Comboni – MCCJ

Formazione Permanente
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L’ESPERIENZA CRISTIANA DI DIO 
NELLA VITA E NELL’AZIONE DEL DISCEPOLO MISSIONARIO COMBONIANO

P. Carmelo Casile

4. Componenti costanti dell’esperienza di Dio

4.1. La percezione sacramentale e l’esperienza storica

L’esperienza di Dio richiede, anzitutto, una percezione sacramentale, cioè un’assunzione di dati della realtà esterna mediante i sensi, che rimanda ad un’altra realtà, che si trova al di là del mondo visibile (cf. 1Gv 1, 3).

Infatti l’esperienza di Dio non può essere intesa alla maniera delle esperienze del mondo, perché Dio non é una cosa tra le altre cose così che la sua esperienza sia uguale alla esperienza delle realtà terrene. D’altra parte, fare l’esperienza di Dio è possibile soltanto nel cuore della esperienza della storia, intesa come la dimensione presente dell’uomo nella quale vive, lotta, si mette in discussione, prende decisioni e intraprende un cammino. Nella radicalità di questa dimensione, appare la realtà di Dio come vita della vita e forza del cammino.

Questa realtà di Dio è trascendente, immanente e anche trasparente.

La trasparenza di Dio, in questo caso, consiste nella manifestazione della stessa presenza divina attraverso il mondo.

Il mondo, a sua volta, è anch’esso trasparente nel senso che attraverso di esso si scopre la presenza di Dio e si fa l’esperienza di Lui.

Ma il mondo è trasparente soltanto per chi ha una percezione sacramentale.

La percezione sacramentale, o “visione in profondità”, è la capacità di trovare un significato spirituale nei segni materiali, come la gioia in un sorriso, una dimostrazione di amicizia nei fiori; di cogliere nella realtà che si percepisce, nello stesso tempo, il divino e l’umano; il trascendente che si fa trasparente nell’immanente; di intravedere “un al di là” delle cose.

Alla percezione sacramentale si oppone la percezione funzionale, che considera le cose soltanto come cose e il mondo soltanto come mondo, così che difficilmente può intravedere l’altra faccia della realtà, quella invisibile.

La mancanza della percezione sacramentale è paralisi del nostro sguardo e schiavitù che le cose esercitano su di noi, rendendoci ciechi all’azione di Dio nella storia e sordi alla sua voce, che dalla storia, luogo teologico, ci interpella. 

Ma, grazie alla percezione sacramentale, la persona si può mettere in movimento dalla realtà come simbolo alla realtà simbolizzata, lasciandosi guidare dal simbolo verso il simbolizzato.

Il simbolo, infatti, è espressivo, rende visibile ciò che altrimenti rimarrebbe invisibile e ci invita a dirigere lo sguardo al di là di ciò che percepiamo.

Perché il missionario possa testimoniare e proclamare agli uomini l’amore del Padre, esperimentato nella comunione personale con Cristo, ha bisogno di far maturare in se stesso questa percezione sacramentale, che gli permette un’esperienza di Dio che abbracci tutte le dimensioni della sua esistenza.

A questa percezione sacramentale invitava continuamente Gesù con le sue parabole e le sue opere, che erano, come testimonia Giovanni, autentici segni offerti agli uomini, affinché riconoscessero in Lui l’inviato del Padre: “Tu non sai chi è che ti ha chiesto da bere e non sai che cosa Dio può darti per mezzo di lui. Se tu lo sapessi, saresti tu a chiederglielo, ed egli ti darebbe acqua viva” (Gv 4, 10).

4.2 Purificazione dell’immagine di Dio

A quest’esperienza di Dio trasparente attraverso il mondo che lo riflette senza esaurirlo, si arriva per mezzo di un processo spirituale, che comporta tre tappe, che ci portano all’incontro con il Dio vivo e vero, il Dio della vita, il Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo.

1ª Tappa: Immanenza-identificazione

In questa prima tappa ci aggrappiamo molto all’immagine come rappresentazione di Dio. Quest’immagine ha per noi una forza determinante; acquista, infatti, una tale densità fino a dar forma a ciò che esperimentiamo di Dio. Ancora non ci rendiamo conto che un’immagine di Dio è un’immagine umana di uno che non può essere rappresentato. Dio si identifica con l’immagine, la sua realtà diviene immanente alle realtà umane che la esprimono. Tuttavia grazie a questa identificazione-immanenza noi parliamo di Dio, preghiamo, cadiamo in ginocchio, ecc…

2ª Tappa: Trascendenza-disidentificazione

La seconda tappa ha luogo quando ci rendiamo conto dell’insufficienza delle immagini che ci facciamo di Dio. Ci accorgiamo che la realtà di Dio trascende le immagini e, per tento, lasciamo di identificarla con esse. A causa di una maggiore comprensione della sua trascendenza, si verifica una disidentificazione.

Il passaggio dalla prima alla seconda tappa porta ad una crescita religiosa non esente di una crisi, in cui i punti di riferimento religiosi possono vacillare.

Come accogliere nella nostra vita Dio come Padre al fianco di tanti uomini e donne che sono vittime innocenti dell’ingiustizia istituzionalizzata, degli orrori della guerra, degli abusi, della fame…? Allora, anche se con sofferenza, comincia ad aprirsi strada nel nostro cuore la convinzione che Dio è Padre, sì, ma un altro Padre, non è un Padre indifferente ma un Padre differente, la cui bontà paterna si realizza al di là di tutti i modi che noi possiamo immaginare e desiderare… Cominciamo, così, a mettere in questione le nostre immagini di Dio.

