SanLucaLectio divina sul Vangelo di Luca
Silvano Fausti
Capitoli 7-8


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Testo doc Lectio Luca Cap 7-8 Fausti (4)

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35. MA DI’ UNA PAROLA E SIA GUARITO IL FIGLIO MIO
(7,1-10)

Nei cc. 5-6 Luca, dando per scontato cos’è la fede, si rivolge a Israele per mostrare lo specifico della fede in Gesù: egli è il Figlio, rivelatore definitivo di Dio come Padre di misericordia. L’obbedienza alla sua parola porta la salvezza. Il cammino di Israele è un percorso obbligato per tutti: anche il pagano deve inserirsi nella promessa a lui fatta (cf. Rm 11,16-24), se vuole produrre quei frutti di misericordia donati-richiesti in 6,27-38. Questi versetti infatti rappresentano il cardine di tutto il Vangelo di Luca, scriba mansuetudinis Christi, che porta la salvezza di Israele a tutti i popoli.

Ora comincia l’itinerario per chi proviene dal paganesimo; e si inizia spiegando cos’è per Israele la fede, in modo da renderla accessibile anche a lui. La fede consiste nel credere alla potenza della Parola (vv. 1-10), che vince la morte (vv. 1-17) e si esprime come risposta di amore verso colui che perdona (vv. 36-50). Al centro sta la figura del Battista (vv. 18-35) mentre si confronta con Gesù: egli è il punto di convergenza del cammino di fede sia di Israele che del pagano, perché chiama tutti alla conversione e all’attesa di Gesù (3,6).

Il c. 7 inizia con il racconto di un centurione pagano, figura del pagano Abramo che, per la sua fede, diventò padre di tutti i credenti e depositario della promessa. Dietro l’episodio c’è la storia della missione fruttuosa tra i pagani, ai quali è passata la salvezza dei giudei (cf. At 18,6; 28,28). Non si tratta di un semplice fatto storico, che gli Atti ci descrivono con grande attenzione (cf. soprattutto i cc. 10-15). Si tratta innanzitutto di una necessità teologica: se Dio è misericordioso, necessariamente ama i nemici e fa del bene senza interesse e perdona i disgraziati. Gesù che guarisce il figlio-servo del centurione pagano, risuscita il figlio della povera vedova e perdona la peccatrice è il primo che fa quanto ha detto in 6,27-38. Egli, come Figlio dell’Altissimo, non può non rivolgersi ai pagani (nemici), ai piccoli (figlio morto di una povera vedova) e ai peccatori. Gli esclusi diventano figli privilegiati della sapienza (v. 35) di quel Dio che è misericordia. In questi racconti del c. 7, Gesù realizza l’immagine di un Dio disponibile e buono verso tutti (6,35). Egli è il volto del Padre, che rivela il mistero profondo rimasto nascosto nei secoli e svelato proprio ora nel Figlio (Rm 16,25s; cf. Col 1,26s). In lui il Dio ricco di misericordia ha visitato il suo popolo (v. 16), costituito da lontani, piccoli e peccatori.

Il cammino di Israele parte dalla fede nella parola di Gesù: “Sul tuo detto calerò le reti” (5,5) e passa attraverso il senso del peccato: “Esci via da me, poiché sono uomo peccatore, Signore!” (5,8). Analogamente anche il cammino del pagano parte dalla fede nella potenza della sua parola e passa attraverso il senso della propria insufficienza. Gesù stesso presenta il centurione come modello di fede per tutti, – noi compresi -, e ne resta addirittura “ammirato” (v. 9)! Questo militare ha il suo gemello in At 10, con il quale si aprirà ai gentili la porta della chiesa.

Mentre nel racconto della peccatrice (vv. 36-50) si esplicitano i frutti e le radici della fede – l’amore verso Gesù come risposta all’amore ricevuto – qui si descrive cos’è e come nasce la fede: è fiducia assoluta nella potenza salvifica della parola e nasce gradatamente. Parte dall’estremo bisogno (v. 2) di uno che sente parlare di Gesù (v. 3a) e che spera che lui venga e intervenga (con la mediazione di Israele: vv. 3b-5); costata che lui è disponibile e viene (v. 6a); passa attraverso il senso di insufficienza e indegnità (vv. 6b-7a); arriva infine alla sua maturità piena nell’espressione: “Di’ una parola e sia guarito il mio servo/figlio” (v. 7).

In queste tappe del centurione pagano, il lettore di Luca, proveniente dal paganesimo, riflette il proprio percorso di fede nella potenza della parola del Signore che l’ha salvato.

È importante sottolineare come il miracolo si compia in assenza di Gesù, per la fede di un pagano nella potenza della sua parola, udita solo indirettamente tramite mediatori israeliti. È la situazione dei pagani che giungono alla fede dopo Pasqua ascoltando la Parola, mediata da Israele. Se Gesù ha annunciato la salvezza ai poveri con la sua parola, ora si vede che essa è efficace e opera anche in sua assenza, per chi l’accoglie con fede, in umiltà e fiducia.

36. GIOVINETTO, A TE DICO: DESTATI!
(7,11-17)

Il centurione pagano, che crede nell’efficacia della parola del Signore anche in sua assenza, ci ha fatto vedere cos’è la fede per noi che non abbiamo visto il Signore: sapere che lui ci salva mediante la sua parola di promessa. Cristo infatti salva mediante la parola (cf. Rm 1,16; 1Cor 1,18-25; Eb 4,12s) tutti coloro che l’accolgono. Ora si mostra perché possiamo aver tale fede: sia perché lui si commuove al nostro male e ci visita con la sua presenza, sia perché lui è il “Signore” e la sua parola è efficace, capace di salvarci anche dalla morte. Egli è la misericordia che incontra la nostra miseria e realizza quanto detto da Zaccaria: la bontà misericordiosa del nostro Dio, che viene a visitarci dall’alto come un sole che sorge, per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra della morte (1,78s).

Nella sezione precedente si parlava del cammino di fede dell’israelita attraverso temi tipici per Israele: perdono, banchetto, sabato. Ora si parla del cammino di fede di ogni uomo, partendo dalla speranza comune a tutti: il desiderio impossibile di salute e di vita, che sempre viene infranto dal potere della morte. Ogni uomo, con i suoi problemi di fondo, si confronta ora con la promessa fatta ad Israele.

Gesù ha appena proclamato il Regno, promesso la beatitudine ai poveri, affamati e piangenti (6,20-21) e comandato la misericordia. Ora sazia la fame del più povero tra tutti: un morto, l’estremamente povero, digiuno di vita. Ora usa grazia e misericordia verso il più piccolo tra tutti, l’estremamente piccolo, un bimbo morto, figlio unico di madre vedova! Gesù fa per primo quanto ha espresso come esigenza del Figlio di Dio: ama i nemici (= pagani 7,1-10), si prende a cuore i piccoli (7,11-17) e accoglie i peccatori (7,36-50). Questi tre episodi incorniciano l’autorivelazione di Gesù e indicano il suo tipo di messianismo: realizza la promessa, il giudizio e la salvezza di Dio, secondo la necessità della sua misericordia.

