Lectio divina sul Vangelo di Matteo
Capitoli 21-22
Testo doc Fausti – Matteo Cap 21-22
Testo pdf Fausti – Matteo Cap 21-22
dal libro di Silvano Fausti,
“Matteo. Il Vangelo della Comunità”
Messaggio del testo nel contesto
84. IL SIGNORE NE HA BISOGNO
ECCO IL TUO RE VIENE A TE
21,1-17
“Il Signore ne ha bisogno”, dice Gesù dell’asina e del puledro; “Ecco il tuo re viene a te”, dice l’evangelista del Figlio di Davide, che con essi entra nella città santa.
L’ultima domanda dei discepoli al Maestro, immediatamente prima del suo ritorno al Padre, suona: “Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno d’Israele?” (At 1,6). Da sempre il credente si chiede: “Quando viene il regno di Dio?”, e invoca: “Maranà tha: vieni, o Signore!” (1Cor 16,22). È l’invocazione dello Spirito che, con la sposa, grida: “Vieni!” (Ap 22,17).
Questo brano risponde alla domanda; ma sposta il problema dal “quando” al “come”, dal tempo al modo in cui il Signore viene. Il tempo infatti è sempre “ora”, a condizione che lo si accolga così come lui è venuto allora e viene ogni ora, fino all’ultima: in umiltà e mitezza.
Il regno eterno di Dio è vivere con lo stesso Spirito del Figlio, che ha promesso di essere con noi fino al compimento del tempo (28,20). Di questo nuovo modo di vivere noi siamo testimoni davanti al mondo intero: la sorte del Figlio è affidata ai fratelli (At 1,8). Il corpo del Signore è ormai, per sempre, consegnato nelle mani degli uomini.
Protagonista del brano non è, come al solito, Gesù, bensì un’asina con il suo puledro. Sono “legati”, e Gesù “invia” i discepoli a “slegarli” perché “il Signore ne ha bisogno”.
L’asina è simbolo di Cristo e del suo messianismo. Lui non è come il re, che detiene il potere e va a cavallo; neppure è come chi aspira ad esso ed usa il carro da guerra. Viene su un’asina, umile animale da servizio. Ma proprio così fa scomparire carri e cavalli, potenti e prepotenti (Zc 9,9s)! Lui è venuto per servire e dare la vita (20,28), ponendo fine al dominio di chi schiavizza e dà la morte. Questa è la “sua” gloria, vittoriosa su ogni altra, che davanti a lui si rivela come vana-gloria. In lui si arresta il sistema di violenza sul quale si basano i rapporti umani. Da Caino in poi la città nasconde, sotto le mura, il cadavere del fratello più debole. Il Figlio dell’uomo, che offre la sua fraternità indifesa, fa la stessa fine. In questo modo viene alla luce il mistero nascosto fin dalla fondazione del mondo (13,35): la malvagità e prepotenza dell’uomo che costruisce Babele, incontra l’umiltà e la mitezza di Dio che fonda una città fatta di figli e di fratelli – il mondo nuovo, che fin da principio il Padre aveva creato nel Figlio. Il mysterium iniquitatis si trova faccia a faccia con il mysterium amoris, e la sua ultima vittoria ne è la sua sconfitta definitiva.
Il brano descrive il viaggio di Gesù da Betfage a Gerusalemme, fin dentro il tempio: il Signore prende possesso della città santa e del tempio, come dice l’ultima pagina dell’AT (Ml 3,1ss). Viene per il “suo” giudizio, che si compirà sul Golgota. Malachia si chiede: “Chi resisterà al suo apparire?” (Ml 3,2).
Il “tremendo”, attribuito a Dio da ogni religione e ateismo, è distrutto definitivamente dalla rivelazione del Figlio dell’uomo mite ed umile di cuore (11,29). Con Gesù è per sempre distrutta la falsa immagine di uomo e di Dio che tutti abbiamo. Il vero re non ha nulla di arrogante e violento, non domina né opprime nessuno: libera e serve tutti con amore.
La scena dell’asina è narrata due volte, prima come predizione e poi come evento (cf. anche 26,17–19). Si sottolinea così l’importanza dell’episodio: quanto Gesù ha fatto è profezia di quanto il discepolo sarà chiamato a fare, perché anche per lui possa venire “colui che viene nel nome del Signore”. La missione costante dei discepoli è quella di “slegare” l’asina, liberando in ognuno la capacità di amare.
Il Messia fu ed è rifiutato per la sua scelta di essere servo. Il nostro rifiuto non ha però vanificato il suo piano; l’ha anzi rivelato e realizzato al grado estremo: egli ha posto a nostro servizio, oltre la sua vita, la sua stessa morte, facendo anche di essa un atto d’amore.
Il brano, che ha come sottofondo di contrappunto Ml 3,1ss, è molto articolato: la missione dei due a liberare l’asina con la citazione di Zc 9,9 sulla venuta del Signore (vv. 1-5); l’ingresso trionfale in Gerusalemme con la citazione del Sal 118 sulla fine dell’esodo e l’ingresso nella terra promessa (vv. 6-11); infine l’entrata del Signore nel suo tempio con altre due citazioni (vv. 12-17), la prima sulla sua restituzione a luogo di comunione con Dio (Is 56,7) e la seconda sui piccoli che riconoscono la grandezza di Dio (Sal 8,3).
Il racconto è posto subito dopo la guarigione del cieco: l’uomo finalmente viene alla luce e vede il Volto, salvezza del suo volto e suo Dio (Sal 43,5). Anche lui ora esclama: “È molto bello” (Gen 1,31). Guarito l’occhio (cf. 20,29ss), può vedere la luce, principio della creazione nuova. L’episodio segna il primo giorno della settimana santa, che ci mostrerà il Signore della gloria.
Gesù è il re promesso, il Messia che viene nel nome del Signore. La sua umiltà e mitezza purifica noi e Dio stesso: noi dall’arroganza e dalla violenza, e lui dalla cattiva immagine che ce ne siamo fatti. Muore il mondo vecchio e nasce quello nuovo: termina la schiavitù e inizia la libertà. Al dio fatto a immagine dell’uomo, succede l’uomo fatto a immagine di Dio.
La Chiesa riconosce Gesù sull’asina come Cristo e Signore, colui che ci libera dalla falsa immagine di uomo e di Dio, presentandoci colui la cui gloria è amare e il cui regnare è servire.
85. NON NASCA MAI PIU’ DA TE FRUTTO IN ETERNO
21, 18-22
Non nasca mai più da te frutto in eterno”, dice Gesù al fico, pieno di foglie ma privo di frutti. Dopo averci istruito con l’asina, ora ci istruisce con una pianta (cf. anche 24,32 – 35!). Asina e fico sono due grandi maestri, come il Signore e la croce. L’asina ci insegna come è lui e dovremmo essere noi; il fico; come siamo noi e dovrà essere lui.