3ª Tappa: Trasparenza-identità

La nostra realtà corporale ci impedisce di prescindere completamente dalle immagini. Abbiamo bisogno di esse per accedere a Dio. Ma, allora, grazie alla tappa anteriore, posiamo incominciare a dare alle immagini un valore differente. Le assumiamo come immagini e non come la stessa realtà di Dio. Cominciamo ad assaporarle con la serenità di chi sa che non sono Dio ma che ci avvicinano a Dio. Allora, nel nostro rapporto con Dio, tutto diventa più semplice; non ci importa tanto riflettere; basta vedere, ma vedere in profondità. Dio, infatti, senza confondersi con le cose, è presente in esse perché le cose sono (per chi vede in profondità) trasparenti.

Allora la nostra esperienza di Dio può aver luogo per mezzo di tutte le cose, di tutte le situazioni della vita quotidiana, giacché per mezzo di esse Egli si rivela. Così entriamo e progrediamo nell’esperienza di Dio imparando a leggere la segnaletica che Dio mette nella vita quotidiana.

4.3. La partecipazione integrale della persona 

L’uomo è stato creato da Dio come un “essere-in-relazione” con se stesso, con gli altri, con il creato e con Dio stesso. Dio fa parte dell’esistenza umana, costituisce per ogni persona l’istanza suprema ed ultima, la soluzione della sua naturale tensione alla trascendenza, che le permette dare un volto nuovo ed un significato nuovo al suo sviluppo personale e alla sua tensione sociale. Ogni uomo manifesta una tendenza a rapportarsi con Dio. Dio gli è tanto necessario come se stesso e i suoi simili. La perdita di uno dei tre punti di riferimento -io, tu, Dio- distrugge l’uomo come essere normale. Il pazzo o ignora se steso, o ignora gli altri, o ignora Dio.

Per tanto, la realizzazione personale di ogni uomo è il risultato dello sviluppo e dell’integrazione armoniosa di queste tre dimensioni: costruirsi come persona, vivere in solidarietà, aprirsi alla trascendenza. La meta ultima dell’esistenza umana è la trascendenza, alla quale si arriva costruendosi come persona in solidarietà con gli altri.

In questa tensione verso la trascendenza, Dio si apre il cammino nel cuore dell’uomo attraverso la strutturazione dello stesso essere umano: attraverso la sua coscienza (= la sua propria interiorità), gli avvenimenti storici (= la solidarietà), la fede (= l’Alto, l’Oltre misterioso di Dio). Per tanto, l’itinerario spirituale dell’uomo, il senso della sua vita, si configura come un’interiorità aperta al superamento di se stessa nella trascendenza, nell’Altro Assoluto attraverso la solidarietà.

Allora, per fare una autentica esperienza di Dio, l’uomo deve partecipare con tutte e tre le dimensioni della sua esistenza:

La dimensione trascendente o dell’altezza, per mezzo della quale l’uomo esplora i suoi confini e si mantiene unito in relazione di dipendenza e filiazione con tutto ciò che lo precede e avviene in lui e attorno a lui: padri, storia, tradizioni ambiente… fino ad arrivare all’Altro Assoluto e riconoscerlo come suo principio e fine; nella dimensione trascendente l’uomo riconosce stesso come “essere che si riceve”, come essere finito aperto all’Infinito. É la base umana che spinge la persona verso la fede religiosa propriamente detta, in quanto riconoscimento dell’Altro, che supera trascendentalmente ogni creatura.

La dimensione sociale o dell’ampiezza e della solidarietà, che incorpora l’uomo per mezzo di vincoli e relazioni al mondo che lo circonda e agli altri uomini, e che lo va conformando e maturando nella sua personalità di figlio e fratello. Senza l’accettazione di essere figlio, la fraternità è ideologia vuota; senza giustizia e fraternità, la fede nel Padre è mistificazione. È la base umana che spinge la persona a quella particolare “fede negli altri”, su cui è ultimamente fondata la dialogicità relazionale umana, cha a sua volta diviene una mediazione attraverso la quale ci si apre e si riceve sostegno nel cammino di fede in Dio. 

La dimensione interiore o della profondità, che mantiene l’uomo in intima comunione con le radici più profonde del suo essere, con la sua interiorità, con ciò che in lui è fonte ed origine di tutti i suoi impulsi ed atti. È la mia parte più intima, il cuore. Tutta la vicenda umana si gioca qui, nell’intimo dell’uomo, nel cuore. Il cuore, infatti, è il luogo delle decisioni libere, degli affetti profondi che cambiano la vita e dei grandi orientamenti che danno senso alla storia (Card. Martini).  È il luogo dove io sono davanti a Dio e Dio è davanti a me. Lì Dio mi è Padre ed io gli sono figlio. Lì il suo vedermi e amarmi è il mio essere me stesso; e il mio vedermi lì mi fa essere ciò che sono (S. Fausti).

L’esperienza di Dio è autentica quando si realizza in queste tre dimensioni dell’uomo integrale. Dio è per e sopra di noi, con noi e in noi

5. Il concorso di tutte le capacità della persona

Il vissuto concreto dell’esperienza di Dio non si estende soltanto alle tre dimensioni dell’esistenza umana (trascendente, sociale e interiore), ma esige l’impegno della persona con tutte le sue facoltà affettive e spirituali, secondo le parole di Gesù: “Amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze”(Mc 12, 30).

Per fare l’esperienza di Dio, si richiede tutta la persona, con il suo cuore, la sua mente la sua volontà. Ciò suppone equilibrio personale, una corretta visione teologica e l’aiuto ad evitare distorsioni e riduzionismi che impoveriscono la stessa esperienza.

