. La morte, nemico estremo dell’uomo, è vinta (cf. 1Cor 15,26), per dar luogo alla vita senza più limite o tramonto. Nella sua morte si ha la realizzazione totale del «vangelo», cioè del «gioioso annuncio» che Dio è l’uomo Gesù, «primizia di quelli che sono morti» (1Cor 15,20), il «primogenito di tra i morti» (Col 1,18), primo di una numerosa schiera di fratelli (Rm 8,29). Come lui, per lui, e in lui, che per primo ha rotto il velo del tempio, anche noi ora passiamo raggiungere, seguendo il suo stesso cammino, il nostro desiderio più recondito: «sarete come Dio» (Gen 3,5). Infatti, non solo siamo chiamati, ma siamo ora in realtà figli di Dio (cf. 1Gv 3,1).

Se la potenza di Dio ci aveva creati nell’impotenza umana come uomini mortali, la sua impotenza umana in Gesù morente ci ha generati come figli immortali.

L’esclamazione del centurione: «Veramente quest’uomo era figlio di Dio!» (15,39), è l’apice di tutto il vangelo di Marco. Essa riassume in sé e risolve, nell’espressione di fede, tutta la contraddittorietà di cui sopra: il nostro Dio è l’uomo crocifisso, Gesù. «Ecco il nostro Dio!», annuncia in tono provocatorio il vangelo. La gloria di Dio risplende solo sul volto di questo Cristo (cf 2Cor 4,6).

Non conosciamo, non riconosciamo altro Dio (cf. 1Cor 2,2-5). Questo è scandalo per ogni persona religiosa e follia per ogni persona di buon senso, dice Paolo (1Cor 1,23). Marco accentua volutamente questo scandalo e questa follia, facendo riconoscere Gesù nella sua realtà solo sulla croce, non prima!

Solo lì possiamo riconoscere che è il nostro unico Signore. Chi lo segue solo fino all’ultima cena e non lo riconosce sulla croce, non è cristiano: la croce è la sua esaltazione piena. Questo è il grande mistero da capire, la rivelazione sconvolgente che ha scandalizzato e colto di sorpresa anche i primi discepoli: Dio è il carpentiere Gesù, ucciso come bestemmiatore e sovversivo, per essere stato solidale con gli uomini fino in fondo, in un modo in cui solo Dio può esserlo.

Marco dice espressamente che il centurione – figura oltre che del mondo pagano, anche del discepolo che ha seguito fino a questo punto il racconto del vangelo – fa la sua professione di fede perché ha «davanti agli occhi» Gesù che era spirato «così» (v. 39a).

Gesù fu messo nel sepolcro (v. 46); fu restituito, come ogni vivente, al grembo della terra. È il mistero dell’uomo-Dio, che è morto.

È insieme il mistero dell’uomo attuale, posto ancora nella realtà tra il venerdì santo e il sabato di risurrezione: il mistero del silenzio di Dio. Nel sepolcro si manifesta ancora una volta, e in modo decisivo, la realtà di Dio che ancora non si è manifestata. Nel sepolcro è raffigurato il fallimento totale, il risultato tangibile della giusta disperazione dell’uomo, per il quale veramente non c’è salvezza: in modo che l’unica salvezza sia la fedeltà di Dio a se stesso. Ma Dio ancora tace. In questo fallimento dell’uomo e nel silenzio di Dio è chiusa l’esistenza cristiana, come fede pura nel Dio fedele, come speranza contro ogni speranza.

«Non è più qui» (16,6). Marco non narra le apparizioni del Risorto (i vv. 9ss., pur essendo canonici, non provengono da Marco). Il suo vangelo termina proprio con l’annuncio del «vangelo» ad ogni creatura, che consiste appunto nel gioioso annuncio che il sepolcro è vuoto e lui «non è qui». Eppure ogni uomo finisce e resta qui. E qui, nella tomba, tutti, i discepoli compresi, si aspettano di ritrovarlo.

