Lectio divina sul Vangelo di Matteo
Capitoli 5-7


MatteoTesto doc Fausti – Matteo Cap 5-7
Testo pdf Fausti – Matteo Cap 5-7

dal libro di Silvano Fausti,
“Matteo. Il Vangelo della Comunità”

Messaggio del testo nel contesto

10. BEATI I POVERI
5,1-10

Beati”, dice Gesù di quelli che noi consideriamo infelici. Per noi è beato il ricco, il potente e l’onorato: vale chi ha, può e conta. Per Gesù è beato il povero, l’umile e il disprezzato: vale chi non ha, non può e non conta. È un capovolgimento radicale di valori, senza possibilità di fraintendimento: o ci sbagliamo noi, o si sbaglia lui! Per lui sono benedetti quelli che riteniamo maledetti; maledetti quelli che noi riteniamo benedetti.

L’inizio del discorso della montagna, che si estende per tre capitoli (cc. 5-7), costituisce il manifesto, la “magna charta” del regno: dice chi sono i suoi cittadini, qual è la loro condizione. I criteri con i quali Dio giudica e agisce sono esattamente l’opposto dei nostri. Regno di Dio e regno dell’uomo si oppongono come due modi contrari di valutare e di vivere. Sono due modi opposti di essere: quello di Gesù, Figlio del Padre e fratello di tutti, e quello di chi, senza Padre e senza fratelli, si è fatto da sé contro tutti.

Possiamo usare sette chiavi di lettura per entrare nel mistero di questo testo.

La prima è cristologica. Queste parole sono un’autobiografia di Gesù: rivelano il suo volto di Figlio di Dio.

La seconda è teologica. Manifestano chi è Dio: è suo Padre, uguale a lui.

La terza è antropologica. Mostrano il volto dell’uomo realizzato, del figlio a immagine del Padre.

La quarta è soteriologica. Ci salvano dall’inautenticità, dalla menzogna, dal fallimento.

La quinta è ecclesiologica. Fanno vedere i lineamenti della comunità dei figli che vivono da fratelli.

La sesta è escatologica. Rivelano la verità della realtà: il giudizio di Dio, il fine stesso del mondo.

La settima è morale (non moralistica). Ci chiamano a “fare” secondo ciò che “siamo”, a vivere la nostra identità.

Il discorso sul monte è una catechesi battesimale, un breviario di vita cristiana: la regola di vita del Figlio. Ma non è una nuova legge, più impossibile dell’antica. È il cuore nuovo, promesso dai profeti. Infatti quanto Gesù qui afferma è quanto lui vive, e con la sua carne comunica ad ogni carne. Le sue parole non sono legge, ma vangelo; non sono esigenze nobili e difficili, ma il dono sublime e bello che ci offre, facendosi nostro fratello. Senza il dono del suo Spirito, le beatitudini sono un’ideologia sublime, tanto più disperante quanto più sublime.

Gesù non solo dice: dà a noi ciò che dice. L’inclusione 4,23 = 9,35 fa del discorso sul monte e dei dieci prodigi (nove miracoli e un esorcismo) successivi un’unità. La parola dei cc. 5-7 ha il potere di farci uomini nuovi: come si racconta nei cc. 8-9, ci purifica la vita, ci dà la fede, ci rende atti a servire, ci libera dalla paura, dal male, dal peccato, dalla malattia e dalla morte, ci fa capaci di vedere e annunciare il regno di Dio.

Le parole di Gesù sono la medicina ai nostri mali, la verità che guarisce il cuore dalla menzogna che sta alla loro origine.

Il discorso sul monte è un “indicativo” che si fa “imperativo”. Il Figlio ci dà di essere ciò che siamo: figli; dobbiamo quindi diventare fratelli. L’uomo non ha altro dovere che diventare ciò che è. È importante innanzitutto cogliere “la bellezza” di questo discorso, che ci ridona nel Figlio il vero volto nostro e del Padre.