Infatti, alle volte si privilegia troppo il cuore, inteso come emotività, trascurando il resto e riducendo l’esperienza di Dio ad una fonte di piacevoli e gratificanti emozioni: si cade così nell’illusione sentimentale. È il caso di coloro che, per incontrare Dio, hanno bisogno di “esperimentarlo”, nel senso di farlo oggetto delle proprie emozioni e sentimenti. Questa sottolineatura nell’esperienza di Dio può produrre l’incostanza, l’alternanza tra momenti di grande entusiasmo e momenti di aridità e mancanza di impegno, e può portare al “turismo spirituale” o al sincretismo, cioè alla ricerca di gruppi o movimenti religiosi che favoriscano “esperienze” nuove e gratificanti e l’inconsistenza nel cambiamento concreto di vita (volontà), che ha bisogno di essere basato in convinzioni solide e teologicamente chiare (mente).

Può esistere il rischio di un’allergia ad assumere nella pratica il progetto di Dio quando manca la sua consolazione.

Si può arrivare anche a fare ripetute dichiarazioni di amore a Dio e obbligarlo poi a condividere, in noi, lo spazio con molti altri amori. Come se Egli non fosse il Dio della vita, l’Assoluto, ma piuttosto un oggetto in più di consumo, occasione della nostra ricerca di esperienze spirituali gratificanti (cf. Mt 7,21).

In altre occasioni si assolutizza la volontà, arrivando a pensare che, per fare l’esperienza di Dio, basta comportarsi in un certo modo, imporsi una certa vita ascetica, recitare una certa quantità di preghiere o fare determinati esercizi di pietà, portare avanti un insieme di opere apostoliche, che divengono “mie”. In questo modo, si inverte la relazione Dio-uomo e si crea l’illusione di arrivare a Dio grazie alle nostre forze.

L’esperienza di Dio è un dono, che Dio concede all’uomo andando al suo incontro; l’uomo ha soltanto la capacità di accoglierlo con gioia, umiltà e gratitudine… Pensare il contrario è cadere nell’atteggiamento volontaristico.

Ciò succede a coloro che si chiudono nell’autosufficienza, nel perfezionismo narcisista e non sono capaci di accettare né il limite né la povertà come momenti di grazia in cui sentirsi amati, accolti e perdonati dalla tenerezza di Dio. A volte ci trasformiamo in legalisti rigidi con noi stessi e con gli altri, poveri di passione e di entusiasmo per l’avventura dell’esperienza di Dio, più stoici che innamorati, più burocrati dell’apostolato che testimoni e proclamatori dell’amore di Dio. 

Finalmente, si può verificare l’illusione razionalista che trasforma Dio in un oggetto di speculazione per mezzo della ragione e conservato in “naftalina”: è il Dio dell’ortodossia. Si tenta di ridurre Dio ad una equazione e di creare una religione a misura delle proprie idee; diviene allora difficile accogliere in profondità il senso del mistero; si pretende spiegare tutto e si considera umiliante sentirsi perdonati e debitori degli altri nel cammino verso Dio. Si sente difficoltà ad abbandonarsi a Dio, che è colui che dirige la nostra vita secondo la sua volontà; si preferisce conservarla sicura nelle proprie mani e proteggerla per mezzo di una solida barriera di sicurezze basiche. Non si comprende, soprattutto, la croce nella vita di Cristo e nella propria.

La nostra esperienza di Dio può trovarsi, al meno parzialmente, contaminata da qualcuna di queste illusioni. È una misura di saggezza prenderne atto. (cf. P. F. Masserdoti, Missionari per il Regno, pp. 20-21).

6. Esperienza trinitaria o cristiana di Dio

6.1. Gesù di Nazaret assoluta comunicazione di Dio

Dio stesso ha voluto manifestarsi per insegnarci come fare l’esperienza di Lui. Gesù di Nazaret è l’assoluta comunicazione di Dio. In Lui troviamo l’esperienza perfetta di Dio. Seguire Gesù vuol dire fare l’esperienza che Egli ha fatto, l’esperienza cristiana di Dio. La sequela di Cristo ci porta a fare l’esperienza di Dio come Padre, cioè, di Dio sopra di noi e per noi, origine e principio di tutto ciò che siamo. Ci porta a fare l’esperienza di Dio come Figlio, cioè, che è con noi, al nostro fianco, con la passione per il Regno di Dio, con l’ansia di fraternità e la sete di giustizia, che richiede il servizio del prossimo. 

È il Dio autocomunicato in Gesù, il Figlio, che ci riconosce davanti al Padre se noi l’avremo riconosciuto nei fratelli più piccoli, e che si mantiene in continua comunicazione nella storia degli uomini attraverso ogni persona.

Ci porta, in fine, a fare l’esperienza di Dio dentro di noi, in noi, “emergendo nella radice della nostra stessa vita e costituendosi come fonte dei nostri migliori impulsi e più nobili pensieri. È l’esperienza dello Spirito di Dio in noi” (Guerrero). Dio sopra di noi e per noi (Padre), con noi (Figlio), in noi (Spirito) si fa presente nella totalità dell’esistenza umana.

Per tanto, l’esperienza trinitaria o cristiana di Dio si realizza nelle tre dimensioni dell’esistenza della persona umana: Dio è sopra di noi, con noi e in noi: è nostro Padre, nostro Fratello e nostro Spirito. Nel Padre ci crea, ci elegge e ci ama; in Cristo, “Dio con noi”, realizza nella storia il suo progetto su di noi; nello Spirito, “Dio in noi”, si costituisce come vicinanza personale nella nostra vita.

La vita del missionario esige nella formazione di base e permanente l’apertura totale della sua esistenza, nella sua dimensione trascendente, sociale e interiore, all’esperienza del Padre in Gesù Cristo nello Spirito Santo, cioè alla esperienza trinitaria di Dio. 

6. 2. Esperienza trinitaria di Dio e formazione della personalità apostolica.