Dopo il dono della vista, l’ultimo miracolo è un contro-miracolo, l’unico del vangelo. Chi non viene alla luce, rimane nella morte; chi non accoglie la benedizione, resta nella maledizione.
La vigna è il popolo di Dio (cf. vv. 33ss); il fico è l’albero che produce quel frutto dolce e gustoso, di cui il Signore ha fame: l’amore di Dio e del prossimo. Questo si realizza pienamente nel Figlio dell’uomo che entra in Gerusalemme sull’asina per finire sull’“albero”.
Il fico è la prima pianta a fruttificare: di primavera, in anticipo sulle stesse foglie, dal legno germina i primi frutti, che tengono il posto dei fiori; e continua a produrne senza interruzione, dalla primavera all’autunno. Anche d’inverno, chi cerca tra i rami, trova almeno un fico secco. Il detto: ”Non c’è un fico secco” significa che non c’è proprio nulla, al di là di ogni legittima aspettativa.
Marco sottolinea che non era ancora la stagione dei frutti (Mc 11,12ss). Gesù li cerca ugualmente perché, come il fico ha sempre qualche frutto – e quello secco è ancor più saporito! -, così è sempre tempo di amare Dio e il prossimo. Il tempo infatti è compiuto (Mc 1,15): ogni istante è il momento opportuno, senza aspettarne uno migliore.
Questo fico sterile rappresenta l’antico e il nuovo popolo di Dio, come anche ciascuno di noi – il primogenito è il prototipo degli altri fratelli! La nostra infruttuosità deriva dalla mancanza di fede: chi non accoglie l’umiltà del Figlio dell’uomo, scopre la propria nudità di uomo.
Ma anche questo contro-miracolo è positivo: a chi crede di vedere e di essere vestito, fa vedere che è cieco e nudo, perché chieda luce per gli occhi e veste per la sua nudità (cf. Ap 3,17s).
Nel contesto immediato il fico è il tempio. In esso, invece dell’amore, fiorisce il commercio degli uomini tra loro e con Dio. Tante belle liturgie, ma nessun ascolto di Dio; tanto frascame, ma nessun frutto! Ognuno di noi, da Adamo in poi, è ricco di foglie, ma povero di comunione con il Padre e con i fratelli.
Ma perché Gesù se la prende con un albero? Sono forse le piante colpevoli come gli uomini? (cf. Dt 20,19). Stia tranquillo chi ama la natura: questa pianta maledetta si sentirà per sempre onorata: porterà frutti dodici mesi all’anno, e le sue foglie serviranno non a nascondere le vergogne, ma a guarire le nazioni (cf. Ap 22,2). È infatti figura dell’albero della croce, carico di ogni maledizione e peccato (cf. Gal 3,13; 2Cor 5,21). Da esso penderà colui nel quale la terra darà il suo frutto (Sal 67,7). Lui, legno sempre verde, avrà la sorte di noi, legno secco (Lc 23,31): bruciato e consumato dal nostro male, ci darà il fuoco del suo Spirito (27,50).
Il brano si divide in due parti: la fame del Signore e la maledizione del fico seccato all’istante (vv. 18-19), la sorpresa dei discepoli e la catechesi di Gesù sul potere della fede (vv. 20-22).
La fede serve non a seccare piante, ma a produrre il frutto di vita; non fa spostare montagne nel mare, ma a seguire il Signore fin sul Golgota, monte della sua gloria. Questa fede si ottiene “guardando” colui che viene sull’asina e finisce sull’albero.
Al posto di questo racconto, Lc 13,6-9 riporta una parabola sul dialogo tra giustizia e misericordia: ogni anno che viene è un ulteriore tempo accordatoci dalla pazienza di Dio, il quale attende la nostra conversione.
Gesù è il Figlio, pieno di fiducia nel Padre e carico di amore per i fratelli. Lui, albero fruttuoso, porterà su di sé la nostra sterilità e nudità. Sul monte Calvario si getterà nel mare della morte, per portare la luce del Padre in ogni perdizione.
La Chiesa, innestata sull’albero della croce, porta il suo stesso frutto (Gv 15,1-17). Quando non accoglie l’umiltà e la mitezza del suo Signore, sta ancora sotto la maledizione della sterilità.
86. IL BATTESIMO DI GIOVANNI DA DOVE VENIVA:
DAL CIELO O DAGLI UOMINI?
21, 23-27
“Il battesimo di Giovanni da dove veniva?”, chiede Gesù a chi lo interroga. Per conoscere il suo potere bisogna prima ascoltare il Battista. Giovanni, come tutti i profeti, annuncia la conversione (3,2). Riconoscere la malvagità delle proprie azioni, è la condizione per chiedere e ottenere il perdono. Questo arresta il potere di male, ed è il potere stesso del Figlio dell’uomo – dato agli uomini (9,6), perché si riconcilino e inizino una vita nuova.
Tutti gli uomini, con o senza legge, sono peccatori, privi della Gloria (cf. Rm 3,23). È necessario ammettere questo per conoscere il potere di Gesù. Il brano ripete quattro volte la parola “potere” (exousía, in ebraico shaltan, parola imparentata con “sultano”, che deriva dall’arabo). È un attributo di Dio in quanto creatore del cielo e della terra. Il “potere” è la possibilità di agire, propria a ciascuno secondo la sua natura: da ciò che uno fa, si capisce chi è. Il potere di Dio, misterioso come lui stesso, si rivela nel perdono, dove tutti, dal più piccolo al più grande, conosciamo chi lui è (Ger 31,34). Il suo potere, radicalmente diverso dal nostro, ha come simbolo l’asina, che fa vedere la nudità di ogni altro potere. Per capirlo è necessario rispondere al Battista. Proprio su questo il Signore ci interroga: ascoltiamo il suo appello a cambiar direzione al nostro pensare e agire?