Queste parole non sono rivolte solo ai discepoli, o addirittura a quelli più volonterosi. Sono per ogni uomo che cerca la propria verità; gli restituiscono la sua realtà, al di là di ogni apparenza. Sono quindi la salvezza di “questo” mondo, il pieno sviluppo delle sue potenzialità.

Gesù, crocifisso e risorto, è la realizzazione delle beatitudini. In quanto crocifisso ne compie la prima parte – è povero, afflitto, mite, affamato, assetato di giustizia, puro di cuore, pacificatore, perseguitato -; in quanto risorto ne compie la seconda – il regno è suo, è consolato, eredita la terra, è saziato, trova misericordia, vede Dio, è Figlio di Dio. Le beatitudini sono la carta d’identità del Figlio.

La Chiesa è fatta da coloro che ascoltano le beatitudini e, con la forza dello Spirito, fanno di Gesù la loro vita e la loro regola di vita.

11. BEATI SIETE, QUANDO VI INSULTERANNO
5,11-16

Beati siete”, dice Gesù rivolgendosi personalmente a quelli che hanno udito le precedenti otto beatitudini, dette in modo impersonale. Quelli che lo ascoltano, diventano un “voi” rispetto a lui che parla: è il “voi” della Chiesa, destinataria della nona, perfetta beatitudine.

I vv. 11-12 sono uno sviluppo della precedente beatitudine sui perseguitati per la giustizia (v. 10). Questa persecuzione fa nascere il “voi” della Chiesa, in tutto simile al proprio maestro, battezzata nel suo stesso battesimo. Il v. 13 proclama l’identità dei discepoli perseguitati: sono “sale della terra”, che hanno lo stesso sapore di Cristo. I vv. 14-16 ne dichiarano la rilevanza: sono “luce del mondo”, “città posta sul monte”, “lucerna accesa sul lucerniere”.

I discepoli nelle difficoltà, invece di abbattersi, si sentono identificati con il loro Signore: con gioia vivono la beatitudine di essere con lui e come lui. La croce li rende conformi a lui, con il suo stesso amore per il Padre e i fratelli. Li fa “sale della terra”: dà ad Adamo, che è terra, il suo sapore, la sua “identità” di figlio. E questa si fa “rilevanza”, luce del mondo, che conquista anche gli altri con la sua bellezza.

L’evangelizzazione avviene attraverso la testimonianza di chi compie in sé quello che ancora manca alla passione del Figlio in favore dei fratelli (Col 1,24) – e manca sempre solo ancora la “mia” passione. La testimonianza è insieme sale, nascosto ma ben percepibile, e luce, palese e visibile, che fa godere a tutti la gloria di Dio.

Gesù, Sapienza di Dio, è il Figlio che dà la vita per i fratelli. Per questo è sale e luce: fa sentire e vedere loro che Dio è il Padre comune.

La Chiesa è il “voi” che ha ascoltato le beatitudini e ha lo stesso sapore di Cristo. Partecipa del suo destino di passione in quanto sale della terra e di gloria in quanto luce del mondo – senza dimenticare che è luce solo in quanto è sale.

12. NON VENNI PER ABOLIRE, MA PER COMPIERE
5,17-20

Non venni per abolire, ma per compiere” la legge e i profeti, dice Gesù. La legge infatti è buona: comanda ciò che fa crescere la vita e vieta ciò che la diminuisce. I profeti, a loro volta, richiamano ad essa, denunciandone le trasgressioni e promettendo un cuore nuovo e uno Spirito nuovo, che ci faccia finalmente camminare nella via di Dio.

Ma la legge non salva nessuno. L’uomo, dopo il peccato, per imperizia e inganno, ritiene male il bene e bene il male. Quando se ne accorge, ha già sbagliato, e, cercando di giustificarsi, sbaglia ulteriormente. La trasgressione diviene infine un’abitudine, quasi un imperativo, una coazione a fare ciò che è vietato e a vietarsi ciò che è comandato: è la schiavitù del vizio, tanto difficile quanto importante da ammettere.