L’esperienza trinitaria di Dio richiede all’apostolo che si apra ad essa nella triplice dimensione della sua esistenza e ai doni che in essa il Signore gli concede. Così va assumendo e conformandosi ad un modo apostolico di essere nel mondo.

1ª. Dimensione interiore ed esperienza di Dio in noi.

L’interiorità, attraverso la sua stessa maturazione, va prendendo coscienza della sua identità, cioè, il senso dell’io come individuo e come apostolo.

Contemporaneamente, la persona si va aprendo ad una esperienza di Dio sempre più profonda e al dono della speranza creativa, che lo Spirito infonde in chi va assumendo la forma di apostolo. 

Così si stabilisce nell’apostolo un circuito di crescita continua. Infatti la maturazione della sua interiorità che lo porta a prendere coscienza della propria identità, gli permette di aprirsi all’esperienza di Dio in noi. Come un dono del suo amore, Egli infonde nella persona la virtù teologale della speranza creativa, la quale influisce nella sua dimensione interiore dandole profondità, cioè, una base solida per la sua vita apostolica. A sua volta questa maggiore profondità influisce nella coscienza di sé e le permette di aprirsi ad una esperienza ancora più profonda del Dio in noi. Così la continua crescita dell’apostolo nella sua vita intimità con Dio lo fa crescere nello slancio apostolico , e lo slancio apostolico lo spinge verso una sempre più profonda esperienza di dio in noi (Cf. RV 82; 82.1).

2ª. Dimensione sociale ed esperienza di Dio con noi

La dimensione sociale dell’esistenza va maturando come apertura all’altro in quanto persona diversa, come spinta verso la solidarietà e così va suscitando il senso del noi. Per questo motivo, la dimensione sociale comporta un impegno sempre più saldo con la realtà presente ed una sintonia con la storia come cammino verso un futuro migliore dove ci sia giustizia e fraternità.

Lo sviluppo della dimensione sociale è un cammino privilegiato per arrivare e crescere nell’esperienza di Dio. Ma non si tratta soltanto di un’opzione spirituale o morale. La nostra stessa struttura antropologica ci mette su questa strada. Possiamo arrivare al cuore della nostra identità, soltanto aprendoci alle altre persone e in modo preferenziale ai poveri. “L’io esperimenta se stesso soltanto e sempre nell’incontro con le altre persone, distinguendosi e identificandosi con esse” (K. Rahner). Chi non incontra il prossimo, neppure incontra se stesso e tanto meno incontra Dio. C’è una stretta relazione tra l’esperienza di se stesso, l’esperienza dell’altro e l’esperienza di Dio. In termini biblici ciò significa che non si può amare Dio se non si ama il prossimo come se stessi. Queste tre realtà sono unite come gli angoli di un triangolo, che sono indissolubili (cf. Mt 22, 39-40).

Per tanto, la maturazione nella dimensione sociale comporta l’apertura all’altro, così che la persona vada elaborando in sé il senso del noi, cioè, la sua dimensione comunitaria nella solidarietà. Nell’esperienza comunitaria, la persona si apre all’esperienza di Dio con noi e al dono della carità pastorale, virtù teologale che influisce nella sua dimensione sociale, permettendole di darsi totalmente al servizio dell’altro e, per tanto, rendendole possibile una più forte esperienza di Dio (cf. RV 84; 36; 46; 20).

3ª. Dimensione trascendente ed esperienza di Dio sopra di noi

La nostra esistenza non si realizza soltanto raggiungendo una chiara coscienza dell’io e degli altri. Ogni conquista porta con sé un’insoddisfazione. Ogni successo insinua una meta ancora superiore. C’è in ognuno di noi una tensione ad andare sempre più “al di là”, verso la bontà, la verità, la bellezza che non hanno limiti. Questa dimensione che chiamiamo trascendente, nello stesso tempo che ci apre al patrimonio di cultura, di valori profondi, di conquiste dei nostri antecessori e che andiamo ricevendo come un dono che deve essere interiorizzato, ci spinge sempre più al di là, sempre più in alto, verso il Totalmente Altro, che supera e sconcerta le nostre attese e previsioni.

La nostra condizione corporale ci obbliga ad avvicinarci alla verità, alla bontà e alla bellezza somma, in forma graduale e per mezzo di immagini. Non può essere in altro modo, perché l’ ”infinitamente incondizionato” si può fare presente a noi soltanto per mezzo di rappresentazioni, parole, frasi, cose ed avvenimenti concreti. Ciò vuol dire che ci facciamo un’immagine di Dio.

L’immagine di Dio viene elaborata per mezzo di tutte le cose, le persone e gli avvenimenti nei quali l’uomo arriva a intravedere, a sentire o percepire il Mistero dell’Assoluto. 

Per tanto, non c’è bisogno di rompere le immagini che ci facciamo di Dio; l’unica cosa che ci resta da fare, è purificarle per mezzo della meditazione della Parola di Dio e soprattutto contemplando la Persona di Gesù nella sua relazione con Dio (cf. Gv 14, 8-9). Attraverso questo esercizio costante, andiamo imparando a convivere serenamente con esse, sapendo che Dio è al di là di tutte esse, ma che, a causa della nostra condizione temporale, non possiamo fare a meno di esse per dirigerci a Lui.

La maturazione nella nostra dimensione trascendente comporta lo sforzo per superare o purificare le immagini che ci facciamo di Dio. Molte volte ciò avviene nel mezzo di una crisi religiosa -piccola o grande- , che è stata risolta positivamente. La crisi è il crogiolo che purifica il nostro senso di trascendenza e la nostra fede. Lo sforzo per superare le immagini ci apre all’esperienza di Dio sopra e per noi che ci crea, ci elegge, ci chiama. Nell’apertura al Dio che si trova sempre più in là, riceviamo il dono della Fede che è per noi fortezza e slancio verso il futuro nella prospettiva di un Regno già inaugurato in Cristo, ma ancora da realizzare in pienezza.