Chi pone interrogativi senza lasciarsi interrogare, chi desidera sapere senza cambiar parere, chi cerca la verità senza rinunciare alle certezze, chi vuole la giustizia senza rinunciare ai privilegi, non otterrà risposta alla sua sete di conoscenza, di verità e di giustizia. Cercherà solo di salvar la propria faccia davanti agli uomini e la propria facciata davanti a Dio, senza ammettere che dietro c’è un vuoto di morte sempre maggiore; resterà “schiavo degli occhi altrui” (ophthalmodoulía: Ef 6,6; Col 3,22), “idolatra” allo stato puro, vittima del “culto dell’immagine” del proprio io, invece che adoratore di Dio. Il culto dell’immagine – oggi facilitato dai mass-media – è il principio di ogni perversità nei rapporti fra gli uomini. Rovina tutto ciò che c’è di buono: il sapere è in funzione del possedere, il possedere del distruggere, il distruggere dell’apparire…potente! In questa situazione la verità cede il posto alla prevaricazione, la giustizia alla difesa e all’attacco per soddisfare i propri, spesso inconfessati, interessi. La persona è ridotta a maschera funebre di se stessa, a sepolcro, imbiancato o abbronzato! E il Signore tace! L’uomo stesso, suo tempio, è ridotto a una spelonca di ladri, dove Dio è defraudato della paternità e l’altro della fraternità.
Il messianismo di Gesù sull’asina purifica la nostra idea di uomo e di Dio, restituendo l’uomo alla sua libertà e Dio alla sua verità. Ma per capire il suo “potere” è necessario convertirci. Davanti al Figlio dell’uomo che si mette nelle mani di tutti, il nostro tentativo di mettere le mani su tutto, si rivela come sommo male e somma di ogni male, nostro e altrui.
A quanti rifiutano di convertirsi, Gesù non risponde. Ma non li abbandona: li fa rispecchiare nella vicenda dei due fratelli (vv. 28-32), dei vignaioli omicidi (vv. 33-46), dell’invitato al banchetto privo di veste nuziale (22,1-14). Saranno racconti che, anche chi non vuol capire, capirà.
Gesù è la Parola. La capisce chi si stupisce e si converte. Davanti all’indurimento essa si fa silenzio. È il maestoso e misericordioso silenzio di Dio che rispetta la nostra libertà, riflesso della sua, e porta su di sé la condanna della nostra schiavitù.
La Chiesa, quando ascolta la Parola e si converte, sperimenta e testimonia il potere di perdono e di libertà; quando invece la considera ovvia e scontata, si indurisce. Allora la Parola tace: il Signore non le dice più nulla, e lei non dice più nulla al mondo.
87. VOI, PUR AVENDO VISTO,
NEPPURE VI PENTISTE PER CREDERGLI
21, 28-32
“Voi, pur avendo visto, neppure vi pentiste per credergli”, dice Gesù ai capi del popolo che gli chiedono qual è il suo potere. Non può rispondere alla loro domanda, perché non sono disposti a riconoscere il loro errore e tirarne le conseguenze.
Chi non vuol cambiare, non può capire chi gli propone il contrario di quanto lui fa. Gesù non è un dispettoso che si diverte a capovolgere le nostre idee: le capovolge solo per raddrizzarle: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55,8).
Chi non vuol convertirsi non è però abbandonato a se stesso: il Signore gli parla in parabole, perché, vedendo di non vedere, si converta e sia guarito (cf. 13,13-16). Gesù si rivela con chiarezza a chi lo ama, anche se non lo capisce come Pietro; a chi lo capisce, ma non lo ama, parla prima con il suo silenzio, e poi con parabole. Si tratta di un modo di parlare che insieme tace e dice: esprime qualcosa di comprensibile, che allude a qualcos’altro che, quando uno vuole, può capire.
Questa parabola svela la situazione dell’ascoltatore che non vuol convertirsi: è come il fratello che dice sì, ma non fa. Quando è cosciente di questo, può diventare come l’altro, che dice no, ma poi cambia parere.
La parabola è costruita sul confronto tra due fratelli. Il confronto diventa paradossale, addirittura scandaloso, nella conclusione, dove si afferma che le persone palesemente ingiuste sono da preferire a quelle ritenute giuste. Queste infatti non sentono alcun bisogno di conversione.
I sacerdoti e i notabili del popolo sono come il fico, che ha tante foglie e nessun frutto; sono come il tempio, che è spelonca di ladri e non casa di preghiera. Ma non si convertiranno mai, fino a quando si credono giusti. I peccatori al contrario, almeno quelli pubblicamente indicati come tali, hanno un vantaggio. Ovviamente non fanno la volontà di Dio; ma non possono fingersi giusti, se non altro perché tutti ricordano loro ciò che sono.
“Fare la volontà del Padre” è il centro del vangelo di Matteo: significa riconoscersi figlio e vivere da fratello. Questo è possibile a chi si converte; ma si converte solo chi sente disagio del proprio male. Vero cieco è chi crede di vedere (cf. Gv 9,41), vero peccatore chi si crede giusto (cf. Lc 18, 9-14). E il suo peccato non ottiene perdono perché neppure lo vuole.
La parabola mette in evidenza questo grave peccato, perché non si consumi nell’inavvertenza di una sorda resistenza allo Spirito. Il racconto successivo mostrerà come esso agisce nella storia passata e presente.
Nel contesto “far la volontà di Dio” è conoscere e accogliere il giudizio compiuto sui capi e sul tempio dal Signore che viene sull’asina. La parabola (vv. 28-30), perché sia capita senza equivoci, è anche spiegata agli interlocutori, direttamente coinvolti (vv. 31-32).
Gesù è venuto per compiere un giudizio: perché chi è cieco veda e chi crede di vedere veda la propria cecità (cf. Gv 9,39).
La Chiesa, come Israele, si riconosce in coloro che dicono: “Signore, Signore!”, ma non fanno la volontà del Padre (7,2ss). È la casta meretrix, meretrice che diventa casta sposa in quanto si riconosce prostituta; diventa “sì” ogni qualvolta riconosce il proprio “no” e si converte. La stessa lettura che fa della Parola può essere profetica o apologetica: la prima la dichiara ingiusta e la chiama a conversione, la seconda è un tentativo di autogiustificazione, che indurisce nella cecità.
88. LA PIETRA CHE I COSTRUTTORI HANNO SCARTATO,
QUESTA È DIVENTATA TESTATA D’ANGOLO
21, 33-46
“La pietra che i costruttori hanno scartato, questa è diventata testata d’angolo”, dice Gesù ai capi del popolo. Dichiara così qual è il suo potere e da dove gli viene: è quello della “pietra scartata” diventata “testata d’angolo”, quello del Figlio crocifisso e risorto. La croce, stoltezza e debolezza per sapienti e potenti, è sapienza e potenza di Dio che salva l’uomo, distruggendo i suoi deliri di morte.
Gesù è il Messia che viene nel nome del Signore (v. 9), perché viene sull’asina. Ciò per cui è scartato, è il potere stesso di Dio, che alla fine sarà riconosciuto proprio da chi lo crocifigge (27,54).