È un racconto kerigmatico, un invito del credente al non credente, perché partecipi alla lode di Dio in colui che, senza esserne per nulla pregato, è venuto a vincere la morte. Il racconto è esclusivo di Luca, che narra due risurrezioni nel Vangelo (qui e 8,40-56) e due negli Atti (9,36-42; 20,7-12). C’è lo sfondo veterotestamentario della risurrezione operata da Elia (1Re 17,17-24) e da Eliseo (2Re 4,32-37).

La risurrezione dai morti, che per Israele è un’attesa escatologica, esce totalmente dalla speranza pagana (cf. At 17,32). Il desiderio di vincere la morte – costitutivo dell’uomo! – non può mai tradursi in speranza reale per l’uomo, perché è brutalmente spezzato dalla morte. La risurrezione è indeducibile da qualsiasi premessa, impossibile per qualsiasi pretesa e attesa umana: è deducibile solo dalla promessa di Dio, possibile solo come dono inatteso della sua potenza misericordiosa.

Più che la potenza di Gesù, il racconto evidenzia la misericordia del Salvatore. Dio previene e visita senza richiesta, preghiera o fede, chi è totalmente perduto e non può più richiedere né pregare né credere. Gesù è qui chiamato da Luca per la prima volta: “Signore”. Ciò significa che questo brano lo rivela pienamente, anche a livello di redattore-lettore: è il Signore di misericordia, autore della vita, vincitore della morte. Il figlio della vedova è descritto in termini che alludono a Gesù stesso morto e risorto: è il “figlio unigenito” (cf. 3,22; 9,35; 20,13), “alla porta della città” (cf. 20,15), si “desta” (cf. 24,6) e, al suo destarsi, si parla di “un grande profeta destato fra noi”. Questo scambio di figura, questa sovraimpressione Gesù/figlio unico morto/destato sta a indicare la sua misericordia. Essa lo porterà a venire incontro alla nostra miseria, fino a identificarsi con noi e perdere sé per salvare noi.

Il racconto vuole suscitare fede nella misericordia di Dio per i piccoli e per i piangenti, per ogni uomo, che è piccolo e piangente di fronte alla morte. Piccolo perché assolutamente indifeso; piangente perché irrimediabilmente offeso. Gesù viene a dare speranza là dove nessuno può averne. Perché l’uomo muore; e, quando vive, vive nel dolore della morte altrui e nell’attesa della propria. Gesù vince colui che dà morte alla vita e restituisce la vita alla vita: la madre ritrova il figlio morto.

37. SEI TU COLUI CHE VIENE, OPPURE ATTENDIAMO UN ALTRO?
(7,18-23)

Con la sua parola Gesù ha proclamato il Regno di misericordia (6,20-31) e con la sua azione l’ha realizzato (7,1-17); ora, su sollecitazione del Battista, può rivelarsi come “colui che viene”. Questa rivelazione è rivolta anche ai pagani, essi pure chiamati a inserirsi nella promessa e attesa di Israele. Nel brano si affrontano due problemi di storia della salvezza: l’uno riguardo al passato, l’altro riguardo al presente. Il primo è questo: se il messianismo povero e umile di Gesù risponde alla promessa di Dio, che ne è delle grandi attese di Israele? Il secondo è questo: come può Gesù essere il messia, il Salvatore, se la storia dopo di lui continua ancora né più né meno come prima? Luca unifica i due problemi, perché hanno una radice comune, quella dell’attesa dell’uomo che è diversa dalla promessa di Dio; e risponde mostrando come la storia di Gesù che “cura e fa grazia” (v. 21) ai disgraziati è la realizzazione della promessa. L’attesa di Israele e di ogni uomo va localizzata e corretta su di lui, che lascia continuare la storia come storia concreta di salvezza, luogo costante di male e di bene, di peccato e di grazia, di miseria e di misericordia.

Il nocciolo della questione, sempre attuale, è il tipo di messianismo di Gesù, che contraddice il delirio di potenza e di gloria dell’uomo; il suo messianismo, povero e umile, come fece problema a Israele, fa problema anche all’uomo d’oggi. L’uomo infatti da sempre è malato di “millenarismo”: attende e sogna una storia diversa da quella reale, dove cessi la contraddizione e la croce sia totalmente assorbita nella risurrezione, dove ci siano solo i frutti senza più i costi e non esista più il male. Ma questo sarà solo alla fine; prima sarà sempre il tempo della semina e sono ineliminabili sia la contraddizione sia la croce, fino alla fine. I cortocircuiti illuminano all’istante, e fanno nascere vari “illuminismi”, tanto ottimistici quanto patetici, che in realtà bruciano i tenui fili che collegano e illuminano la realtà! Siamo chiamati alla sequela di Gesù povero e umile, che non ha liquidato la storia, ma l’ha vissuta dalla parte di colui che, non facendo il male, se ne fa carico e lo arresta nella propria croce, unica via alla risurrezione. Su questo argomento l’errore è costante. e riguarda ebrei e cristiani, Battista e discepoli, ieri e oggi, oggi e domani. Lo stesso errore lo fanno anche gli atei, ma a cuore più leggero. Il tragico è che passa inavvertito e muove tanto zelo sbagliato, in cerca di scorciatoie per giungere al Regno, che non fanno che ritardarlo!

Israele, come noi, attendeva un messia che prendesse in mano il potere ed eliminasse ogni male. Ma che lui elimini il male… lasciandolo, anzi portandolo su di sé, prendendosene cura e facendone il luogo della salvezza questo risulta problematico a tutti. La speranza è che con il messia si risolvano le nostre angustie e cessi questa storia di pianto e inizi la danza di vittoria. Subito! Il Battista attendeva un messia “più forte”, giudice tremendo, che spazzasse l’aia del mondo per dare inizio magico a un mondo nuovo (3,16s). Noi stessi attendiamo un mondo redento, in cui il travaglio della storia si plachi in un’escatologia beata.