Il sepolcro vuoto è lo svuotarsi dell’attesa umana: «è qui!», e il vuoto della domanda: «perché non è qui?». Questo vuoto viene riempito e questa domanda trova la sua risposta nell’annuncio del «vangelo»: il sepolcro, l’artiglio della morte, ha mollato la sua preda!

L’uomo, che nella sua «umiltà» essenziale viene dalla terra e ad essa ritorna, non è più quello di prima: l’abisso restituisce, per la potenza creatrice di Dio fedele al suo amore, una nuova creatura.

Gesù, che «così» è vissuto ed è spirato, «non è più qui», ed è presente a noi nella sua assenza, come colui che ci ha indicato e aperto il cammino del Dio dei vivi, alla cui destra ci attende.

Questo cammino non è quello della trascendenza, quello del vecchio Adamo che voleva essere simile a Dio sfuggendo alla sua reale condizione umana, di terrestrità: è il cammino della condiscendenza, la via della solidarietà e dell’umiliazione (cf. Fil 2,5-11), in cui l’uomo scopre nella propria umiltà la sua verità, e Dio gli viene incontro.

Questa tomba vuota, dove è uccisa la morte, questa affermazione: «non è qui» illumina di luce insospettata la promessa di Dio e fa nascere un nuovo interrogativo pieno di speranza. Esso sta all’origine del «vangelo», che ne è la risposta. E il vangelo è Gesù Cristo Figlio di Dio (cf. 1,l).

È il segreto svelato alle donne, che devono annunciare ai discepoli di tornare in Galilea (16,7), dove Gesù ha vissuto e iniziato il suo annuncio (cf. 1,14). Così il discepolo, per scoprire tale segreto, è rinviato all’inizio del racconto del vangelo, dove, contemplando e seguendo Gesù fino alla fine, sperimenterà egli stesso il mistero del sepolcro e troverà finalmente la risposta al fatto che «non è più qui!».

Ora comprendiamo anche perché Marco non riferisce le apparizioni del Risorto: pone invece, al centro del suo racconto, la scena della trasfigurazione (9,1-8). Questa sta a significare che il discepolo che segue Gesù fino alla croce (cf. 8,34ss.), sperimenterà il regno di Dio con potenza e non gusterà la morte (cf. 9,1). La risurrezione avviene già in questa vita, come il raccolto insperato e prodigioso è presente già nel seme (cf. le parabole del c. 4): questa nostra realtà stessa si trasfigura nella sua assoluta miseria, e lascia trasparire sempre più chiaramente, nel volto del Crocifisso, la gloria di Dio comunicata agli uomini.

Lo spavento e il silenzio, che chiude il vangelo (16,8), esprime la sorpresa di chi ha visto questa gloria nel Crocifisso. Essa non è esprimibile mediante parole umane, ma solo mediante un ritorno in Galilea, dove si contempla e si segue fino al Golgota Gesù, la parola del Dio vivente: se la sua vita, nella forza dello Spirito di Dio (cf. 1,8.10.12), diventa la via del discepolo, ne diventa anche la vita senza fine.

ESERCIZIO MEDITATIVO

IL SACRIFICIO DELL’OBBEDIENZA

Obbedire è meglio del sacrificio,
essere docili è più del grasso degli arieti”
(1Sam 15, 22).

Gesù è il “cuore nuovo”, che Dio Padre ha promesso di trapiantare nell’uomo dal cuore malato a causa della sua ribellione a Dio (Ez 36, 25-27). 

Per capire il processo di questo trapianto, fissiamo lo sguardo sul cuore malato del vecchio Adamo e sul cuore nuovo del secondo Adamo, che è il Signore Gesù. 