Questo potere, che da sempre il Figlio ha in cielo, gli viene conferito in terra da coloro che lo rifiutano – dai signori del tempio e del popolo, che non conoscono il Signore della gloria (1Cor 2,6-8). Questi scatenano ciecamente contro di lui la loro violenza di morte. E lui si fa loro salvatore e Signore, perché assorbe in sé il loro male senza restituirlo, rivelando così chi è Dio e chi è l’uomo a sua immagine.
Senza soluzione di continuità con la parabola precedente, questo brano è un’allegoria della storia d’Israele, che nella parabola successiva sarà estesa alla Chiesa. Espone una “teologia della storia” in senso forte: dice come Dio vede la nostra realtà, rivelando le “cose nascoste fin dalla fondazione del mondo” (13,35). Dal punto di vista di Dio il mistero che sta all’origine del mondo è il suo amore di Padre verso i figli nel Figlio: tutto è fatto per lui e in vista di lui, e tutto in lui sussiste (Col 1,16s). Ma noi, per ignoranza, strutturiamo tutto sul nostro egoismo, che ci uccide come figli e come fratelli.
Due cose occulte stanno quindi ora all’origine del mondo: il Corpo del Figlio e il cadavere del fratello. E Dio ne fa una sola: il fratello, al quale togliamo la vita, è il Figlio che dà la vita per noi. La storia è un libro sigillato che solo l’Agnello immolato è in grado di aprire e leggere (Ap 5,9). Dio ha voluto fin dall’inizio un mondo bello, riflesso della sua gloria; ma noi ne abbiamo fatto un mondo brutto, pieno di violenza, che uccide il fratello. Al Signore, che rispetta la nostra libertà, non rimane che diventare lui stesso il fratello su cui si scarica la nostra violenza, per restituirci nel suo amore la nostra verità di figli. È una soluzione veramente divina: anche chi si oppone a lui, non fa che eseguire il suo disegno. La storia è una progressiva manifestazione del mistero di un Dio che vince il nostro male portandolo su di sé, e fa del nostro sommo misfatto la sua mirabile opera di salvezza per tutti.
Il racconto narra l’intreccio tra la nostra infedeltà e la sua fedeltà. Il suo venirci incontro e il nostro rifiuto. È una passione infelice, senza sbocco. La nostra è una provocazione sorda e continua, con una perversità latente che solo alla fine si esprime. Il brano presenta il braccio di ferro tra il potere dell’uomo, che è violenza distruttiva e autodistruttiva, e quello di Dio, che è amore più forte della morte.
Nell’uccisione del Figlio si compie tutto, sia la nostra perversità sia la sua bontà. Il nostro male esaurisce la sua carica negativa, togliendo la vita all’autore della vita; e Dio si manifesta tale, donando la sua vita a noi che gliela rubiamo. Nell’uccisione del Figlio otteniamo davvero la sua eredità: abbiamo tra le mani il frutto che ci fa simili a Dio (Gen 3,5)! Il Figlio, che nella sua mitezza si fa oggetto di prepotenza, eredita da noi la nostra nudità, e noi da lui la sua veste di figlio (27,35).
Il racconto inizia descrivendo la cura che Dio ha per la sua vigna: manifesta il suo amore con i fatti, perché lo comprendiamo e possiamo fare quel frutto che ci rende simile a lui (vv. 33-34).
Al moltiplicarsi dei suoi gesti di bontà corrisponde un crescendo della nostra cattiveria: percuotiamo e uccidiamo sistematicamente i profeti che ci richiamano a produrre il frutto desiderato (vv. 35-36). La nostra risposta alle sue premure è un’automatica e monotona reazione. Non c’è via d’uscita. All’ostinazione del suo amore, corrisponde il muro sempre più spesso del nostro rifiuto!
Alla fine il Padre manda “il” Figlio. Proprio davanti a lui esce allo scoperto l’intenzione che covavamo nei suoi confronti: ucciderlo per rapirne l’eredità (vv. 37-39). Gli ascoltatori, interpellati da Gesù, rispondono dicendo che il delitto è degno della più severa condanna (vv. 40-41). Ma il Signore dà un’altra interpretazione: il rifiuto dei capi sarà l’inizio di un nuovo popolo, e la pietra scartata sarà testata d’angolo del nuovo tempio (vv. 42-44). I capi del popolo capiscono finalmente che si parla di loro, e si accingono a fare ciò che Gesù ha appena detto (vv. 45-46).
Si dice giustamente che la storia è rivelazione. In essa infatti la violenza toglie sempre più la maschera del suo potere mortifero. Non è un caso, se proprio oggi qualcuno scrive un “Elogio della mitezza” e un “Elogio della solidarietà”. Sarebbe però fuori luogo un “Elogio del nostro tempo”, se non si fa prima un elogio dell’asina e del fico, per ridare all’uomo la sua umanità e a Dio la sua realtà.
Gesù, il Figlio dell’uomo disprezzato e ucciso fuori le mura, è la pietra scartata che diventa pietra angolare: è il Figlio che ci dà l’eredità, è il Pontefice che unisce il Padre ai fratelli e questi tra di loro. La sua croce svela la distruttività della nostra violenza e la forza del suo amore. Questa è l’opera meravigliosa di Dio: la nostra miseria fa uscire la sua misericordia.
La Chiesa riconosce in Gesù l’Agnello, immolato e vittorioso (Ap 5,6.13), che vince il male con il bene (Rm 12,21), spegnendo in sé la nostra potenza di morte. Uniti a lui, israeliti e pagani, siamo figli nel Figlio, albero fruttifero e tempio dello Spirito.
89. AMICO, COME ENTRASTI QUI
SENZA VESTE NUZIALE?
22, 1-14
“Amico, come entrasti qui senza veste nuziale?”, chiede il re a uno che ha risposto all’invito per le nozze, ma non ha la veste nuziale. Coloro che partecipano alle nozze del Figlio sono i cristiani, che hanno accolto il Messia. Non basta però aver detto sì (21,28-30): non chi dice “Signore, Signore” entrerà nel regno, ma chi fa la volontà del Padre (7,21). In mezzo a noi, come anche in noi, oltre il grano c’è sempre la zizzania. Ciò che si è appena raccontato sui vignaioli omicidi, vale anche per noi.
Le narrazioni bibliche non sono una finestra sul cortile del passato, per vedere cosa è accaduto allora. Sono piuttosto uno specchio, che fa vedere ciò che accade ora in chi legge. Particolarmente efficaci sono le parabole che, parlando d’altro, più facilmente spiazzano. L’ascoltatore presta loro orecchio senza eccessive difese, come se non lo riguardassero, per capire, alla fine, che parlano di lui. Il racconto, come uno specchio appunto, ci permette di vedere ciò che diversamente mai vedremmo: il nostro volto (cf. Gc 1,23-25)!
