(Fabrizio Contessa) Gesù non promette salute e ricchezza ai suoi discepoli. Per questo non c’è nulla di più distante e, anche di pericoloso, per la fede cristiana che il criterio dell’efficienza e della funzionalità che fatalmente finisce per trasformare anche la Chiesa in una sorta di impresa multinazionale. È quanto sostengono padre Antonio Spadaro e Marcelo Figueroa in un articolo dedicato alla “teologia della prosperità” che verrà pubblicato sul prossimo numero della Civiltà Cattolica.
Un testo, assai critico, ricco di dati e di riferimenti al contesto soprattutto americano, che già dal titolo mette in guardia dal «pericolo di un “vangelo diverso”». E che fa propri i numerosi interventi pronunciati in questo senso da Papa Francesco.
Per “teologia della prosperità”, viene spiegato nell’articolo anticipato oggi nel circuito dell’informazione, s’intende una corrente teologica neo-pentecostale evangelica oggi molto in voga. Negli Stati Uniti milioni di persone frequentano assiduamente “mega-chiese” che diffondono questa teologia. E nomi come Oral Roberts, Pat Robertson, Benny Hinn, Robert Tilton, Joel Osteen, Joyce Meyer «hanno accresciuto la propria popolarità e ricchezza a forza di approfondire, enfatizzare ed estremizzare questo vangelo». Il nucleo di tale “teologia” è la convinzione che Dio vuole che i suoi fedeli abbiano una vita prospera, e cioè che siano ricchi dal punto di vista economico, sani da quello fisico e individualmente felici. Tuttavia, il rischio di questa forma di «antropocentrismo religioso», è quello «di trasformare Dio in un potere al nostro servizio, la Chiesa in un supermercato della fede, e la religione in un fenomeno utilitaristico ed eminentemente sensazionalistico e pragmatico».
In questo senso — ed è la conclusione a cui giunge il quindicinale dei gesuiti — il «vangelo della prosperità» è molto lontano dall’insegnamento di san Paolo: «Conoscete la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Corinzi, 8, 9). Ed è pure molto lontano da quella «profezia positiva e luminosa» che prende il nome di American Dream, il sogno americano. Non solo, la teologia della prosperità è lontana anche dal «sogno missionario» dei pionieri americani, e ancor più dal messaggio di predicatori come Martin Luther King e «dal contenuto sociale, inclusivo e rivoluzionario» del suo più memorabile discorso.
La riflessione di Spadaro e Figueroa parte proprio dalla constatazione che la teologia della prosperità traduce automaticamente in termini religiosi, sfigurandolo, proprio quel sogno americano che di per sé rappresenta invece «la visione di una terra e di una società intese come un luogo di opportunità aperte». Come se «l’opulenza e il benessere fossero il vero segno della predilezione divina da “conquistare” magicamente con la fede». Una teologia, che «intende essere anche un tentativo di giustificazione teologica del neoliberismo economico» e che è stata diffusa, viene annotato, grazie anche a «gigantesche campagne mediatiche» portate avanti per decenni in tutto il mondo da movimenti e ministri evangelici, specialmente neo-carismatici.
Non stupisce allora che il «vangelo della prosperità» (prosperity gospel) è andato diffondendosi non soltanto negli Stati Uniti, dove è nato, ma anche in Africa, specialmente in Nigeria, Kenya, Uganda e Sudafrica. A Kampala, per esempio, c’è un grande stadio coperto intitolato Miracle Center Cathedral, la cui costruzione è costata sette milioni di dollari. È l’opera, viene ricordato, del pastore Robert Kayanja, che ha sviluppato anche un vasto movimento molto presente nel mondo dei media. Anche in Asia il «vangelo della prosperità» ha avuto un notevole impatto, soprattutto in India e in Corea del Sud.
Ma è soprattutto in America latina che a partire dal 1980 la diffusione di questa teologia si è manifestata in «maniera esponenziale». Potendo contare anche sull’uso potente dei media, in particolare della televisione, che ne hanno fatto alcuni pastori, «figure molto carismatiche» e «detentori di un messaggio semplice e diretto, montato attorno a uno show di musica e testimonianze e a una lettura fondamentalista e pragmatica della Bibbia». Guatemala, Costa Rica, Colombia, Cile, Argentina e soprattutto Brasile sono i paesi che ne registrano la principale influenza.
Si comprende anche come una tale teologia sia perfettamente funzionale ai concetti di taglio neoliberista. Infatti, viene sottolineato, «una delle conclusioni di alcuni esponenti di questa teologia è di natura geopolitica ed economica, legata al paese di origine della “teologia della prosperità”. Essa conduce alla conclusione che gli Stati Uniti sono cresciuti sotto la benedizione del Dio provvidente del movimento evangelico». Invece, gli abitanti a sud del Rio Grande «sono sprofondati nella povertà proprio perché la Chiesa cattolica ha una visione differente, opposta, “esaltando” la povertà». In realtà, uno dei gravi problemi che porta con sé una tale visione è proprio il suo «effetto perverso» sulla gente povera. Infatti, essa «non solo esaspera l’individualismo e abbatte il senso di solidarietà, ma spinge le persone ad avere un atteggiamento miracolistico, per cui solamente la fede può procurare la prosperità, e non l’impegno sociale e politico».
Inutile dire che Papa Francesco, sin dall’inizio del pontificato ha più volte e con chiarezza messo in evidenza i pericoli presenti nel «vangelo diverso» della “teologia della prosperità”. A cominciare, viene ricordato, dal 28 luglio 2013, quando parlando in Brasile ai membri del Consiglio episcopale latinoamericano puntò il dito contro il «funzionalismo ecclesiale», che realizza «una sorta di “teologia della prosperità” nell’aspetto organizzativo della pastorale». Il primo di tanti interventi che trova forse il suo vertice nella recente esortazione apostolica Gaudete et exsultate.