P. Manuel João, comboniano
Riflessione domenicale
dalla bocca della mia balena, la sla
La nostra croce è il pulpito della Parola

“Vorrei spegnere l’inferno e… incendiare il paradiso!”

Anno A – 25a Domenica del Tempo Ordinario
Matteo 20,1-16: “Andate anche voi nella vigna”

Oggi iniziamo un ciclo di tre parabole di Gesù sulla vigna: la parabola dei lavoratori presi a giornata per lavorare nella vigna, questa domenica; quella dei due figli inviati a lavorare nella vigna, domenica prossima; ed infine, la parabola dei vignaioli omicidi, la domenica seguente.

La vigna ha un significato profondo nella Bibbia. Un dettaglio della parabola di oggi attira subito la mia attenzione. Mentre si dice che si tratta della vigna di un padrone di casa, costui non dice mai “la mia vigna”, ma “la vigna”: “Andate anche voi nella vigna”! Qual è questa vigna? È la Vigna del Regno, la Vigna di Dio. Ma pure la Vigna di Israele, il popolo con cui Dio ha stabilito la sua Alleanza (Isaia 5,1-7; Geremia 2,21; Ezechiele 15,4). Allora questo “andare nella vigna” non è tanto un invito a lavorare nella Vigna quanto ad entrare nell’Alleanza, a condividere l’Amore di Dio.

Ricordo nostalgico

La parabola di oggi non allude al tipo di lavoro da fare. Nella vigna c’è sempre da fare tutto l’anno. Il contesto stagionale in cui l’ascoltiamo, l’allusione al caldo e la preoccupazione del padrone di contrattare il più grande numero possibile di laboratori ci fanno pensare al momento crociale della vendemmia.
Questo mi riporta alla memoria tanti ricordi d’infanzia. Provengo dalla zona del vino di Oporto. La vendemmia era il momento più atteso dell’anno, quello della gioiosa raccolta del frutto di tutto un anno di lavorio attorno alla vigna. Era pure un tempo di attività intensa, di preparazione di cesti, di lavaggio del tino e delle botti, da quelle piccole di qualche centinaia di litri alle più grandi di migliaia di litri. Ma era, soprattutto, il periodo più critico, quando le condizioni atmosferiche e la maturazione dell’uva avrebbero potuto richiedere un intervento tempestivo per non compromettere il raccolto. Possiamo comprendere, quindi, la preoccupazione del padrone della vigna di contrattare il più grande numero possibile di lavoratori.

Bontà scandalosa

La parabola attira la nostra attenzione, prima di tutto, sull’insolito comportamento del padrone della vigna, che va cinque volte in piazza a procurarsi dei lavoratori: alle 6 del mattino, alle 9, a mezzogiorno, alle 3 del pomeriggio e, addirittura, alle 5, un’ora prima della conclusione della giornata di lavoro! Il nucleo del racconto sta proprio nel contrasto tra i lavoratori contrattati all’alba e quelli dell’undicesima ora, che il padrone fa pagare allo stesso modo: un denaro ciascuno, la paga pattuita con i primi. Ma quello che diventa irritante e provocatorio nel comportamento del padrone è il fatto che costui fa aspettare i primi perché siano testimoni della sua generosità verso gli ultimi. Questo, in un primo momento, accresce le aspettative dei primi, ritenendolo un padrone buono e generoso, per poi suscitare la loro protesta, giudicandolo, invece, un padrone ingiusto. Ed è ancora più intrigante la conclusione di Gesù: Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi”. Che strana parabola!

Una stoccata alla meritocrazia!

Quasi certamente questa parabola, che troviamo solo nel vangelo di Matteo, ha di mira un certo numero di credenti della prima ora, venuti dal giudaismo, che si ritenevano superiori e con più diritti di quelli dell’ultima ora, i pagani neo-convertiti. Questa situazione della comunità di Matteo non è anacronistica, purtroppo. Anche oggi ci sono di questi “super-cristiani”. E guai a noi preti, se per caso ce li mettiamo contro, perché possono essere proprio tra quelli più volenterosi ed impegnati nella comunità, quelli bravi! Anzi, potremmo essere proprio noi, io e te. Mi spiego.

Per secoli siamo stati educati in una spiritualità della “meritocrazia”! Moltiplicare le buone opere per accumulare meriti in cielo, davanti a Dio, in modo da avere una bella ricompensa in paradiso. Ma la salvezza si ottiene proprio così? Già la prima lettura ci avverte: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie”! La salvezza sarà sempre un dono. Non è un diritto acquisito per avere “sopportato il peso della giornata e il caldo” (v. 12); un salario dovuto a chi compie determinate opere. E così, il cosiddetto “buon ladrone” è il primo ad entrare nel Regno, e il figlio maggiore della parabola del “figlio prodigo” protesta – “giustamente”! – per quello che lui ritiene uno sgarbo fattogli dal Padre, dopo averlo servito per tanti anni.