Allora fare l’esperienza di Dio per e sopra di noi è “confrontare con le esigenze del Suo primato tutto ciò che si è e che si fa: Egli è la misura del vero, del giusto, del bene. Vuol dire tornare alla verità di noi stessi, rinunciando a farci misura di tutto, per riconoscere che Lui soltanto è la misura che non passa, l’áncora che dà fondamento, la ragione ultima per vivere, amare, morire. Vuol dire guardare le cose dall’Alto, vedere il Tutto prima della parte, partire dalla Sorgente per comprendere il flusso delle acque”. 

7. La Vergine Maria, sintesi esistenziale e apertura totale

Nel cammino della crescita continua dell’apostolo nelle tre dimensioni della sua esistenza -interiore, sociale e trascendente- è particolarmente significativa la presenza della Vergine Maria. In Lei l’apostolo trova un esempio, un modello, una maestra per il suo incontro con Dio, giacché la Vergine Maria è la persona aperta esistenzialmente e totalmente all’esperienza di Dio (cf. RV 24; 47. 3; 51. 3; 46). 

In fatti, la dimensione interiore della sua esistenza è stata arricchita con la presenza dello Spirito-Dio in noi-, che ha fatto meraviglie in suo favore come ella stessa riconosceva (Lc 1, 35.49).

La dimensione sociale si incarnò in Maria in una vita di servizio in compagnia dei poveri (Lc 1, 39) e di collaborazione a Cristo nella sua opera redentrice (Gv 2, 5; 19, 25-27).

La crescita di Maria nella sua dimensione trascendente appare nella disponibilità assoluta a Dio. Dalla sua filiazione e dipendenza, in forma libera e decisa, ella si apre con il suo Sì a Dio e al progetto del suo Regno. 

Maria è madre e modello di ogni apostolo, precisamente perché sempre ed in ogni circostanza è stata dalla parte di Dio e al servizio della salvezza del mondo. Seguendo Maria, imitando i suoi atteggiamenti di fondo, l’apostolo trova il lei l’esempio perfetto dal quale imparare a crescere nell’incontro con Dio e a realizzarlo nella vita (cf. RV 46).

8. Attività o Mezzi di crescita e perseveranza

Tutto questo processo verso l’esperienza cristiana di Dio ha continuo bisogno di attività come mezzi di crescita e di perseveranza in essa. 

In particolare, ogni comunità formativa ha le sue attività specifiche, pensate in sintonia con l’ideale vocazionale, con la realtà nella quale è inserita e con la tappa concreta di formazione. Tuttavia si può affermare che, se certe attività non sono inserite e praticate sistematicamente nel cammino formativo, è difficile presumere che la persona si stia aprendo ad una profonda esperienza di Dio nelle tre dimensioni dell’esistenza umana così da mettere le basi di una solida e chiara personalità apostolica.

8.1. Attività per la crescita nella dimensione interiore dell’esperienza di Dio 

Per la crescita nella dimensione interiore verso l’apertura all’esperienza di Dio in noi, sono indispensabili le seguenti attività:

1ª. Riflessione personale sulla propria identità:

  • Ciò che sono: la mia realtà e la mia vocazione.
  • Ciò che non sono: le mie limitazioni.
  • Atteggiamenti che prendo davanti a ciò che sono e a ciò che non sono: accettazione.
  • Coscienza implicita di essere sempre di più: desiderio di crescita.
  • Coscienza di stare determinando ciò che la mia vita deve essere: donazione di sé libera e serena secondo un progetto di vita.

2ª. Sforzo di conversione e di revisione personale continua

Questa attività è necessaria per rimuovere il peccato in tutti i suoi aspetti e dedicarsi all’apostolato con libertà e gioia interiore, in una continua tensione verso la santità.

Si ottiene ciò con la costante pratica dell’esame di coscienza, del sacramento della riconciliazione e la direzione spirituale.

3ª. Iniziazione alla preghiera personale. 

Il Papa, scrivendo ai sacerdoti e ai vescovi ricorda: – La vita di preghiera deve essere continuamente “riformata”. L’esperienza, infatti, insegna che nell’orazione non si vive di rendita: ogni giorno occorre, non solo riconquistare la fedeltà esteriore ai momenti di preghiera, (…), ma anche e specialmente rieducare la continua ricerca di un vero incontro personale con Gesù, di un fiducioso colloquio con il Padre, di una profonda esperienza dello Spirito.

La santità consiste nello stare con il Signore e, a forza di starci, la sua immagine s’imprime nell’anima; e poi nel camminare alla luce di quest’immagine. In questo consiste la santità.

La preghiera è la ricerca del contatto personale con il Signore in vista della santità che si vuol raggiungere.

Per pregare c’è bisogno di metodo, di ordine e di disciplina, ma anche di flessibilità, perché lo Spirito Santo può alitare nel momento che meno si pensa. La gente si arena nella preghiera perché difetta di metodo. Chi prega in un modo qualsiasi, sarà un tipo qualsiasi. L’iniziazione alla preghiera deve essere un fatto costante nella vita del cristiano; in particolare l’esercizio della contemplazione aiuta a sviluppare la percezione sacramentale della vita: pregare la vita, preghiera con oggetti, ecc…

Il contatto con il Signore è soggetto ad alcune costanti:

1ª. Più si prega, più si desidera pregare.

2ª. Meno si prega, meno si desidera pregare.

3ª. Più si prega, “più” Dio è in noi.

4ª. Meno si prega, “meno” Dio è in noi.

5ª. Quando si trascura di pregare, Dio finisce per diventare “Nessuno” in noi.