Questa parabola è uno sviluppo della precedente, in particolare di 21,44, dove si dice che la stessa sorte tocca a chiunque si confronti con la pietra scartata. Quanto ha fatto Israele, lo fa pure la Chiesa. È un richiamo alla responsabilità: far parte del popolo di Dio, non era, non è e non sarà mai un talismano di salvezza (3,8s; 7,21-23; 13,24-30. 36-43. 47-50). Al contrario: la salvezza viene dal riconoscere che noi siamo uguali ai nostri padri. Non basta dire: “Abbiamo Abramo per Padre”; dobbiamo fare frutti degni di conversione, sapendo che il Signore può fare del nostro cuore di pietra un cuore di figlio (cf. 3,8s). A una condizione però: che riconosciamo di essere come il fratello che dice sì e non fa, per diventare come quello che sa di dire no, e poi si pente.
Questa parabola vuol compiere in noi ciò che è accaduto al fico, perché scopriamo la nostra sterile nudità. La pietra di scandalo è caduta sui contemporanei di Gesù; ma anche noi, che ne ascoltiamo l’annuncio, cadiamo su di essa. Ciò che hanno fatto gli ascoltatori di Gesù, è quanto continuiamo a fare noi, che ne ascoltiamo il racconto. La storia dei vignaioli omicidi è parabola di ogni storia: ciò che avvenne in quel tempo, avviene in ogni tempo (cf. 1Cor 10,11).
Esser chiamati e aver risposto non significa essere automaticamente salvati. Tutti siamo chiamati; “eletto” è chi sceglie liberamente di rispondere alla chiamata non a parole, ma con i fatti e in verità.
Dopo l’introduzione, che rivolge la parabola agli stessi ascoltatori della precedente (v. 1), c’è una prima parte (vv. 2-10) in cui si paragona il regno alle nozze del Figlio (v. 2) e si parla di tre successivi inviti. C’è un invito prima della festa, rinnovato quando il banchetto è pronto, seguito dal rifiuto (v. 3): è la sintesi del racconto precedente, che narra la storia di Israele dall’esodo fino ai tempi del suo Messia. C’è un ulteriore invito, fatto ancora ad Israele, che è quello degli apostoli dopo la morte di Gesù: in esso si ripete il rifiuto, indifferente o violento (vv. 4-7). Questo rifiuto di una parte d’Israele diventa occasione di salvezza per gli altri: l’invito è rivolto a tutti, finché la sala del banchetto è piena (vv. 8-10). Questi commensali costituiscono la Chiesa, dove però, come ovunque, ci sono buoni e cattivi.
La seconda parte (vv. 11-14) ricorda a noi che, per far parte del popolo che accoglie la pietra scartata, bisogna che prima accettiamo di essere tra quelli che la rifiutano: siamo come quello senza la veste nuziale. Solo così possiamo essere tra quelli che, ascoltando Pietro che dice: “Quel Gesù che voi avete crocifisso è Cristo e Signore”, si sentono trafiggere il cuore e si convertono (At 2,36s). Dobbiamo sperimentare che il Signore è venuto a salvare i peccatori, “dei quali io sono il primo”, come dice Paolo (1Tim 1,15). Allora conosciamo l’amore del Figlio che è morto per noi, perché noi viviamo di lui: partecipiamo al banchetto con la veste nuziale.
Gesù, il Figlio, in quanto pietra scartata è diventato testata d’angolo: è lo sposo, dove uomo e Dio si congiungono nell’unico amore, e la creazione raggiunge il settimo giorno. Il re invita tutti i suoi figli alle nozze del Figlio.
La Chiesa si riconosce partecipe non solo della chiamata, ma anche del rifiuto di Israele. È costituita da coloro che sanno di rifiutare i profeti, e si riconoscono in chi ha ucciso il Figlio. Quell’Israele che si sa peccatore è la Chiesa stessa di Matteo, che così diventa luce per le nazioni, compiendo la promessa fatta ad Abramo (Gen 12,2s).
90. CIO’ CHE È DI CESARE A CESARE E CIO’ CHE DI DIO A DIO
22, 15 – 22
“Ciò che è di Cesare a Cesare, e ciò che è di Dio a Dio”, risponde Gesù alla domanda-trappola che gli hanno fatto. Qualunque risposta “scontata” avesse dato, si sarebbe tirato la zappa sui piedi. Se avesse detto che bisognava pagare il tributo agli oppressori romani, si sarebbe messo contro il popolo; se avesse detto di non pagarlo, si sarebbe messo contro l’autorità.
La sua risposta non è un modo elegante di eludere la domanda. Sposta invece il problema a un altro livello. Cosa significa dare a Cesare ciò che è suo e a Dio ciò che gli spetta? In che rapporto sta il potere dell’“asina” con quello dei “carri e dei cavalli”, il potere del Figlio dell’uomo con quello dei potenti del mondo? Cosa spetta a Cesare, se tutto è di Dio?
È importante tenere presenti due cose. Primo: Dio non esautora l’uomo dalle sue responsabilità, ne è invece l’origine. Secondo: il suo potere non entra in concorrenza con il nostro: è dono, amore e servizio, non appropriazione, violenza e dominio.
Il rapporto tra l’autorità di Cesare e quella di Dio è da sempre un campo minato, mai pacifico: è lo stesso rapporto non facile che i profeti hanno avuto con le istituzioni. La diffidenza tra stato e Chiesa – lei pure istituzione, anche se profetica – viene da vari motivi, più o meno nobili, che vanno dalla persecuzione per la fede alla lotta per la giustizia e la libertà, ma anche dalla lotta per difendere propri interessi all’alleanza per mantenere privilegi, dall’estraniazione per comodità alla subordinazione alterna tra i due, nociva a tutti.
Solo chi dà a Dio ciò che è di Dio, sa cosa dare a Cesare. Ciò che è di Dio, il frutto di cui il Padre ha fame, è la libertà dei figli e l’amore dei fratelli. Chi cerca questo, trova risposta anche al resto.
Il brano, secondo le varie situazioni, fu interpretato diversamente, con valutazioni non sempre facili da dare. Fu letto come “separazione” tra sfera temporale e spirituale senza interferenza tra le due, come “alleanza” di trono e altare a reciproco sostegno, come “confusione” con sacralizzazione dello stato o con dominio temporale della Chiesa, come “dipendenza” dello stato dalla Chiesa o della Chiesa dallo stato, rispettivamente in forma di integralismo o di strumento di dominio. La storia è complessa. Ed è maestra di vita solo se, invece di condannare gli errori passati, comprendiamo in essi la radice dei nostri.