Paradossalmente la legge, con i suoi divieti e comandi, permette al peccato di esprimere la sua potenzialità negativa, indicandogli cosa fare per articolarsi in peccati. La legge, in sé buona, è “per le trasgressioni” (Gal 3,19): serve in ultima analisi a stuzzicare l’appetito del peccato e far uscire il veleno che c’è in noi.

La legge insieme provoca, accusa e punisce la peccaminosità, che comunque c’è, fungendo da carceriere, pedagogo e tutore dell’uomo. Posta a tutela della vita, a causa del peccato non dà che morte.

Gesù è venuto a liberarci dalla schiavitù della legge non abolendola – sarebbe stravolgere il bene in male e viceversa – bensì compiendola, e in modo superiore, divino.

Infatti dietro la legge, che vieta ciò che sa di morte, c’è il Signore che dà la vita e risuscita dai morti; dietro la parola che condanna la trasgressione, c’è il Padre che perdona il trasgressore.

Gesù è il primo che vive l’amore. La sua giustizia non è quella degli scribi e dei farisei: è quella “eccessiva” del Figlio, uguale a quella del Padre, che fa entrare nel regno.

Gesù non è la fine, bensì il fine della legge e dei profeti: non l’abolizione, ma il compimento. Vive infatti la parola data a Mosè e richiamata dai Profeti: è il Figlio che compie la volontà del Padre.

La Chiesa non annuncia la legge, ma il vangelo. “Mosè infatti, fin dai tempi antichi, ha chi lo predica in ogni città, poiché viene letto ogni sabato nelle sinagoghe” (At 15,21). Essa annuncia la buona notizia della “giustizia eccessiva” del Figlio, che ama come il Padre. Non per questo trasgredisce la legge. L’amore infatti non fa male a nessuno: pieno compimento della legge è l’amore (Rm 13,10).

13. IO PERÒ VI DICO
5,21-48

Io però vi dico”, dice Gesù dichiarando la giustizia “eccessiva” del Figlio che fa entrare nel regno del Padre (v. 20).

Questa sezione, introdotta dal brano precedente, ci spiega in che modo Gesù compie tutta la legge. Norma del nostro agire è diventare come il Padre (v. 48). Sii ciò che sei: sei figlio, sii dunque figlio, uguale al Padre che ama tutti. Il discorso sulla montagna rivede, a questa luce, le nostre relazioni coi fratelli (vv. 21-48). Seguirà l’esposizione dei tre “pilastri del mondo” – l’elemosina, la preghiera e il digiuno (6,1-18) -, e una sezione di lunghezza pari a questa, che esamina la nostra relazione con il Padre (6,19-7,11), per terminare con il comando dell’amore, sintesi “della legge e dei profeti” (7,12), che fa da inclusione a tutto il discorso (5,17).

Questo brano è strutturato su sei antitesi: “fu detto/io però vi dico”. In realtà non sono antitesi: Gesù non propone una legge diversa, come appare chiaro dal v. 17: “Non sono venuto ad abolire, ma a compiere la legge e i profeti”. La legge non è nuova, ma antica. Il compimento però è nuovo: nessuno mai l’ha proposta e osservata in questo modo, che è quello del Figlio. Principio della sua giustizia infatti è l’amore del Padre.

Gesù parla con autorità pari a colui che diede le Dieci Parole. “Io però vi dico” non contraddice quanto è stato detto, ma lo chiarisce, lo modifica in ciò che suona concessione, e passa dalle semplici azioni ai desideri del cuore, da cui tutto promana. Ma ciò che dice non è un’imposizione legalistica, ancor più severa della precedente, che giudica non solo le azioni, ma addirittura le intenzioni. È invece la “buona notizia” di ciò che Dio opera in noi mediante queste stesse parole, che hanno l’autorità di compiere ciò per cui sono mandate. Vanno quindi intese non come un “codice” di leggi bellissime ma disumane, divinamente impossibili, bensì come “rivelazione” e dono della vita stessa di Dio per noi.