Gesù invece è sì messia, ma viene in estrema debolezza e senza potere, vittima di ogni male. E proprio così, portandolo, lo vince! È salvatore; ma vuole bene a cattivi e buoni e la sua misericordia lo inserisce nella nostra miseria, senza liquidare il malvagio. Rispetta la libertà e lascia che la nostra azione continui nella sua realtà anche brutale, facendo però di ogni miseria oggetto di misericordia. Il suo amore per l’uomo che è cattivo, lo rende debole e gli fa portare il carico della sua cattiveria. Non arresta la storia di perdizione, cristallizzandola in un giudizio che la blocchi; invece la continua e la volge in storia di salvezza. È questa nostra storia concreta e non un’altra ipotetica migliore, che contiene la salvezza! Questa salvezza è la misericordia di uno che si fa carico del negativo e ne paga i costi, perché altri ne gustino i frutti. Siamo lontani da ogni fanatico escatologismo e da ogni settarismo di puri – i buoni salvati in un mondo perverso! – come anche da ogni forma di disimpegno. Il messianismo di Gesù è il suo attuale farsi carico del male del mondo, in un impegno che lo contamina di ogni impurità. Il suo messianismo continua nella storia della chiesa, che si apre al mondo. Il male stesso è il luogo di realizzazione della salvezza, mediante la misericordia.

Questo slittamento in tono minore della figura del messia è motivo costante di scandalo. L’aquila dell’esodo (cf. Es 19,4; Dt 32,11) si trasforma in “gallina” (13,34); il re diventa servo (22,27); il salvatore viene condannato (23,35-37); il giusto si fa solidale con la nostra ingiustizia; Dio patisce la nostra morte (23,40s)! È un messianismo che esula dalle nostre attese, perché ci presenta un messia crocifisso, povero e umile, che si prende cura del male e fa grazia. La risposta al Battista corregge l’attesa di Israele e di ogni uomo. A partire da Gesù e dal suo stile si comprende in modo nuovo e profondo l’AT, Dio e la sua promessa. Questa nuova comprensione fa individuare in Gesù l’atteso. Diversamente si continua sempre ad attendere un messia “diverso” o una storia “diversa”. Mentre in realtà diversa deve essere la nostra attesa!

È importante determinare l’attesa. L’uomo infatti diventa ciò che attende. È un animale “eccentrico”, con il proprio pondus in ciò che attende. Ora il cristiano non attende più nulla di diverso e guarda con occhio smagato e tenero la realtà: sa che in essa, proprio nella sua miseria, si realizza la verità di Dio che è misericordia. Partecipa della compassione di Dio per il male di un mondo senza Dio (Bonhoeffer). Tutta l’attività di Gesù è interpretata da lui stesso non tanto come azione di potenza, quanto come passione di misericordia. In questa ci visita un Dio che si fa vicino al lontano, giustifica l’empio e vivifica il morto. La salvezza è accogliere questa buona notizia, di cui i fatti sono la prova. In questo brano Luca elabora una interessante teologia della storia della salvezza, dando la chiave di lettura del Cristo salvatore attraverso lo stile, la parola e l’azione di Gesù. Rispondendo al Battista, risponde al problema sempre attuale del messianismo cristiano, sul quale si devono misurare tutte le teologie, della liberazione o meno. La sua risposta è l’unica, valida fino alla fine del mondo, quando il cammino ora aperto sarà compiuto.

38. MA FU GIUSTIFICATA LA SAPIENZA DA TUTTI I SUOI FIGLI
(7,24-35)

Dopo aver rivelato se stesso come “colui che viene”, Gesù spiega alla folla il ruolo del precursore nel disegno di Dio. Egli è più che un profeta: è il profeta ultimo annunciato da Ml 3,1ss. Egli conclude il tempo della promessa e sta sulla soglia del compimento. Accettare o rifiutare il suo messaggio di conversione, per tutti gli uomini di tutti i tempi, significa inserirsi o meno nell’atto ultimo della storia di fede nella promessa che inizia con Abramo e si conclude con il Battista. Con lui il tempo dell’attesa finisce e trova il suo compimento nella storia di Gesù.

Nei vv. 24-28 con tre domande, due negative e una positiva, Gesù definisce il Battista come culmine e personificazione della speranza affidata ai giudei. Luca riserva grande importanza al Battista come figura della storia di Israele. Attraverso di lui anche il lettore di origine pagana può conoscerla e decidersi per essere tra coloro che accettano il disegno di salvezza di Dio (vv. 29-30).

Nei vv. 31-35 Gesù si lamenta della propria generazione: non accetta il gioco di Dio. Gli stessi che rifiutano l’appello alla conversione del Battista perché si ritengono giusti, non accettano neanche l’invito al banchetto nuziale della sapienza imbandito da Gesù, perché si ritengono autosufficienti. Questi sono i farisei e i dottori della legge. Pubblicani e peccatori invece riconoscono il bisogno del perdono. Accettano quindi l’invito a convertirsi e diventano figli della sapienza e amici dello sposo: hanno fame e accettano l’invito al banchetto!

Gesù si rivolge a chi è “uscito nel deserto”. Non si rivolge a chi è rimasto fermo a casa sua e non ha fatto nessuna piega, se non quella di arricciare il naso schifato. Chi accoglie il Battista – e sarà poi in grado di accogliere il Cristo – è colui che è uscito nel deserto, perché ha riconosciuto il proprio peccato, ha accettato l’invito alla conversione e, spogliatosi di ogni prestigio o pretesa, si trova nudo, insieme con gli altri, per farsi battezzare da lui (cf. 3,3). Costoro non hanno certo visto nel Battista “una canna scossa dal vento” (cf. 1Re 14,15), segno di debolezza e di indecisione – la fragilità e la perplessità oscillante dell’uomo, giunco pencolante nell’aria secondo il vento. Hanno invece visto in lui l’uomo forte e deciso, inflessibile e rigoroso, che è mosso solo da un vento: lo Spirito di Elia che gli fa attendere colui che viene, il più forte, che riempie il vuoto dell’attesa millenaria del popolo. Giovanni è nel deserto proprio per avviare l’esodo definitivo.

39. DUE DEBITORI AVEVA UN CREDITORE
(7,36-50)

Il racconto ha molti tratti comuni con l’unzione di Betania (Mc 14,3-9; Mt 26,6-13; Gv 12,1-8), che Luca omette. A prima vista presenta un’apparente contraddizione: l’amore sembra prima causato dal perdono (vv. 41-43) e poi causa di esso (v. 47). In realtà qui Luca esprime in modo preciso che cos’è la fede cristiana (cf. v. 50): è l’amore che questa donna ha per Gesù, da capire alla luce del primo comandamento (cf. 10,27; Dt 6,5). Tale amore è effetto e causa insieme del perdono: in quanto perdonata, ama come risposta al perdono; e, in quanto ama, è aperta ad accogliere il perdono che è la forma più grande dell’amore. Amore e perdono si alimentano a vicenda, in una circolarità continua. I gesti di questa donna sono l’espressione piena della fede nel perdono di Gesù, la risposta delicata ed esaltante dell’amore che accetta di essere amato. Questa donna accoglie la cháris di Dio: si lascia far grazia, ed esprime il suo grazie, l’amen della fede. Il fatto si svolge nella casa del giusto, in cui fa irruzione una peccatrice. Una dei “figli della sapienza” rende giustizia a Dio, riconoscendo il proprio peccato e la sua misericordia. Essa entra di forza nella casa di uno di quelli che, abitando nella presunzione della propria giustizia, rendono vano il piano di Dio. Mentre lei accetta il lutto e il pianto del Battista ed entra nella gioia del flauto e della danza di Gesù, lo sposo, gli altri stanno a guardare con disappunto. Nella casa della legge, dove era atteso e invitato, Gesù imbandisce il banchetto nuziale per il peccatore inopportuno e indesiderato.