L’uomo è relazione: è “animale” sociale e politico, che si realizza organizzandosi in società. Riconosce l’autorità in un capo che lo rappresenta. Il re non è altro che l’uomo ideale, immagine di Dio, ideale di ogni uomo.
Ma chi è Dio? È dono, libertà e servizio; oppure possesso, dominio e violenza?
Da Caino in poi la città si fonda sul cadavere del fratello. Essa vive nella violenza che la legge denuncia e vuol contenere. Il sangue, rimosso e nascosto sotto le mura, con il passare del tempo cresce e trasuda da tutte le parti: la storia è il venire alla luce di un male segreto, da cui la società nasce e di cui vive. Oggi, grazie alla tecnologia, esso è in grado di esplicare tutta la sua potenzialità. L’economia, sotto la sovranità universale del dio mammona, è una e assoggetta tutto e tutti nell’ingiustizia perpetrata e/o subita; il disastro ecologico compromette i precari equilibri della vita; il potere bellico incontrollabile minaccia la distruzione di tutto. Mai come oggi la storia ha rivelato il mistero di iniquità che cela. Ciò che è stato seminato sotto terra dà il suo frutto maturo, che non è né buono, né bello, né desiderabile. È chiaro che si impone un cambio di modello. Oggi comprendiamo il valore delle beatitudini come magna charta del convivere. Esse presentano i valori del figlio che vive da fratello. Sono l’unica alternativa sensata a una situazione di rapina e violenza.
È utile tener presente che per la Bibbia il “paradiso”, il giardino sognato dell’infanzia, è la “polis” (da cui politica), la città in cui si vivono relazioni filiali e fraterne.
Il credente, con lucidità e coraggio, deve impegnarsi con tutti gli uomini di buona volontà, per impostare relazioni nuove e costruttive a tutti i livelli. La “carità politica” è la forma più alta e urgente di azione, intesa a cercare e promuovere ciò che più fa crescere la solidarietà e la libertà tra gli uomini.
Gesù è venuto a rendere a Dio ciò che è di Dio: a restituire all’uomo la sua libertà di figlio. Il suo potere non lotta con quello di Cesare. È semplicemente diverso, come la mitezza dalla violenza. Accetta di vivere “in” questo mondo, riconosce ogni autorità nel suo servizio alla società, senza però accettarne il modello di base, che è violento e distruttivo. La forza dell’asina e del suo asinello, pacificamente, farà scomparire carri e cavalli (Zc 9,10).
La Chiesa, senza integralismi e fondamentalismi, è luce di un mondo riscattato dalla morte. Riconosce l’indipendenza e la laicità dello stato, ma pone nella società il lievito e il sale evangelico delle beatitudini. Oggi deve tenere gli occhi aperti per non allearsi con il Cesare di turno, che è il potere di omologare tutti a pensare e agire allo stesso modo. Deve testimoniare e favorire la libertà, la verità e la diversità delle persone, in spirito di reciproco servizio.
91. NON È IL DIO DEI MORTI MA DEI VIVENTI
22, 23 – 33
“Non è il Dio dei morti, ma dei viventi”. Il nostro Dio non è un necrofilo, come Ades che regna sui morti: è il Dio vivente, datore e amante della vita (Sap 11,26). Principio di tutto, ha nulla a che fare con la morte. Questa è entrata nel mondo per invidia del diavolo (Sap 2,24), che, mediante la paura di essa, tiene l’uomo schiavo per tutta la vita (Eb 2,14s).
Ma noi si nasce, si vive, si invecchia, si muore. E poi?… È la parabola dell’esistenza terrena.
L’uomo è “humus”: viene dalla terra e ad essa ritorna. Ha la vita, ma non è la vita: è la sua condizione creaturale. Ha però nel cuore la nozione di eternità (Qo 3,11), appunto perché “sa” di dover morire. La coscienza di essere mortali e il desiderio di immortalità costituiscono la scintilla divina che è in lui: “ troppo grande per bastare a se stesso” (Pascal), è insieme limitato e oltre il proprio limite. Se non ci fosse il “pungiglione” del peccato, che gli avvelena l’esistenza (1Cor 15,56), accetterebbe di ricevere la vita in dono, vivendo il limite come comunione con la propria origine. Il peccato invece gli fa mettere le mani sulla propria sorgente, rimuovere la propria nascita, considerare l’esser figlio come limitazione mortale: vuol possedere la vita, senza accorgersi che così la distrugge. Il peccato è, in fondo, non acconsentire alla propria realtà di figli; e viene dall’inganno di pensare il padre come antagonista e geloso, invece che come principio di vita e libertà. Per questo è doloroso il nascere, drammatico il vivere e tragico il morire.
La morte, come noi la sperimentiamo, è l’ultimo atto violento del male che tutto vuol possedere e rapire: ci strappa la vita. Proprio così ci libera dall’inganno di possederla, e ci fa comprendere che l’abbiamo solo in quanto donata: possiamo viverla solo se ci accettiamo come figli, in distinzione e comunione con il nostro principio.
La risurrezione è il centro della fede cristiana: è il dono della vita che il Padre fa al Figlio e, in lui, a tutti i suoi fratelli. È la restituzione a Dio di ciò che è di Dio – e l’uomo tutto è di Dio. “Se i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede”, come “è vana la nostra predicazione”, dice Paolo ai Corinzi che mettono in dubbio la risurrezione dei corpi (1Cor 15,16s.14). L’esperienza del Cristo risorto e il nostro essere in lui (“in Cristo” è l’espressione più ricorrente in Paolo), con il dono del suo Spirito, è il fondamento della vita del credente. Questa unione è così forte che il destino dell’uno è quello dell’altro.
La vittoria della vita sulla morte, pur essendo il sogno dell’uomo, è indeducibile da ogni premessa e improducibile da ogni forza umana. La conosciamo solo dalla promessa di Dio ed è opera sua. Chi non conosce le Scritture e la potenza dello Spirito, si inganna. Il desiderio di vita che è in lui si fa violenza distruttiva, per il tentativo di possederla.
In Israele la fede nella risurrezione è maturata lentamente, attraverso l’esperienza della fedeltà di Dio: se io sono mortale e lui, mio alleato e amico fedele, può dare la vita, non mi lascerà preda della morte. Chi ama, infatti, dona ciò che ha e ciò che è.
Il racconto dei sadducei è inteso a mettere in ridicolo la fede nella risurrezione (vv. 23-28). Gesù risponde che questo è l’inganno di chi non conosce la promessa e la potenza di Dio (v. 29) e mostra come la risurrezione sia una vita nuova, “celeste” (v. 30). La prova scritturistica che porta è desunta dall’Esodo: il Signore si rivela come il Dio “di” Abramo, Isacco e Giacobbe, ed è il Dio dei viventi, non dei morti (vv. 31-32).