Alla luce del regno del Padre, proclamato nelle beatitudini, si rivedono ora i rapporti con gli altri e con l’Altro. Le due tavole del decalogo vengono rivisitate con il cuore nuovo del Figlio.

Voi”, che avete la sapienza delle beatitudini, siete sale della terra e luce del mondo proprio perché vivete con gli altri da fratelli, che conoscono il Padre comune.

I vv. 21-26 riguardano il rispetto dell’altro nella sua vita. Non basta non ucciderlo: anche l’ira, l’insulto e il disprezzo sono forme di uccisione (vv. 21-22). L’accordo fraterno è così importante che la riconciliazione ha la precedenza su ogni culto religioso (vv. 23-24); il non accordo con il fratello è la condanna di non essere figlio (vv. 25-26).

I vv. 27-30 riguardano il rispetto dell’altro nel suo bene fondamentale: la sua relazione di coppia che lo realizza come persona, a immagine di Dio. Non c’è solo l’adulterio del corpo, ma anche quello del cuore (vv. 27-28). Bisogna essere decisi nel recidere ciò che induce al male (vv. 29-30)

I vv. 31-32 riguardano il divorzio, concesso dalla legge mosaica; Gesù riporta l’unione uomo/donna al suo statuto originario (cf 19,3-9).

I vv. 33-37 riguardano il giuramento e la parola, forma fondamentale di relazione umana, che media e dà senso a ogni altra: il parlare della bocca sia trasparenza di quanto c’è nel cuore.

I vv. 38-42 riguardano la giustizia vendicativa: la legge del taglione è sostituita da quella della misericordia, che sola vince il male e riscatta chi lo fa.

I vv. 43-47 riguardano l’amore del prossimo (= fratello), che va esteso anche al nemico. Solo chi fa così è figlio di Dio, perché Dio fa così.

Il v. 48 è il versetto centrale (Kelal), onnicomprensivo, che conclude tutto: è come la cima più alta da cui si gode tutto il panorama. Ci dice di essere perfetti come il Padre, perché siamo figli: è l’essenza del vangelo, ciò che Gesù è venuto a parteciparci.

Come si vede, l’etica “naturale” è di sua natura “soprannaturale”: la natura dell’uomo è essere come Dio.

Gesù qui dice ciò che nel seguito del vangelo puntualmente realizza.

La Chiesa è fatta da uomini peccatori, come tutti. Però si sanno figli del Padre, e cercano di essere fratelli di tutti, con e come Gesù, il Primogenito.

14. QUANDO TU FAI L’ELEMOSINA
6,1-4

Quando tu fai l’elemosina,” dice Gesù, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra. L’elemosina, come ogni pratica religiosa, va fatta nel segreto, davanti a Dio; non in pubblico, per ricevere gloria dagli uomini.

L’elemosina, con la preghiera e il digiuno (Tb 12,8), sono i tre pilastri della religione: definiscono il nostro rapporto con gli altri, con l’Altro e con le cose. Queste tre relazioni costituiscono la nostra esistenza: in esse viviamo o meno la nostra verità di figli, compiamo o meno la giustizia di Dio.

Qualunque nostra azione può essere fatta in due modi opposti: per autocompiacerci, avere lode e riconoscimento dagli uomini, oppure per piacere a colui che da sempre ci loda e riconosce come figli.

Uno vive o muore dello sguardo altrui. Chi non è visto da nessuno, non esiste. L’uomo è bisogno di riconoscimento: la sua identità è come l’altro lo vede. Da qui l’ophtalmodoulía (Ef 6,6), la “schiavitù degli occhi” che lo rende servo dello sguardo altrui, della vana-gloria. Solo chi sa di essere figlio di Dio, amato infinitamente – il mio essere è il suo vedermi e amarmi! -, è libero dalla vanagloria: ha la vera gloria. La fede è conoscere questa gloria. Per questo non può credere in Dio chi cerca la gloria degli uomini (Gv 5,44).

Le opere, anche quelle “per sé” buone, sono buone “per me” solo se fatte “davanti a Dio”, per amore e in umiltà; diversamente, se fatte “davanti agli uomini”, per autoaffermazione e vanità, sono cattive.