Da una parte la donna rannicchiata, che riceve l’abbondanza dell’amore di Gesù, se ne impregna e ne trabocca riversandolo su di lui. Dall’altra il fariseo autosufficiente e controllato, che conosce solo il merito, ignora il debito e l’amore che lo condona. Non può partecipare alla danza dell’amore, se prima non partecipa al pianto del suo peccato. Il racconto – come tutto il c. 15 è per persuaderlo di peccato “di prostituzione”, perché vuol meritare l’amore di Dio. L’amore infatti è gratuito – lo capisce bene il peccatore nel perdono! – e “meritarlo” si chiama “meretricio”. Questo rapporto di prostituzione, che il giusto instaura con Dio, è l’unico peccato diretto contro colui che è amore. Per questo peccato non ci può essere perdono. Da esso ci si salva solo con la conversione. Infatti non può essere perdonato, fino a quando non è riconosciuto come peccato. La conversione più profonda è il semplice riconoscerci peccatori e bisognosi di perdono.

Gesù qui conferma di essere quel Dio che ha rivelato: un Dio che ama e fa grazia a tutti, ai pagani-nemici (7,1-10), ai piccoli (7,11-17) e ai peccatori (7,36-50). Si conclude l’abbozzo del cammino di fede per ogni uomo che non ha visto Gesù. Chi crede alla potenza della sua parola (7,1-10), vince la morte (7,11-17) perché Dio ha visitato il suo popolo come aveva promesso a Israele. Questa promessa è aperta a tutti coloro che l’accolgono nell’invito alla conversione del Battista e nel dono di grazia che Gesù compie (7,18-35). Anzi, il banchetto nuziale nella casa della legge non è offerto ai giusti, ma solo a quanti hanno bisogno di perdono, cioè a tutti, perché tutti siamo trasgressori della legge. Questa donna è figura del vero popolo che si riconosce peccatore e bisognoso di perdono. Essa entra indesiderata nella casa del giusto, mentre questi resta estraneo a ciò che si svolge in casa propria: al banchetto offerto dalla legge si entra solo mediante l’amore del perdono. È interessante notare che è la legge che invita Gesù, ma è il peccatore che lo accoglie e lo ama, perché si sente accolto e perdonato.

Questa donna è la prima che realizza ciò che si deve fare per ereditare la vita eterna (cf. 10,25-28): “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente” (10,27; cf. Dt 6,5). Non è più peccatrice ed adultera, trasgreditrice della legge: entra e sta di casa in questa legge dell’amore che è Dio stesso, lo sposo, perché ne ha ricevuto la grazia e il perdono.

Vedendo Gesù, sa chi è Dio e, invece di fuggire lontano da lui come i peccatori o nascondersi da lui sotto il manto della legge come i giusti, corre a lui, attirata dal suo amore. Questa donna è figura della sposa adultera e peccatrice, che ora è riscattata dall’amore dello sposo e gioisce “perché il mio diletto è per me e lo per lui” (Ct 2,16; 6,3). Nella distinzione donna/fariseo si opera il giudizio che Gesù è venuto a portare: la nostra condanna viene non tanto dalle nostre ingiustizie, quanto dalla nostra giustizia, non tanto dal male fatto, quanto dal bene rifiutato; Gesù apprezza non la “giustizia” che porta alla “prostituzione”, ma l’amore accolto che si tramuta nella tenerezza della sposa. Dio vuole essere amato così dall’uomo!

Il racconto non serve per assolvere la peccatrice e condannare il giusto: smaschera al giusto il proprio peccato di prostituzione.

L’amore è sempre e solo dono. Questo si rivela pienamente nel per-dono. Il fariseo è chiamato a riconoscersi nella peccatrice come nel c. 15 il fratello maggiore nel minore per partecipare alla festa d’amore di Dio, padre e sposo. La prostituta, ritenuta tale dal fariseo, gli fa da specchio nel suo peccato.

Nella casa del fariseo – come facilmente la chiesa può diventare – la venuta a tavola della prostituta mostra al giusto il suo peccato profondo, quello di non saper amare. Identificandosi con lei, può sperimentare il perdono e come lei rispondere all’amore ricevuto. Donna-casa-mensa-lacrime-capelli-bacio-profumo: sono tutti termini che esprimono accoglienza e vita. Questa vita, accolta dal peccatore nel perdono, è offerta a tutti. Escluso resta solo il giusto, che non ama perché non si sente amato e non si sente amato perché, per paura, si chiude nella sua sufficienza a basso profilo. Ma anche il giusto vi può partecipare nella misura in cui si riconosce prostituta. Questa prostituta è la pietra di paragone del vangelo: realizza pienamente il dono che Dio ha promesso proprio a un popolo adultero e peccatore.

La scena, delicatissima, impegna tutti i sensi: vista, udito, tatto, odorato e un sapore di lacrime e di carne baciata. Esprime un amore tenero e appassionato per il Signore Gesù, il Dio che si è fatto vicino per esprimerci il suo amore e farsi amare da noi. Si è fatto nostro fratello, per essere introdotto nella stanza della nostra madre (cf. Ct 8,1s). Quest’amore per Gesù è il cristianesimo, la fede che diventa vita. Quest’amore è proprio del peccatore perdonato. Il peccato non distrugge la salvezza. Al contrario, nel perdono, è causa di un amore più grande, di una salvezza maggiore. Chi si crede senza peccato, non ha bisogno della misericordia: è quindi fuori dalla grazia di Dio.

Capirà Simone il suo peccato, ben più grande di quello della prostituta? Alla fine, come il fariseo Paolo, amerà di più? Il punto fondamentale non è chi è “più questo”, chi ha debiti minori con Dio. È invece chi “amerà di più”. Paradossalmente proprio chi ha debiti maggiori. Così il nostro peccato non ci esclude dal Regno, ma è il motivo per cui amiamo di più. Proprio il nostro male, non il nostro bene, ci fa partecipare più profondamente del mistero di Dio che è amore. Veramente divina questa prospettiva, che capovolge il male stesso in bene maggiore (cf. Rm 5,20).