La risposta biblica al desiderio di vita non è l’immortalità, perché siamo mortali. Non è neppure la reincarnazione, perché la vita non è una maledizione da estinguere fino all’annullamento. È invece la risurrezione dei corpi – suppone la morte! – a una condizione di vita piena, che ha vinto la morte. Nell’uomo, creato il sesto giorno, tutta la creazione raggiungerà il settimo giorno. Ora essa geme nelle doglie del parto nella speranza di essere liberata dalla schiavitù della corruzione ed entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio (cf. Rm 8,21s).
Sull’argomento è utile riferire un racconto, preso da Nouwen, che parla della conversazione di due gemelli nell’utero materno. «La sorella diceva al fratello: “Io credo che vi sia una vita dopo la nascita”. Il fratello protestava violentemente: “No, no, è tutto qui, questo è un luogo oscuro e intimo e non abbiamo altro da fare che restare attaccati al cordone che ci nutre”. La sorellina insisteva: “Dev’esserci qualcosa di più che questo luogo oscuro. Deve esserci qualcos’altro, un luogo di luce. dove c’è la libertà di muoversi”. Ma non riusciva a convincere il fratello.
Dopo un momento di silenzio la sorella disse esitante: “Ho qualcos’altro da dire, e ho paura che non crederai nemmeno a questo, ma penso che vi sia una madre”.
Il fratello si infuriò: “Una madre?”, gridò. “Ma di che cosa parli? non ho mai visto una madre, e nemmeno tu. Chi ti ha messo in mente quest’idea? Come ti ho detto, questo posto è tutto quello che abbiamo. Perché vuoi sapere qualcosa di più? Non è un posto tanto male, dopotutto. Abbiamo tutto quello di cui abbiamo bisogno, accontentiamoci, dunque”. La sorella fu ridotta al silenzio dalla risposta del fratello e per un po’ di tempo non osò dire più nulla.
Ma non riusciva a liberarsi dai suoi pensieri, e dato che aveva soltanto il fratello gemello con cui parlare, alla fine disse: “Non senti ogni tanto degli spasimi? non sono piacevoli e qualche volta fanno male”. “Sì”, rispose lui. “Che cosa c’è di particolare in questo?”. “Bene”, disse la sorella, “io penso che questi movimenti ci siano per prepararci a un altro luogo, molto più bello di questo, dove vedremo nostra madre faccia a faccia. Non ti sembra meraviglioso?”. Il fratello non rispose. Era stanco di tutto quello sciocco parlare della sorella e sentiva che la cosa migliore da fare era semplicemente ignorarla e sperare che l’avrebbe lasciato in pace.
Questa storia può insegnarci a pensare alla morte in modo nuovo. Possiamo vivere come se la vita fosse tutto ciò che abbiamo, come se la morte fosse assurda e noi faremmo meglio a non parlarne; oppure possiamo scegliere di reclamare la nostra divina infanzia e figliolanza e confidare che la morte è il passaggio doloroso, ma benedetto che ci porterà faccia a faccia col nostro Dio».
Gesù è risuscitato dai morti, “primizia di coloro che sono morti” (1Cor 15,20), “primogenito di coloro che risuscitano dai morti” (Col 1,18), primo di una numerosa schiera di fratelli (Rm 8,29).
La Chiesa è costituita da coloro che sono battezzati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (28,19). Solidali con Gesù, il Figlio solidale con noi, partecipiamo alla sua condizione. Con-morti e con-sepolti con lui quanto alla vita-per-la-morte, camminiamo in novità di vita, perché già ora, mediante il battesimo, siamo pure con-risorti e con-seduti con lui nella gloria (cf. m 6,3-11; Col 2,12; Ef 2,6). In lui riconosciamo di essere figli del Padre e amiamo come lui stesso ama. Questo è già ora il passaggio dalla morte alla vita (cf. 1Gv 3,14), perché ci fa partecipare della vita stessa del Dio amore.
92. AMERAI
22,34-40
“Amerai”. Dio è amore, e ci comanda di amare. Co-mandare significa “mandare-insieme”: Dio ci manda-insieme verso l’amore, perché la sua vita diventi anche nostra. L’amore infatti rende simili, e fa sì che la vita di uno diventi quella dell’altro.
Il desiderio di essere come Dio non si realizza nell’avere in mano tutto, ma nel mettersi nelle mani del Padre e dei fratelli, per amore! Nell’amore non c’è bene e male: c’è solo il Bene.
Dio non si può carpire con la mente o con le mani, ma “capire” (= contenere) nel cuore. Amare è avere l’altro nel cuore. Siamo fatti per amare, perché Dio ci ha fatti a sua immagine e somiglianza. Conoscere serve per amare: non si ama se non ciò che si conosce. E amare a sua volta serve per capire: non si capisce se non ciò che si ama. Amore e intelletto si alimentano reciprocamente: è la tensione dinamica tipica dell’amore (epéktasis!), per il quale la sazietà accresce il desiderio di una sazietà sempre più grande, e la sazietà maggiore un desiderio maggiore, e così via, in un circolo virtuoso senza fine.
L’amore riguarda non solo il cuore e la mente, ma anche la vita. L’amore è innanzitutto gioia del cuore per il bene dell’altro (il contrario è l’invidia); si esprime con la bocca come lode (il contrario è la critica), e si realizza con le mani, poste a servizio dell’altro come di me stesso. Si manifesta più nei fatti che nelle parole: amiamoci non a parole ma con i fatti e in verità (1Gv 3,18). L’amore porta a comunicare ciò che si ha e si è, fino all’unione di intelletto, di volontà e di azione. La diversità e i limiti – pure quelli negativi – non sono luogo di nascondimento e aggressione, perpetrata o subíta, ma di accoglienza e servizio reciproco.
Il comando è duplice, amare Dio e il prossimo, perché noi, solo amando il Padre e i fratelli, diventiamo ciò che siamo: figli. Così raggiungiamo la nostra identità, sanando la rottura originaria con l’Altro, con noi stessi e con gli altri.
Il potere di Gesù (cf. 21,23ss), il Messia che slega l’asina e l’asinello, di cui “il Signore ha bisogno” (21,3), è quello di amare. L’amore ci fa tempio di Dio (cf. 21,12-17), albero buono che fa frutti buoni (cf. 21,18-23). Questa meraviglia è compiuta dalla pietra scartata (cf. 21,28-45), che ci rende capaci di dare a Dio ciò che è di Dio (cf. 22,15-22) e ci fa partecipare alla vittoria sulla morte (22,23-33). Infatti chi ama è già passato dalla morte alla vita (1Gv 3,14).