Dopo aver detto di essere perfetti come il Padre (5,48), Gesù ci fa entrare nel segreto del suo cuore di Figlio. La sua relazione con il Padre è la sorgente del suo essere e agire, della giustizia eccessiva che apre la porta del regno (5,17.20).

Ciò che qui si dice per l’elemosina, verrà ripetuto anche per la preghiera e il digiuno. In ogni opera buona è sempre in gioco il bisogno di riconoscimento. Se lo cerco negli altri, non ne avrò mai abbastanza; resterò sempre schiavo e del giudizio altrui e del mio tentativo di dare una buona immagine di me; avrò il culto-dell’immagine (= idolatria) del mio io invece che della realtà di Dio. Se lo cerco nell’Altro, allora ritrovo la mia realtà in colui che mi ama di amore eterno, ai cui occhi sono prezioso e degno di stima, addirittura un prodigio (Ger 31,3; Is 43,4; Sal 139,14). Dio ama ciascuno come figlio, come il Figlio. “Li hai amati come hai amato me” (Gv 17,23), dice Gesù al Padre di ciascuno di noi.

La mia “gloria” – il “peso” della mia persona – è questo riconoscimento del Padre. Esso mi rende già ora contento di me e di lui, capace di amare come sono amato.

Gesù è il Figlio, splendore della gloria del Padre, impronta della sua sostanza (Eb 1,3). Il suo essere è tutto “davanti al Padre”.

La Chiesa è fatta di figli, che sanno come il Padre li ama: questa è la loro grande dignità. Non hanno normalmente bisogno di comprare o mendicare autostima da altre fonti!

15. QUANDO PREGHI
6,5-8

Quando preghi,” volgiti al Padre tuo nel segreto, dice Gesù. Il brano insegna come pregare (v. 6) e come non pregare, per essere notato dagli uomini (v. 5) o da Dio stesso (vv. 7-8).

Ma cos’è la preghiera, da Gesù ritenuta ovvia e naturale?

È l’atto fondamentale con cui riconosco il mio principio come mio fine; è l’atto “razionale” più alto, con il quale, esplorati i miei confini, conosco me e l’Altro da cui vengo, accetto me come dono dell’Altro e l’Altro come amore per me.

Pregare è essere me stesso, finito e aperto all’Infinito. Nessun animale mai si inginocchia per pregare, chiedendosi della propria origine e della propria destinazione, interrogandosi sul “perché” di questa breve vita. È un atto umano, e solo umano. Può quindi anche essere disumano, maldestro o falsificato, e quindi giustamente rifiutato, anche se con sofferenza e nostalgia.

Pregare è stare davanti a Dio, di cui sono immagine e somiglianza. Davanti a lui sono ciò che sono; lontano da lui non sono ciò che sono – sono lontano da me. Non è un optional per anime devote: è la salvezza dell’uomo come uomo, che riceve la propria identità. Non è chiudersi in sé, guardando il proprio ombelico o i propri fantasmi interiori: è quell’aprirsi all’Altro che mi fa essere me stesso.

Pregare non è parlare di Dio, ma parlare con lui; non è leggere un menu di cibi squisiti, ma mangiare. Senza preghiera la fede è ideologia vuota, l’azione distrazione dell’uomo e distruzione della realtà.

Pregare è dialogare: rispondo “tu” a colui che dice il mio nome; esco dal mio guscio, per realizzarmi nel dono all’Altro; dimentico me per ri-cordare, avere-nel-cuore lui. Pregare è gioire di Dio che amo. Lui diventa la mia vita: vivo, in pienezza sempre maggiore, di lui, che è presenza, dialogo, amore, dono, perdono.

Tutto questo appare chiaramente nella Bibbia attraverso l’esperienza degli amici di Dio. I concetti di persona, libertà, fraternità e giustizia, sono entrati nella cultura occidentale dalla tradizione biblica, grazie a chi ha fatto esperienza di aver la dignità di essere interlocutore di Dio.