40. E I DODICI CON LUI E ALCUNE DONNE
(8,1-3)

Si tratta di un sommario sull’attività missionaria di Gesù, specchio di quella dei discepoli. Come in tutti i sommari, l’opera del redattore ha mano assai libera. Più che fatti specifici, raccoglie elementi tipici che servono da cornice interpretativa e da tessuto connettivo tra brani diversi. Nei sommari appare più palese l’intenzione teologica che ispira l’autore e la lettura di fede proposta al lettore. La cronaca lascia trasparire più chiaramente la storia della salvezza, l’episodio fa vedere la sua rilevanza per la fede.

In questo breve sommario emergono tre temi, che serviranno a introdurre una riflessione critica sulla fede come accoglienza della Parola. Primo: la vita itinerante di Gesù, modello di quella della chiesa che ne continua l’annuncio. Secondo: i Dodici stanno “con lui”, sono qualificati dallo stare in compagnia di Gesù, associati al suo stesso tipo di vita e di attività. Questa loro familiarità con lui, frutto dell’ascolto (cf. v. 21), è la sorgente del loro annuncio, inteso ad aggregare tutti gli altri alla famiglia degli ascoltatori della Parola. Attraverso la loro testimonianza, Gesù giunge fino a noi e noi giungiamo a lui. Terzo: si sottolinea che le donne sono abilitate a seguirlo insieme ai Dodici. Con il loro servizio donano a questa piccola comunità peregrinante la possibilità di vivere, svolgendo la prima funzione necessaria, tipicamente materna.

Viene così presentata la vera famiglia di Gesù, in parallelo ai vv. 19-21, e si mostra come l’ascolto che la Parola richiede – tema centrale del c. 8 – consista nello stare con Gesù e servire.

41. FECE FRUTTO CENTUPLO
(8,4-8)

Nel c.6 è rivelata la parola definitiva: Dio è misericordia. Nel c. 7 è accolta e fa frutti di salvezza mediante la fede. Il termine “fede” fa da cornice al c. 7 (7,9.50), rivolto ai pagani, che ignorano cosa sia. La fede è appunto ascolto di tale parola. Questa è un seme che germina, se accolto in un terreno sgombro. La parola che qui diventa seme, nel c. 9 fruttifica in pane di vita.

In questo c. 8 c’è una pausa riflessiva di verifica sulla qualità della fede, ossia dell’ascolto della Parola. Data per sicura la bontà del seme, com’è il terreno (cuore) che lo accoglie? La parola “ascoltare-obbedire” è la chiave di tutto il capitolo: Gesù esige ascolto (vv. 8.10.12.13.14.15.18.21), come Dio che dice: “Ascolta, Israele” (Dt 6,4). A lui obbediscono il cielo e l’abisso (8,25), il male, la malattia, la morte (vv. 26-56). La potenza della sua parola introduce lentamente alla comprensione del suo mistero. La verità profonda di questa parola/seme sarà identificata solo nel pane di cui ci si nutre per camminare fino a Gerusalemme (cf. 9,20ss).

Per ora ci si sofferma sull’ascolto: il discepolo saprà ascoltare e obbedire a colui al quale tutto obbedisce? che effetto avrà la sua parola potente su di lui? La parabola dell’ascolto (vv. 4-8) va letta insieme alla spiegazione della sua forma (vv. 9-10), del suo contenuto (vv. 11-15) e del come leggerla e trasmetterla (vv. 16-18). Il tutto è incorniciato da due scene che ci presentano i veri parenti di Gesù: sono quelli che stanno “con lui”, liberati dal male e capaci di servire (vv. 1-3), perché ascoltano e fanno la sua parola (v. 21). La vera parentela con Gesù è fondata sulla Parola, perché l’uomo diventa la parola che ascolta e perché Gesù è il Verbo del Padre. In questa parabola il lettore è invitato a verificare la qualità del proprio ascolto, per vedere se è vero discepolo e appartiene alla sua famiglia. La parabola dichiara da una parte l’efficacia della parola di Dio, feconda oltre ogni speranza; d’altra parte sottolinea le condizioni per accoglierla con frutto. Non è che la sua efficacia derivi dalle condizioni che pone l’uomo: essa di per sé è sempre efficace; ma lascia libero l’uomo. Egli può non rispondere ed essere causa dell’inefficacia: se non può renderla fruttuosa – lo è già di per sé! – può però renderla infruttuosa, perché non l’accoglie. Il terreno non rende produttivo il seme, può però impedirne la produttività. Se quindi la Parola non è feconda, siccome essa è come il seme che di sua natura fruttifica, vuol dire che ci sono degli impedimenti e resistenze da rimuovere.

Il v. 18 “guardate dunque come ascoltate”, già precluso in 8b: “Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti”, dichiara bene il senso di tutto il discorso unitario di 8,4-21: si dice “come” ascoltare. È un discorso che parla della Parola stessa, il cui frutto è determinato dall’ascolto. Questo sta al fare come la radice ai frutti. C’è infatti una specie di circolarità tra ascoltare e fare: il primo è causa del secondo, e il secondo è inveramento del primo. È fuori questione la buona qualità del seme, certezza acquisita al c.7; il frutto dipenderà dal terreno che accoglie il seme.

42. A VOI È STATO DATO DI CONOSCERE I MISTERI DEL REGNO DI DIO
(8,9-10)

Dopo aver raccontato la parabola, Gesù spiega perché parla così. È un modo particolare di proporre la verità. Se è importante che sia detta, è altrettanto importante che sia comprensibile. Questo vale particolarmente quando si tratta di verità “rivelate”, che non possono essere scoperte da chi le ricerca senza che nessuno gliele dica. La Parola, che riunisce e forma i discepoli nell’ascolto, ha una duplice dimensione. Una è l’annuncio missionario che porta alla fede e rende discepolo; l’altra è l’istruzione successiva che nutre e fa crescere fino a portare frutti abbondanti e maturi. La stessa Parola che nell’annuncio fonda la chiesa, nell’istruzione successiva la mantiene viva e feconda. Oltre quindi la Parola all’interno, c’è sempre anche quella all’esterno, missionaria. Questa nasce dalla chiesa e fa nascere ovunque la chiesa, annunciando a tutti la salvezza. Mentre l’istruzione interna porta alla “gnosi” dei misteri del regno di Dio (v. 10), l’annuncio esterno ne suscita la curiosità. Questo è fatto in parabole, perché le parabole, dicendo in modo velato la verità, stuzzicano l’appetito di una “gnosi” più profonda.