L’amore è il compimento della legge (Rm 13,10), perché ci rende simili a Dio, figli perfetti come il Padre (5,48).
La domanda dei farisei riguarda il principio che ispira la legge (vv. 34-36). La risposta di Gesù è già contenuta in testi separati dell’AT (Dt 6,5 e Lv 19,18); la sua novità sta nell’averli uniti dichiarandoli simili e fonte di ogni norma (vv. 37-40).
L’amore infatti è uno, come Dio stesso è uno. Amo il fratello e il Padre con lo stesso amore con cui il Padre ama me come suo figlio. Questo amore, e non altro, è principio e fine di tutto. Rispetto ai 248 precetti e alle 365 proibizioni che i farisei osservano, Gesù proclama la legge della libertà (Gc 1,25): quella del Figlio che ama come vuol essere amato, perché di fatto così è amato. In questo si compie la legge e i profeti (7,12). Dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà (2Cor 3,17), che è la capacità di appartenersi e servirsi reciprocamente (Gal 5,13). L’amore è legge di libertà.
Si capisce ciò che si è da ciò che si fa (agere sequitur esse). Amare rivela l’essere profondo dell’uomo: è Dio stesso. Questo brano è l’antecima, dietro cui sta l’enigma che Gesù pone al brano seguente: chi è il Signore da amare? Solo chi ama, perché scopre come è amato, capisce chi è il Signore.
Gesù è il Signore che si fa mio prossimo e mi ama con tutto il cuore, perché anch’io possa fare altrettanto. Con lo stesso amore amo lui e il fratello, perché lui si è fatto mio fratello; amo Dio e l’uomo, perché Dio si è fatto uomo! Ogni volta infatti che amo l’ultimo dei fratelli, amo lui (25,40-45), che si è fatto ultimo di tutti.
La Chiesa è la sposa: Cristo l’ha amata e ha dato se stesso per lei (Ef 5,25). Per questo lo ama. I due diventano una carne “una”, e l’uomo non separi ciò che Dio ha unito (cf. 19,6). L’amore dello sposo la chiama al giogo soave e leggero (cf. 11,30), dove la libertà stessa di amare è legge. È questo il suo comandamento (Gv 13,34), che vieta solo ciò che toglie la libertà di amare.
L’amore reciproco è il distintivo del cristiano: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35).
93. CHE VI PARE DEL CRISTO? DI CHI È FIGLIO?
22,41-46
“Che vi pare del Cristo? Di chi è figlio?” Le dispute, iniziate dagli avversari con la questione sul potere di Gesù (21,23ss), terminano con questa sua domanda. Chi gli risponde, ha la risposta e scopre il dono del vangelo. Trova il grande tesoro, di fronte al quale tutto è una perdita: conosce il suo Signore (cf. Fil 3,7-9), che lo ha amato e ha dato se stesso per lui (cf. Gal 2,20). Così capisce qual è e da dove viene il suo potere (21,23): è quello del Figlio, la pietra scartata (22,33ss), che con mitezza e umiltà porta sulla terra il regno di Dio (21,1ss), offrendo la libertà da ogni potere (22,15ss), anche da quello della morte (22,23ss), rendendo capaci di amare come si è amati (22,34ss).
Questa disputa, conclusiva, è la chiave di volta per comprendere le altre.
Qui è Gesù a prendere l’iniziativa: non risponde a una domanda, ma fa la “sua” domanda, in attesa di risposta. L’ha già fatto una volta con i discepoli, che l’hanno riconosciuto come il Cristo, il Figlio di Dio (16,16). Né carne né sangue conoscono questa risposta. Può venire solo dal Figlio che rivela il Padre e dal Padre che rivela il Figlio (11,25ss;16,17). Nessuno infatti può dire: “Il Signore è Gesù”, se non nello Spirito (1Cor 12,3). Questo tra poco ci sarà donato dalla carne e dal sangue del Figlio, che rivelerà chi e come è il Signore (cf. 27,54).
Comprendere che il Cristo e il Figlio di Dio è Gesù, costituisce il centro della fede cristiana: è quanto Matteo dichiara sin dall’inizio (cf. 1,1-17.18-25) La promessa di Dio a Davide si compie in modo divino. Chi promette si com-promette, chi dona si con-dona: la promessa e il dono di Dio a Davide è Dio in persona, che promette e dona se stesso.
La domanda di Gesù è troppo esplicita per non essere colta. Il sommo sacerdote stesso, davanti al Sinedrio, gli chiederà tra poco se è lui “il Cristo, il Figlio di Dio” (26,63). E Gesù risponderà: “Tu l’hai detto” (26,64). Questa sarà la bestemmia che lo porterà alla croce (26,65s), dove finalmente verrà riconosciuto (27,54).
Il vangelo vuol portare il lettore a una presa di posizione nei confronti di Gesù, come il Cristo e Signore. La provocazione è esplicita: chi è il Cristo se Davide, nello Spirito, lo chiama Kyrios? Il Cristo e il Signore che Dio ha promesso è l’uomo Gesù. Lo riconosceremo rispondendo a questa domanda, e soprattutto a quella che ci porrà tra poco con la croce – interrogativo di Dio a tutte le domande degli uomini.
Gesù è figlio di Davide secondo la carne e Figlio di Dio secondo lo Spirito (1,1-17.18-25; cf. Rm 1,3). Non è solo un uomo straordinario con una dottrina sublime: è “il” Figlio di Dio, che ci rivela quel Dio che nessuno mai ha visto (Gv 1,18). Chi non lo riconosce come tale, deve dire che lui è il più grande imbroglione della storia e la sua parola la più sublime menzogna, che dura ancora dopo duemila anni. Il “suo” segno è la croce, dove si rivela come “il” Figlio, l’unico, l’amato, perfetto nell’amore come il Padre, perché dà la vita per i fratelli.
La Chiesa riconosce il Figlio di Dio, il Signore e il Cristo, nella “carne” di Gesù, nella sua persona storica, concreta e unica. Chi non lo riconosce così, non ha lo Spirito di Dio (1Gv 4,3). La sua umanità non è un simbolo fantasmatico del “divino” nell’uomo, apparso qua e là nei vari budda o illuminati; la sua divinità non è una nebulosa energetica del cosmo. Gesù di Nazareth è nato da Maria per opera dello Spirito Santo, vero uomo e vero Dio. In lui umanità e divinità sono unite in una persona sola; anche se distinte, non sono divise: il suo corpo è l’epifania di Dio sulla terra. Più precisamente diciamo che il Crocifisso è la “theoria” (cf. Lc 23,48): mostra chi è e come è il Signore.