Cominciamo contemplando il Figlio, Cuore della creazione che palpita nel cuore dell’umanità, nel cuore di ogni uomo:

Dio, che aveva parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai Padri
per mezzo dei profeti,
ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio,
che ha costituto erede di tutte le cose
e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo;
questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria
e impronta della sua sostanza
e sostiene tutto con la potenza della sua Parola.
Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati
si è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli”
(Eb 1, 1-3).

Questo Figlio, che fin dall’eternità è Dio “presso Dio” come Figlio unigenito, è divenuto uomo in Gesù di Nazaret. Egli è Icona del Padre: il suo Volto, irradiazione della gloria del Padre e impronta della sua sostanza, immagine del Dio invisibile, è rivolto verso il Padre, travolto dal suo amore, rapito dal suo fascino…

Chiediamo al Signore Gesù che lasci che lo splendore eterno del Volto del Padre squarci il velo della nostra carne e risplenda davanti ai nostri occhi:

Mostracelo e questo ci basta”
Nessuno ha visto il Padre, se non colui che viene da Dio,
quello ha visto il Padre”
Chi vede me, vede il Padre”

L’inno delle Lettera ai Filippesi descrive l’avventura del Figlio di Dio Fatto uomo:

«Cristo Gesù, essendo per natura Dio, non stimò un bene irrinunciabile l’essere uguale a Dio, ma annichilì se stesso prendendo natura di servo, diventando simile agli uomini; e apparso in forma umana si umiliò facendosi obbediente fino alla morte e alla morte in croce. Per questo Dio lo ha sopraesaltato ed insignito di quel nome che è superiore a ogni nome, affinché, nel nome di Gesù, si pieghi ogni ginocchio, degli esseri celesti, dei terrestri e dei sotterranei e ogni lingua proclami, che Gesù Cristo è Signore, a gloria di Dio Padre».

Questo antichissimo inno delle prime comunità cristiane ci introduce nello spirito del Mistero Pasquale di Cristo Gesù, Figlio obbediente del Padre, mettendo in risalto le diverse tappe del Mistero di Gesù di Nazaret:

  • la preesistenza divina;
  • l’abbassamento dell’incarnazione; 
  • l’abbassamento ulteriore della morte; 
  • la glorificazione celeste; 
  • l’adorazione dell’universo; 
  • il titolo nuovo di Cristo e Signore. 

Si tratta del Cristo storico, Dio e uomo, nell’unità della sua personalità concreta. 

Davanti all’uomo che, non essendo Dio, vuole raggiungere la divinità con le sue proprie forze, suggestionato dall’anti-parola di Satana: “diventerete come Dio (Gn 3, 5), sorge l’altro uomo che si spoglia delle sue prerogative divine e stabilisce una nuova relazione con Dio nell’obbedienza filiale, facendosi in tutto simile ai fratelli (Eb 2, 17) e spogliandosi, inoltre, di ogni prerogativa umana, facendosi servo, umiliandosi, consegnando la sua stessa vita sulla croce in favore dei suoi amici (cf Gv 15, 13). È il vero Adamo: l’uomo come veramente Dio l’aveva voluto: un uomo che incarna l’amore! Un amore reso visibile dall’obbedienza; un’obbedienza che costa terribilmente perché il vecchio Adamo ha cambiato natura all’uomo: da figlio lo ha reso ribelle.

E, in fine, stabilisce la giusta relazione con l’universo intero: cieli, terra, inferi lo proclamano Signore. 

La morte viene vinta e con essa ogni male. L’uomo ritorna ad essere figlio di Dio, ritorna all’Amore da cui era nato. 

L’inno si conclude con il riferimento al Padre, che sembrava che si fosse nascosto lungo la parabola che portò il Figlio-Gesù non solo a spogliarsi delle prerogative divine, ma anche di ogni prerogativa umana. Ancora di più, è piaciuto al Signore prostrarlo con dolori, perché offrisse se stesso in espiazione e, una volta chiamato alla vita, ricevesse in eredità le moltitudini (cf Is 53, 10-12).