La parabola infatti presenta un racconto breve di esperienze note, caricate emotivamente di allusioni misteriose ad esperienze ignote. Parlando d’altro, parla dell’Altro, stimolando il desiderio di conoscerlo. Il linguaggio parabolico di per sé è tipico della comunicazione di esperienze religiose: dice non dicendo e fa vedere velando ciò che per sé non può essere direttamente ascoltato e visto. Da qui nasce la conoscenza contemplativa, che è direttamente ineffabile, perché oggetto diretto di esperienza. Può appunto essere detta solo indirettamente mediante parabole. Queste sono quindi un primo accostamento velato e confuso a quello che è l’ascolto e la visione distinta dei misteri. L’oscurità voluta e necessaria della parabola pone l’interrogativo e desta l’interesse per una conoscenza più profonda di tipo esperienziale.

43. IL SEME È LA PAROLA DI DIO
(8,11-15)

Alla spiegazione del linguaggio in parabole, segue la spiegazione della parabola stessa. È riservata a coloro ai quali è “dato conoscere i misteri del regno di Dio” (v. 10). Questi si identificano con Gesù, la Parola di morte e risurrezione, il seme che conosce insieme fallimento e successo. La legge della croce come via alla gloria vale tanto per Gesù che per il discepolo che lo segue (cf. 9,23ss). Già nella prima persecuzione che subisce, la chiesa capisce la propria storia come una e identica con quella del suo Signore, al quale è associata (cf. At 4,27ss). Tale intelligenza dei misteri del Regno è la fonte del coraggio per continuare a credere e ad annunciare al di là di ogni difficoltà. Questi misteri vengono dichiarati velatamente, attraverso il destino che la Parola incontra, che è lo stesso del chicco di grano che se non muore non porta frutto (Gv 12,24).

Questa interpretazione della parabola racconta “la storia teologica” dell’annuncio missionario e ha un duplice intento. Da un parte la comunità capisce i suoi insuccessi alla luce della morte/risurrezione, senza scoraggiarsi. D’altra parte, siccome la Parola è necessariamente efficace, la chiesa può verificare dai frutti la qualità del proprio ascolto. Infatti, se la Parola è il seme, l’uomo che ascolta è il terreno che accoglie. Allora il frutto, scontata la bontà del seme, sarà proporzionale alla docilità dell’ascolto.

44. GUARDATE DUNQUE COME ASCOLTATE
(8,16-18)

Nei vv. 9-10 si spiega come le parabole siano un primo approccio di annuncio missionario; pongono l’interrogativo e sono uno stimolo per domandare ulteriormente e così conoscere i misteri del Regno. Nei vv. 11-15 si descrivono le difficoltà che la Parola incontra e che le impediscono di fruttificare. Ora si dice come l’asco1to della Parola sia una luce che accende il discepolo, perché faccia luce a chi è ancora nelle tenebre: lui stesso ha il compito di aiutare “gli altri” a compiere il passo di entrare nella cerchia del “voi” ecclesiale di cui Gesù parla al v. 10. È la coscienza missionaria della chiesa di Luca. Prima la Parola era un seme, forza vitale spontanea che richiama la necessità del buon terreno. Ora essa è “luce”, naturale necessità di illuminare gli altri. Chi ha realmente accolto la Parola, è acceso da essa e la trasmette agli altri.

Queste parole sono rivolte ai discepoli perché, dalla loro effettiva testimonianza, possano verificare se hanno davvero accolto la Parola. La coscienza missionaria in Luca affiora di continuo, con una stretta connessione tra identità del credente e rilevanza della sua testimonianza: nella misura in cui uno accoglie la Parola ne è illuminato e fa luce agli altri. La missionarietà della chiesa è un fatto naturale come per la luce illuminare. Se non illumina, non è luce. In quanto luce è in grado di portare gli altri a entrare nei misteri. Cristo Gesù, luce del mondo (Gv 8,12), ha acceso il suo fuoco nei discepoli: divamperà fino agli estremi confini della terra.

45. MIA MADRE E MIEI FRATELLI
(8,19-21)

Si conclude il discorso sull’ascolto della parola di misericordia, mostrandone il frutto: ci rende madre e fratelli di Gesù, generatori e consanguinei di colui che è la Parola stessa del Padre misericordioso. Entriamo nel numero dei discepoli (vv. 1-3), che conoscono i misteri (v. 10), siamo terreno fertile (v. 15). L’ascolto ci fa diventare madre e fratelli di Gesù: madre in quanto, accogliendo la Parola come Maria, lo Spirito ce la fa concepire; fratelli in quanto, facendola, siamo trasformati in lui, ascoltatore e figlio del Padre. L’ascolto operativo ci fa entrare in seno alla Trinità e partecipare con Gesù al mistero del suo rapporto con il Padre (cf. 10,21s). L’appartenenza alla famiglia di Gesù non si fonda su privilegi di sangue riservati a pochi: è aperta a tutti, perché fondata sull’accoglienza alla Parola. In Mc 3,20s e Gv 7,5 la famiglia terrena di Gesù è portata come modello della resistenza della carne allo Spirito. In Luca invece come modello di passaggio dalla carne allo Spirito, per diventare quel buon terreno che accoglie la Parola. Maria infatti è prototipo del vero discepolo e della chiesa. Essa è beata perché crede (1,45) e la sua vera maternità consiste nell’essere “ascoltatrice e fattrice” della Parola (11,27). Essa rappresenta il passaggio pasquale che Luca propone al lettore già battezzato: già appartiene a Cristo – è uno dei suoi per sempre! – e, come Maria, desidera avvicinarsi a lui per “vederlo”. L’importante non è essere tra coloro che mangiano e bevono al suo cospetto (13,26), bensì passare come lei da una parentela fisica a una fondata sull’ascolto e la pratica della Parola. “Anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così”, bensì secondo lo Spirito (2Cor 5,16).

Per tre volte, una volta per versetto, si nominano “madre e fratelli”, indicati come “i suoi” dal cronista (v. 19), “i tuoi” dagli interlocutori anonimi (v. 20), “i miei” da Gesù (v. 21). Chiaramente il problema è di questa maternità-fraternità, fondata sull’ascolto fecondo della Parola.

Matteo si rivolge a una comunità di origine giudaica attenta all’ascolto ma poco alla pratica: per questo insiste di più sulla pratica. Luca invece insiste su ambedue; accentua però l’ascolto, perché ha davanti una comunità alla quale l’ascolto è meno familiare, per la sua origine pagana: è in esso che si capisce e concepisce chi parla nella sua Parola.

46. CHI DUNQUE È COSTUI?
(8, 22-25)

Viene ripresa la domanda già fatta con malignità in 5,21 e con sorpresa in 7,49: “Chi è dunque costui?”. Prima di dare la risposta diretta (9,20), se ne dà una indiretta attraverso ciò che Gesù fa: egli domina sul cielo e sul mare (vv. 22-25), sul male (vv. 26-39), sulla malattia e sulla morte (vv. 40-56), e poi invia i Dodici a convocare il popolo nel deserto (9,1-6), dove lo nutrirà con la vera manna, quella che non perisce (9,10-17). Luca prepara così la cornice adatta per riconoscere nel rivelatore e operatore di misericordia il volto stesso del Dio della creazione e dell’esodo.