Un apostolo nella cui anima Dio è venuto meno, sicuramente seguiterà a parlare “di” Dio, però sarà incapace di parlare “con Dio”; saprà parlare di Dio, ma non saprà trattare personalmente con Dio o che cosa fare con Dio. E chi non prende sul serio Dio nella sua vita, non prenderà niente sul serio; solamente lui resterà importante per se stesso. Gli sarà più comodo e meno impegnativo conformare gli altri a se stesso e non a quel Qualcuno che ci costringe all’incontro e pone allo scoperto tutto ciò che abbiamo, facciamo e siamo (cf. I. Larrañaga, Mostrami il tuo volto, Ed. Paoline, Roma 1982, pp.17-30)

4ª. Lettura spirituale, per inculturarsi nella Parola di Dio, per entrare nella ricchezza infinita di questa Parola, della vita dei Santi e degli autori spirituali che ci stimolano e la cui comprensione e possibile nella misura in cui ci apriamo all’influsso dello Spirito, “Dio in noi”.

8. 2. Attività per la crescita nella dimensione sociale dell’esperienza di Dio 

Per aprirsi all’esperienza di Dio con noi, alcune attività sono indispensabili:

1ª. Vita, azione e preghiera comunitarie 

Nella vita comunitaria l’apostolo vive uno dei viaggi più costosi ma più necessari, perché gli offre un’opportunità preziosa:  l’uscita continua da se stesso, dalle sue abitudini gratificanti, dai modi di vita e dai punti di vista esclusivamente personali. Tale uscita lo porta verso gli altri membri per conoscerli meglio, per accettarli come fratelli con cui condivide la stessa vocazione-missione in un atteggiamento di reciproco arricchimento. Tale atteggiamento lo rende nello stesso tempo capace di contribuire in modo particolarmente efficace nell’edificare la Chiesa come “Famiglia di Dio” (AC ‘97, 28).

La comunità “orante” è il luogo per la formazione e per il discernimento dell’esperienza di Dio di chi è stato chiamato a testimoniare e ad annunciare l’amore del Padre, esperimentato nella comunione personale con Cristo (cf. RV 46).

“Il dovere dell’apostolo è anche quello di offrire con la preghiera, i sacramenti, lo scambio e i sostegni fraterni, la possibilità di liberare la propria coscienza da ogni ambiguità e dalla tentazione dell’uso strumentale del potere, purificando e rafforzando l’impegno di servire con umile tenacia, al di là di ogni orgoglio e di ogni egoismo”.

2ª. Il lavoro apostolico in sintonia con i poveri.

L’esperienza profonda di Dio si sviluppa attraverso due coordinate inscindibili: la conversione al Dio e Padre del nostro Signore Gesù Cristo e la conversione al povero.

Conversione al povero significa vivere un’esistenza condotta in sintonia con l’azione dello Spirito che spinge a vivere oggi la prassi di Gesù: l’annunzio del Regno come stare a mensa con gli esclusi.

Il Regno di Dio che viene nella storia, si manifesta in Gesù e, per Lui, si prolunga in noi, attraverso di noi, ed opera, soprattutto, dove c’è “la fede operante nella carità” (Gal 5,6). Convertirsi al Dio di Gesù vuol dire, dunque, fare spazio al primato di Dio nella nostra vita. Un primato non in astratto, ma nel mettere in cima ad ogni desiderio, progetto e opera, la ricerca della Sua giustizia: “Cercate il Regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù” (Mt 6, 33), cioè, l’amore verso il Padre e verso i fratelli, imparando continuamente da Gesù, che è il Figlio che tutto riceve dal Padre e spezza coi fratelli: la sua esistenza è amore ricevuto e dato.

Proprio per questo, la conversione al Dio che viene nella storia in Gesù, è conversione al prossimo, al “malcapitato” imprevisto che incrocia la nostra strada di singoli e di comunità nella Chiesa.

Allora ci rendiamo conto che l’ “opzione per i poveri” non è una scelta vera e propria, cioè una possibilità tra le altre, perché la conversione al povero è intrinseca all’esperienza profonda di Dio. Esperimentare l’amore di Dio Padre nella comunione personale con Cristo (cf. RV 46), è sempre condividere la propria mensa con gli esclusi. Il Dio vero, il Dio e Padre di Gesù, è là dove c’è amore vero, cioè quando la nostra vita diviene una mensa imbandita per portare gli esclusi ad una vita piena e noi ci sentiamo felici di pagarne il prezzo, anche se a volte ci risulta caro. Qui c’è il sigillo del Dio vero, del Dio-Amore rivelato nel Cuore di Gesù. Dio traspare nella mia vita, quando io sparisco donandomi.

Ma chi sono gli esclusi, con i quali condividere la mensa?

Certamente sono tutte quelle persone che costituiscono le Situazioni “Nigrizia”: RV 5; AC ‘97, 4-8.

Tuttavia, la mappa degli esclusi non ha confini: gli esclusi sono tutti quelli che secondo il mondo non sono persone gradite.

Non è mai necessario sforzarsi per trattare con persone gradite anche se povere e diminuite. Il problema sorge quando ci troviamo davanti a persone non gradite, con le quali è difficile convivere: sono coloro che non sono capaci di dominarsi, i malcontenti di tutto, gli ironici, gli importuni, i complessati, i risentiti, i depressi, gli indifferenti e privi di entusiasmo, i cercatori di protagonismo ecc.. 

Questi esclusi, questi poveri li troviamo anche nella nostra stessa comunità: abbiamo contribuito più o meno a crearli e certamente siamo coscienti che in qualche misura ci siamo anche noi, perché ognuno di noi è portatore di qualche tratto di queste povertà.

Gli AC ‘97 alzano il velo su questo aspetto delle persone nelle nostre comunità: cf. nn. 9; 20; 123.