Il nostro sguardo contemplativo può abbracciare adesso simultaneamente il vecchio ed il nuovo Adamo, il cuore malato ed il cuore nuovo: 

✔ Nel vecchio Adamo c’è un uomo che perde la gloria di Dio (Rom 3, 23);
nel nuovo Adamo c’è uno che è irradiazione della gloria del Padre (Eb 1, 3). 

✔ Nel vecchio Adamo c’è uno che ha infangato la somiglianza con Dio e vive nella tristezza degli esiliati (Gn 3, 23-24; 2Cor 5, 6);
nel nuovo Adamo c’è uno che è immagine del Dio invisibile (Col 1, 5). 

✔ Nel vecchio Adamo c’è uno pieno di sé stesso, che uguaglia la sua mente a quella di Dio (Ez 28, 2);
nel nuovo Adamo c’è uno che vuota sé stesso fino ad annientarsi (Fil 2, 7).

✔ Nel vecchio Adamo c’è uno irresistibilmente spinto a dominare il suo prossimo (Gn 3, 16b); 
nel nuovo Adamo c’è uno che si fa servo degli uomini (Fil 2, 7). 

✔ Nel vecchio Adamo c’è uno che si crede superiore agli altri (Ez 28, 3-5);
nel nuovo Adamo c’è uno che si fa simile agli uomini (Fil 2, 8). 

✔ Nel vecchio Adamo c’è uno dominato dalla superbia e sedotto da fatue illusioni dell’orgoglio: ”Diventerete come Dio” (Gn 5, 5; Ez 28, 2-5.17);
nel nuovo Adamo c’è uno che si umilia (Fil 2,7) percosso da Dio e umiliato: maltrattato si lasciò umiliare (Is 53,4.7). 

✔ Nel vecchio Adamo c’è uno che esperimentò la nudità della disobbedienza (Gn 3, 4-6.7; Gv 5, 43);
nel nuovo Adamo c’è uno che conosce la nudità e il sacrificio dell’obbedienza (Fil 2, 8), imparata dalle cose che patì (Eb 5, 7-9.8). 

✔ Nel vecchio Adamo c’è uno che non sa perdere la propria vita per l’altro (Gn 2, 23 =>Gn 3, 12);
nel nuovo Adamo c’è uno che dà la vita per i fratelli, fino alla morte (Fil 2, 8). 

✔ Finalmente, nel vecchio Adamo c’è uno che è schiavo di sé stesso e degli spiriti che governano il mondo (Gv 8, 34-36.44; Gal 4, 3);
nel nuovo Adamo c’è uno che Dio glorifica e proclama Signore (Fil 2, 9-11). 

Nel Battesimo, lo stesso Dio che al principio soffiò nelle narici dell’uomo l’alito di vita che lo fa un essere vivente (cf Gn 2, 7), adesso interviene con la potenza del suo Spirito per spogliarci del vecchio Adamo e rivestirci del nuovo (Ef 4, 22-24; Rom 6, 3-4; 1Cor 12, 13), per estirparci il cuore malato e trapiantarci il cuore del Nuovo Adamo.

Questo Nuovo Adamo, vera Icona del Padre, è il Figlio-Gesù completamente consegnato a te nello Spirito Santo: puoi tendere le mani al Padre e offrire a Lui il Figlio della sua tenerezza, con tutto l’Amore che palpita nel suo Cuore, reso visibile dall’obbedienza, accompagnata dalle lacrime che hanno scavato il suo volto, ma anche in tutta la sua bellezza, la sua gloria e la sua gioia filiale… 

Questo Figlio, mentre lo offri al Padre, ti coinvolge nei palpiti del suo Amore e nelle sue lacrime su un mondo bisognoso di ritornare tra le braccia del Padre e mette nelle tue mani i fratelli della terra, sospingendoti a darti per loro con Lui e come Lui, a Gloria del Padre.

P. Carmelo Casile

Casavatore, Marzo 2015