Ma, se i meriti non possono vantare diritti, perché impegnarsi più di tanto? Perché avrei dovuto entrare io in seminario a dieci anni e farmi missionario? Non sarebbe stato meglio sposarmi e fare una vita “normale” come tutti quanti? Così ragiona chi concepisce il vangelo come un peso, sforzo, fatica, sacrificio e servitù, e non come un colpo di fortuna che ci ha fatto trovare il tesoro nel campo della nostra vita. Mi viene in mente quel prete, nel racconto del gesuita indiano Anthony de Mello (credo), che vedendo che Dio concedeva il suo stesso “premio” a suo fratello che aveva condotto una vita normale, si rallegrò enormemente e disse a Dio: “Signore, sei così buono che per te sarei pronto a sacrificare un’altra volta la vita!”.

La vita cristiana vissuta da schiavi, da servi o da figli

La vita cristiana può essere vissuta con tre atteggiamenti e comportamenti diversi: quello dello schiavo che ha paura del castigo, per chi Dio è un giudice; quello del servo che lavora per il salario, per chi Dio è un padrone; e quello del figlio che lavora disinteressatamente, per amore, per chi Dio è un Padre. In realtà, però – e questa è la cosa strana! – il vangelo sembra rivolgersi a queste tre classi di persone con il loro stesso linguaggio e aspettative. Gesù afferma: “Chi dice [al fratello]: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna” (5,22). A Pietro che gli chiede: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?” Gesù risponde: “Siederete [con me] su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele”. E a quanti abbandoneranno tutto per seguirlo promette il “cento per uno”, e conclude dicendo: “Molti dei primi saranno ultimi e molti degli ultimi saranno primi”, che, guarda caso, fa da cornice al vangelo di oggi! (Matteo 19,27-30).

Perché Gesù impiega il linguaggio del castigo della “Geènna” (7 volte in Matteo), anche se, sappiamo, è un modo di enfatizzare il suo discorso? Perché Gesù fa tanta leva sulla “ricompensa” (una dozzina di volte in Matteo)? Certo, per Gesù Dio è il “Padre” (nominato una quarantina di volte nel vangelo di Matteo, di cui 16 volte “Padre mio” e 14 volte “Padre vostro”). Il Padre vuole figli, non servi, e tanto meno degli schiavi! E lo scopo della missione di Gesù è renderci simili al Padre: “affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli” (Matteo 5,45). Dio ci vorrebbe tutti figli che lo cercano per amore. Sfortunatamente, tante volte è la paura o l’interesse che ci muovono. E chissà se anche queste motivazioni imperfette servono in certi momenti della vita! E Dio le impiega perché non vuole perdere nessuno dei suoi figli!

Come mai, però, tanti di noi viviamo la fede da “servi” o, addirittura, da “schiavi”? Mi viene da paragonare il nostro battesimo ad un innesto del nuovo Adamo nel ceppo della vite dell’antico Adamo. Questo innesto dovrebbe produrre dei dolci grappoli di amore. Accade, tuttavia, che sotto l’innesto spuntino dei germogli selvaggi che producono uva acerba. Se questi rami selvaggi non vengono tagliati, la vite si indebolisce e appassisce. Ecco perché il Padrone della vigna si lamenta: “mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi?” (Isaia 5,4).

Sorprendentemente, questa convinzione che Dio va servito per amore, e non per interesse o per timore, appare anche in altri contesti religiosi. È eloquente questa testimonianza di una mistica sufi mussulmana del VIII secolo, Rabia di Bassora: “Voglio incendiare il paradiso e spegnere l’inferno perché questi due veli spariscano e i suoi servi Lo adorino senza sperare ricompense e senza temere castighi”. O mio Dio! Se ti ho adorato per paura dell’inferno, bruciami nel suo fuoco. Se ti ho adorato per speranza del paradiso, privami di esso. Ma se ti ho adorato per te solo, non privarmi della contemplazione del tuo volto”.

Per la riflessione personale

– Quale motivazione prevale nel mio rapporto con Dio: la paura, l’interesse o l’amore?
– Cosa risponderesti a questa provocazione di qualcuno: “Se il Paradiso non esistesse, tu crederesti ancora in Dio?”
– Medita sulla bella testimonianza di San Paolo, nella seconda lettura di oggi: Per me il vivere è Cristo”.

P. Manuel João Pereira, comboniano
Castel d’Azzano (Verona) 22 settembre 2023