Questi esclusi aspettano di essere invitati alla mensa del nostro amore; ognuno di noi può aver bisogno di questo invito e di disponibilità ad essere accolto con la sua povertà alla mensa dell’amore del fratello, con cui condivide la vocazione e la missione.

Gli AC 97, nei nn. 29- 30 ci invitano a preparare questa mensa e ci danno indicazioni concrete sul come prepararla.

3ª. La riflessione critica sulla realtà

L’apertura sulla realtà in cui la comunità è inserita, per mezzo di una prassi cristiana, cosciente ed efficace, introduce l’apostolo ad una esperienza di “Dio con noi” come forza liberatrice di promozione e di comunione, come il senso di tutto il sacrificio ed il polo di riferimento dei desideri della comunità.

“Missione è ricerca di Dio e della sua “sapienza infinita dai mille volti” presso tutti i popoli, i ceti sociali, gli individui. È ricerca di nuovi terreni, sui quali il seme della parola di Dio possa essere gettato con generosità, sapendo che molto andrà perduto, e che con il grano buono crescerà la gramigna; pronti a lodare il Padre quando ci accorgeremo che il raccolto è maturato mentre noi dormivamo e anche là dove altri hanno seminato”

4ª. Sforzo per crescere nella comunione ecclesiale.

“Per fare missione, è necessario amare molto il Vangelo, l’uomo e la Chiesa. Chi parte sbattendo la porta, disgustato da ciò che lascia, parte in nome di se stesso.

Bisogna partire invece perché c’è dentro di noi speranza, gioia, fiducia. Bisogna partire proprio perché ci si trova bene.

Questo non significa essere ciechi, non soffrire per le contraddizioni, le lacerazioni della propria comunità. 

Missione è andare, in una pace sempre ricostruita con se stessi e la propria Chiesa, a scoprire e ricostruire pace presso gli altri”

5ª. Ottenere una crescita morale

Questa crescita deve avvenire in sintonia con il Vangelo per mezzo della pratica della carità secondo lo spirito delle beatitudini e con i valori del bene comune: tolleranza, solidarietà, impegno per la giustizia e la pace, corresponsabilità, ecc…

Questa vita morale porta ad una apertura evangelica agli altri, che l’apostolo esprime in modo particolare per mezzo della testimonianza personale e comunitaria dei consigli evangelici di castità, povertà ed obbedienza (cf. RV 58). 

In fatti, la pratica dei consigli evangelici è un modo di vivere la dimensione sociale dell’esperienza di Dio, cioè, di Dio con noi, che è rivestita di una forte carica di denuncia e di annuncio di una Buona Novella nel mondo di oggi.

Analizzando la situazione sociale del nostro tempo, emergono fatti e situazioni che interpellano la coscienza di ogni cristiano:

– Cresce ancora la folla dei “nuovi poveri”, di gente priva dell’essenziale: la salute, la casa, il lavoro, il salario familiare, l’accesso alla cultura, la partecipazione. Tra questa gente vivono una particolare situazione di emarginazione: anziani, handicappati, tossicodipendenti, dimessi dalle carceri o dagli ospedali psichiatrici, ragazzi della strada, ecc…

– Imperversa il dominio degli idoli: denaro, potere, consumo, spreco, tendenza a vivere al di sopra delle proprie possibilità…

– Sono dissipati i valori essenziali dell’esistenza umana: il diritto a nascere e a vivere, la libertà, la famiglia, il lavoro, il senso del dovere e del sacrificio, la tensione morale e religiosa. 

Questa situazione costituisce una sfida per la responsabilità dei cristiani, che vengono a trovarsi di fronte al compito di mettersi a servizio per l’edificazione di un ordine sociale e civile rispettoso e promotore dell’uomo, dei suoi bisogni, del valore delle relazioni familiari e sociali, secondo il messaggio evangelico.

La pratica dei consigli evangelici è una risposta a questa responsabilità e a questo compito dei cristiani di oggi.

In una società che organizza il Pianeta Terra come patria definitiva, che ha deciso che non esiste niente al di sopra dell’uomo e che schiaccia i piccoli e gli sfortunati, la pratica dei consigli evangelici può esercitare un forte impatto. 

La castità può essere un correttivo e una forza di segno contrario all’esercizio di una sessualità impazzita. Agisce come forza alternativa di orientamento di tutte le energie umane al servizio dell’amore di Dio e del prossimo.

La povertà può essere un correttivo e una forza di segno contrario alla ricerca del benessere materiale al di sopra di tutto. La testimonianza di una vita austera, lontana dalla superficialità borghese, ci abilita ad annunciare la beatitudine della povertà anche ai ricchi e a sensibilizzarli alla miseria in cui vive la maggior parte dell’umanità; nello stesso tempo ci conferisce l’autorità morale per denunciare le ingiustizie e lavorare per formare una coscienza morale e politica in favore degli esclusi nella società attuale.

L’obbedienza può funzionare come un correttivo o una forza di segno contrario alla libertà senza responsabilità, alla rivendicazione di diritti senza contropartita di doveri. L’obbedienza fonda un genere di convivenza dove la produzione e l’efficienza non costituiscono il fine ultimo, dove la solidarietà permette la realizzazione di grandi cose e di piani comuni, dove l’autorità si trova a servizio dell’unità. 

D’altra parte stiamo uscendo da un’epoca, in cui il futuro sembrava che stesse per essere plasmato da una serie di movimenti di liberazione, che potevano essere raggruppati nei seguenti: liberazione dall’onnipotenza del potere: erano movimenti in favore della libertà politica, contro ogni genere di totalitarismo, contro il razzismo; liberazione dall’onnipotenza della ricchezza: movimento operaio, sindacati, giustizia sociale; liberazione dall’onnipotenza del sesso: liberazione della donna; liberazione contro la strumentalizzazione di essa.