Prima di riprendere questa domanda, che è fondamentale nel Vangelo, Luca ha richiesto una verifica attenta sull’ascolto. I “misteri del Regno” (v. 10) sono costituiti da ciò che Gesù, Messia e Signore, compie a favore dell’uomo: le sue parole e i suoi atti di misericordia, che rivelano l’amore del Padre. Chi obbedisce a lui (8,1-21), che è l’obbediente e perciò figlio dell’Altissimo, entra nel suo mistero e trova risposta alla domanda: “Chi è dunque costui?”. Egli, l’ascoltatore perfetto, se ascoltato, risponde immettendoci nel mistero della sua famiglia, come lui è presso il Padre per la sua obbedienza (cf. 2,49). Il primo abbozzo di risposta è in 7,18-35, dove egli si mostra come l’atteso dell’AT. Ora Luca introduce a un livello di conoscenza più profondo: se a lui prestano ascolto cielo e mare, male, malattia e morte, se lui raduna il popolo nel deserto e lo nutre, la domanda circa la sua identità trova risposta sorprendente. Egli è il Figlio, l’ascoltatore perfetto che chiede ascolto e di cui il Padre dirà di ascoltarlo (9,35). In lui si rende visibile colui che nel primo esodo era solo la voce: la Parola si è fatta carne e la voce ha trovato volto!

La sezione che qui si apre (8,22-9,17) è un’anticipazione escatologica. Lo scenario di questo racconto è il mare (vv. 22.26.37.40), carico di allusioni dalla Genesi all’Esodo, dalla vittoria sul male del non essere a quella sul male dell’essere fallito. Al centro c’è la persona di Gesù, con la sua parola e la sua mano. Egli si rivela attraverso il tenue velo di queste azioni misteriose, che aprono alla risposta chi ne fa esperienza. Chi è costui alla cui parola obbediscono cielo e abisso e la superficie del mare che li congiunge, se non il creatore stesso di cui si parla nella Genesi (vv. 22-25)? Chi è costui, che con la sua parola precipita in basso e sommerge colui che prima stava in alto e opprimeva, se non il liberatore dell’Esodo (vv. 26-39)? Chi è costui, al cui tocco sono vinte la malattia e la morte, se non la Parola creatrice e liberatrice, che si è fatta carne per essere toccata da noi e farci creature nuove, libere dal male e dalla morte (vv. 40-56)? Chi è costui, che raduna nel deserto e nutre per il cammino che porta alla terra promessa (9,1-17)?

Il Gesù che, dopo aver rivelato la parola di misericordia del Padre, chiede ascolto, è in realtà già ascoltato dal cosmo intero: a lui è sottoposta ogni cosa.

I misteri del Regno del v. 10, nei quali Luca ci introduce, altro non sono che una conoscenza più profonda di lui, in modo che giungiamo alla fede del centurione e della donna del c. 7. Anche noi che non l’abbiamo visto, possiamo sperimentare la potenza della sua parola in sua assenza (7,9) e amarlo con tutto il cuore (7,38ss). La fede che salva è proprio quanto il centurione “dice” di Gesù e quanto la donna “fa” per lui. Lo afferma Gesù stesso in 7,9.50. Qui invece rimprovera i discepoli di non avere tale fede (v. 25).

I lettori di Luca sono invitati con i discepoli a fidarsi della Parola, anche se lui dorme o è assente e ad amarlo con tutto il cuore. Si può infatti amarlo anche senza averlo visto (1Pt 1,8), come si può sperimentare l’efficacia della sua parola anche solo avendone sentito parlare (7,3). Luca, vero iconografo, delinea in Gesù il volto dell’ascoltatore perfetto, in modo che noi possiamo ascoltarlo a nostra volta e vederne il volto riflesso sul nostro.

Il racconto forma un’unità speculare con il seguente, delimitato da due salite in barca (vv. 22.37). Gesù che dorme e si risveglia – passa dalla morte alla vita – porta ordine nel cielo e nell’abisso e vince il disordine fino nelle parti più lontane, sull’altra sponda del lago, in zona pagana. Ma prima vince il male dei discepoli e placa l’angoscia e il senso di perdizione che riempie la barca, figura della chiesa. Il suo giungere all’altra riva opera la salvezza tra i pagani e suscita il desideri( di stare “con lui”, trasformato subito in missione di testimonianza (vv. 38s) .

Il sonno di Gesù in mezzo al mare e lo smarrimento dei suoi è transitorio, come la sua assenza e l’angoscia dei genitori quando si fermò per la prima pasqua a Gerusalemme (2,48), come la sua dimora negli inferi e lo stordimento dei discepoli nei tre giorni dell’ultima pasqua. Il suo risveglio è la sua vittoria. Da qui la necessità del suo sonno, incomprensibile come il suo resistere a Gerusalemme, misterioso come il suo restare in balia del male e della morte. In realtà è la sua visita nascosta e vittoriosa negli abissi (1Pt 3,19). I discepoli ne vedono il risultato solo al risveglio, quando riemerge dalla profondità del sonno e riporta sulla superficie del lago e della terra la vittoria già ottenuta con la sua immersione negli inferi.

La cornice del racconto è cosmica: cielo e abisso. Al centro i discepoli, sospesi nel vuoto. Sopra c’è il vento, che dall’alto li spinge verso il basso; sotto c’è il profondo, che apre la bocca per ingoiare la barca. E Gesù dorme, per il nostro peccato. L’alto è percepito come cattivo e demoniaco, come vento che sospinge verso il nemico del basso, la morte. Ma Gesù si risveglia e salva i discepoli, perché il cosmo gli obbedisce: uccide il potere di morte, dopo essersi abbandonato lui stesso nelle sue mani.

47. E LO SCONGIURAVANO CHE NON IMPONESSE LORO
DI ALLONTANARSI VERSO L’ABISSO (8,26-39)

Nonostante gli impedimenti della potenza del male e della loro mancanza di fede, i discepoli approdano all’altra sponda, tra i pagani. Questo brano è strettamente legato al precedente. Dal punto di vista strutturale formano un’unità letteraria. “Delimitati da due salite sulla barca (vv. 22 e 37), essi contengono una serie di elementi simbolici, di cui cercheremo di riassumere il messaggio. Da un lato Gesù dorme, assopito nella barca: evocazione della sua morte e della sua sepoltura. Dall’altro si assiste a diverse situazioni di disordine: i porci, animali impuri, si trovano in zona elevata; Gesù, il Galieo, si trova a Gerasa sulla sponda opposta del lago, in terra pagana; un cittadino sta fuori dalla città e vive nei sepolcri e nei deserti; è posseduto, alienato, dotato di una forza cieca.

La risposta a tutte queste anomalie viene da Gesù, che appare come mediatore. È lui che vince l’opposizione. Risvegliandosi dal sonno – passando dalla morte alla vita – egli salva (v. 36). Grazie a lui, l’ordine succede al disordine, quando comanda ai demoni di entrare nei porci, che subito si precipitano nel lago (luogo inferiore). Una volta che questo ritorno all’ordine viene avviato da Gesù, l’uomo che era stato posseduto dai demoni, liberato, pacificato, può lasciare i sepolcri e tornare in città, come messaggero di Dio.

In breve, secondo questa simbolica concreta, Gesù, dopo essere passato egli stesso, figuratamente, dalla morte alla vita, conduce l’uomo perduto dalla morte (i sepolcri) alla vita (la casa). Il ciclo, cioè il ritorno all’ordine, si chiude col ritorno di Gesù in Galilea. Osserviamo ancora, a proposito del simbolismo dell’acqua, che il lago inghiotte definitivamente i demoni mentre per Gesù non è che un luogo di passaggio che egli domina. La sua morte – il suo sonno in mezzo al lago, nel luogo inferiore, dove dimorano le forze del male – è provvisoria” (J. Radermakers e Ph. Bossuyt).

Nel brano precedente abbiamo visto che, nel suo sonno, “egli è divenuto partecipe della nostra morte”: ora vediamo che egli ha fatto questo “per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2,14). Ora il vincitore dell’abisso, risvegliato dal sonno, si confronta con una legione di demoni. Essi lo proclamano “Figlio dell’Altissimo” (cf. At 16,16ss). Per questo lo ascoltano, si prostrano a lui e gli domandano umilmente di restare in quella regione e di non venire già precipitati nell’abisso.

La venuta di Gesù, l’ascoltatore perfetto della Parola, ha rotto la disobbedienza di Adamo e ha vinto il nemico che l’ha usata come arma per uccidere l’uomo. Questo male però resiste ancora nelle zone infedeli e pagane, nelle zone di incredulità dentro – vedi brano precedente – e fuori di noi. Per questo i discepoli hanno difficoltà nella loro missione.

Il viaggio apostolico della chiesa ha come scopo quello di aprire a tutti “gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio” (At 26,18). In questo viaggio, che è quello della parola di Dio, essa incontra difficoltà interne (cf. 8,12ss; At 5,3) ed esterne. La chiesa di Luca è cosciente di vivere nel periodo intermedio del già e del non-ancora: satana è già vinto da Gesù ed è ancora da vincere da parte nostra. La sua lotta diventa anche nostra, fino a quando verrà la fine.

Il racconto mette in rilievo il potere di Gesù, ridestato dal sonno, sul demonio in terra pagana. I discepoli non temano di continuare la sua missione: lottano contro un nemico già in fuga, che il Signore ha già vinto e ha lasciato a noi da sgominare. Gli elementi narrativi di questo esorcismo, molto più coloriti in Marco, servono a dare fiducia nella vittoria definitiva.

48. CHI È COLUI CHE MI HA TOCCATO?
(8,40-56)

È un racconto a sandwich, che continua la risposta alla domanda dei discepoli sulla barca: “Chi è dunque costui?” (v. 25). Egli è colui che, caduto nel sonno e ridestato, sa liberare dal male e risvegliare dal sonno tutti i morti. Per la sua morte e risurrezione, come ha potere sul cielo, sul mare e sul male, così ha anche potere sulla malattia e sulla morte.

I due miracoli, quello dell’emorroissa e quello della figlia di Giairo, si illustrano a vicenda. Il primo indica che cosa sia la fede, il secondo come la fede vinca la morte. La fede consiste nel “toccare Gesù”. È un tocco che sprigiona da lui la dynamis dello Spirito e dà la vita. In 7,36-50, attraverso i gesti di amore riverente della peccatrice, si spiega meglio in che cosa consista questo “toccare” Gesù. L’uomo è morto se non incontra il proprio volto nel Signore, perché è fatto per lui, a sua immagine e somiglianza: senza di lui, non esiste e toccarlo significa incontrarlo, cioè amarlo e unirsi a lui che è la nostra vita. Il miracolo dell’emorroissa, incorniciato da una duplice menzione della morte (vv. 42.49), è incluso in quello della figlia di Giairo. Questo vuole illustrare come tale fede liberi dalla morte stessa, prima temuta e poi avvenuta. È il messaggio centrale della fede cristiana: il passaggio alla vita attraverso la morte, la certezza della risurrezione.

Questo passaggio avviene nell’esperienza battesimale che è un “toccare” Gesù in modo tale da essere uniti e immedesimati in lui che ha dormito nella morte e si è svegliato nella risurrezione.

Le due figure femminili, delle quali una soffre di malattia mortale da quando la più giovane è nata, possono essere figura dell’Israele antico e nuovo. La prima infatti è chiamata “figlia”. Ricorda l’appellativo: “Figlia di Sion” o “Figlia del mio popolo” (Ger 4,31; 6,2.23.26; 8,19.21.22.23…). La seconda è chiamata paîs (v. 54), che vuol dire figlio/a e servo/a. Richiama Gesù stesso, il servo morto e risorto (Cf. At 3,13.26; 4,27.30).

Nell’incontrare e toccare Gesù, l’antico Israele è guarito dalla sua malattia mortale. Riceve la salvezza attesa, che nessun medico poteva dargli, se non il suo Dio, il suo sposo, perché è malato d’amore (Ct 5,8). La giovane fanciulla, di dodici anni, in età da marito, risvegliata (Cf. Ct 8,5b) è il nuovo Israele, la sposa che rivive e gioisce nell’unirsi al suo sposo e Signore (Is 62,5). C’è una progressiva sovraimpressione di figure, prodotta dal “toccare” della fede, che porta a unirsi e a identificarsi: sembra infatti che al tocco di Gesù la donna malata diventi la giovane sposa: e la giovane sposa, dormiente e risuscitata al tocco dell’amato, si unisce e si identifica a lui, il paîs morto e risorto.

Questo racconto lascia trasparire totalmente il mistero pasquale di sonno-risveglio di Gesù al quale i discepoli sono associati mediante il battesimo. Esso infatti ci unisce a lui (Rm 6,3-11) e ci fa realmente “corpo di Cristo” (1Cor 12,12-27): entriamo a far parte della sua famiglia (v. 21), ci è data la conoscenza dei misteri del Regno (v. 10) ed entriamo nell’abisso di amore reciproco Padre/Figlio che il Figlio ci ha comunicato (Cf. 10,22).

Estratti da:
Silvano Fausti, “Una Comunità legge il Vangelo di Luca”
Edizioni Dehoniane Bologna 1991