In questi movimenti scorgevamo espressioni della volontà di Dio, segni dei tempi, avvenimenti indicatori per l’impegno cristiano. 

Oggi di questi movimenti ci restano delle tracce, mentre si impone il sistema economico liberare nella sua forma più radicale con tutti gli idoli che lo accompagnano.

In questa situazione sociale, la pratica dei consigli evangelici può significare un “” a quanto di umano proponevano i movimenti di liberazione ed un “no” alle nuove idolatrie del sesso, del denaro, della pretesa che ognuno basta a se stesso.

La castità, mentre ci rende solidali con chi rifiuta di divenire semplice oggetto di piacere, mette in guardia contro le infiltrazioni radicali che esaltano la più indiscriminata e illusoria liberalizzazione nel campo sessuale.

La povertà, mentre ci spinge ad abbracciare la causa dei poveri, mette in guardia davanti agli inganni della società opulenta, retta dalla ossessione del possesso e del benessere, che finisce per creare ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri.

L’obbedienza, mentre ci mette a fianco di coloro per i quali obbedire non è una virtù ma una dura necessità ed una forma di schiavitù, mette in guardia contro le soluzioni private di solidarietà o incapaci di autodisciplina.

I voti danno così un apporto ora di annuncio, ora di denuncia, ora di solidarietà, ora di critica, ora di stimolo, ora di avviso; e dicono agli uomini e alle donne di oggi che lo sforzo per la trasformazione della società comincia dalla lotta contro il peccato personale, contro l’io aggressivo, intollerante, prevaricatore e adoratore di se stesso.

La pratica dei consigli evangelici vuole e deve dimostrare che il mondo non può essere trasfigurato né offerto a Dio senza lo spirito delle beatitudini (cf. LG 31).

8. 3. Attività per la crescita nella dimensione trascendente dell’esperienza di Dio 

Un’attività privilegiata per crescere e per formare nell’esperienza di Dio Padre, attraverso i segni, è la celebrazione liturgica.

Ogni celebrazione, effettuata con spirito di fede, con raccoglimento, con un atteggiamento anche esteriore che indica un incontro con il Trascendente, è un potente invito a fare l’esperienza di Dio sopra e per noi, cioè di Dio Padre. 

La celebrazione eucaristica in cui si ricorda la Storia della Salvezza e si vive questa Storia nell’oggi della nostra vita con spirito di festa, è fondamentale per la formazione della persona e della comunità all’esperienza di Dio.

La celebrazione penitenziale, da parte sua, ci apre non solo alla coscienza del peccato ma anche alla coscienza della liberazione dallo tesso come opera esclusiva di Dio. Ci apriamo al Dio del perdono come il figlio prodigo che ritorna ed è accolto dal padre in un atmosfera di riconciliazione e di festa.

Gli atti, piccoli o grandi di rinuncia, di distacco, che ogni giorno possiamo realizzare, ci vanno aiutando a coltivare il senso della trascendenza. È una autoaffermazione al senso del relativo, necessario in ogni momento in cui ci sentiamo inclinati – con illecite trasferente – di rivestire di assoluto qualunque realtà creata che ci entusiasma.

Lo studio della teologia è anche fondamentale per l’apostolo. Essa lo aiuta nella comprensione della funzione del simbolo; lo introduce nella realtà sacramentale di Cristo e della Chiesa come anche della sua stessa situazione storica che sono cammini per arrivare a Dio e alla realizzazione piena del suo Regno.

9. Visione d’insieme.

Nel cammino spirituale, tenendo presenti le varie dimensioni del processo di maturazione verso l’esperienza cristiana di Dio, si devono evitare possibili assolutizzazioni, che enfatizzano decisamente una dimensione e dimenticano le altre. La esclusione di queste porta a formare personalità apostoliche deficienti.

Enfatizzare soltanto la dimensione della trascendenza, di Dio sopra di noi, può portare al disprezzo della società, dei suoi valori e problemi.

Dimenticare la dimensione della trascendenza è cadere in una vita molto attiva ma senza Padre. Ciò fa sì che l’apostolo non può essere luce in una società nella quale la dimenticanza del Padre ha portato a sterili lotte fratricide e a traumatizzanti rappresentazioni di Dio stesso.

Assolutizzare la dimensione sociale, di Dio con noi, è perdere l’Assoluto di Dio e far sì che l’uomo si trasformi in un assoluto per l’uomo.

Rigettare la dimensione sociale è marginarsi dalla storia e, per tanto, essere incapace di un apostolato che offra una “Buona Novella” di liberazione integrale e non soltanto dottrine senza aggancio con la realtà.

Assolutizzare la dimensione interiore, di Dio in noi, può portare al soggettivismo, che impedisce valorizzare la realtà nella sua giusta dimensione e rigetta la comunità come luogo privilegiato del discernimento.

Dimenticare la dimensione interiore porta ad un vuoto esistenziale, ad essere più funzionario che apostolo e cadere, in moltissimi casi, nel consumismo deludente e superficiale.

C’è da notare, in fine, che al di là dell’assolutizzare o rigettare, c’è la scelta di un cammino che più corrisponde alla propria personalità. Un apostolo imparerà ad aprirsi con più facilità all’esperienza trinitaria di Dio partendo dalla sua dimensione sociale, un altro lo farà dalla sua dimensione della trascendenza o della profondità. L’importante è l’impegno dell’apostolo per arrivare, docile all’azione dello Spirito Santo, all’esperienza più piena di Dio e all’accoglienza e allo sviluppo dei doni di fede, speranza e carità nella sua vita, così che l’uomo interiore si vada rinnovando giorno per giorno. 

P. Carmelo Casile
Casavatore
, 8 Marzo 2021 – 29 Giugno 2022