La preghiera non autentica, fatta per apparire “davanti” agli uomini o a Dio, falsifica l’esistenza. La preghiera autentica è il respiro della vita. Per questo è necessario pregare sempre (1Ts 5,17; cf Lc 18,1ss), in ogni tempo (Ef 6,18) e in ogni luogo (1Tm 2,8), perché sempre ed ovunque si esprima a livello di coscienza e libertà ciò che siamo nella realtà.

La preghiera va fatta con insistenza (7,7-11 e par), con fede (21,22 e par), nel nome di Gesù (18,19s; Gv. 14,13; 15,16; 16,24.26), con familiarità filiale (v. 8).

Noi non sappiamo cosa chiedere (Rm 8,2): lo Spirito prega in noi (Rm 8,26.15; Gal 4,6).

La preghiera, unione con il Padre nel Figlio, è anche solidarietà con i fratelli, intercessione dell’unico Giusto che salva tutti (cf Gen 18,16-33); è lotta in cui si vince il male (Es 17,8-15; Rm 15,30; Col 4,12), si riceve il proprio nome (Gen 32,23ss) e Dio stesso riceve il suo vero nome: “Abbà” (Mc 14,36 e par).

La preghiera è svolgere davanti a Dio la propria realtà (cf 1Re 19,10-18): ottiene tutto (7,7), perché fa volere ciò che Dio vuole dare, e solo allora può dare: il suo Spirito (Lc 11,13).

Per questo la preghiera ci trasforma: il dono dello Spirito ci fa figli a immagine di Gesù, ci fa vivere la sua stessa vita e portare lo stesso frutto (cf Gal 5,22). Ci incorpora a lui, dandoci come principio vitale il suo amore reciproco col Padre (cf 11,25-27). Così il nostro essere, pensare e agire diventano divini. La preghiera è il principio “teomorfico” – che ci trasforma in Dio.

Credere in Dio senza pregare è solo fede demoniaca (cf Gc 2,19). Conoscerlo e non sperimentarlo è la pena del “danno”, l’essenza dell’inferno.

La preghiera non è fare qualcosa: è quel “far niente”, quel riposo sabbatico che ci concede di essere fatti dal Signore e ci fa abitare “la terra” (cf Is 58,13s). Gli empi, al contrario, sono sempre inquieti, come un mare agitato che di continuo tira su melma e fango (Is 57,20s).

Gesù è il Figlio, il cui essere è essere davanti al Padre nell’unico respiro di amore.

La Chiesa è la comunità dei fratelli di Gesù: uniti a lui, vivono il suo stesso Spirito, origine e frutto sempre più grande della preghiera.

16. COSÌ DUNQUE PREGATE VOI
6,9-15

Così dunque pregate voi”, è l’imperativo del Signore. Fermiamoci sulle singole parole di questa introduzione di Gesù alla “sua” preghiera..

Così. Questo tipo di preghiera è in contrapposizione alla precedente. Non sto “davanti agli uomini”, ma nella “dispensa”, davanti al Padre. Non moltiplico le parole per farmi ascoltare da Dio e piegarlo ai miei desideri, ma è ascolto del Padre e volontà che si realizzino i suoi desideri su di me, suo figlio.

La preghiera è una “ginnastica del desiderio” (Agostino). Il desiderio è la facoltà più alta dell’uomo: produce niente, ma accoglie tutto. Tutto ciò che c’è – e Dio è tutto! -, non è da fare, ma da accogliere.

Desiderare non è velleitarismo: è volere veramente il dono dell’altro e l’altro come dono, con una volontà che si fa attesa, mai pretesa.

Dunque. Il “Padre nostro” è il “dunque”: la preghiera davanti al Padre che contiene ogni altra. È costituita da sette domande poste all’imperativo. È il modo della volontà, e riguarda un’azione libera. Vogliamo che il Padre ci dia ciò che lui ci vuol dare. L’imperativo nasce da un indicativo: Dio è Padre, sia dunque per noi Padre! Lui vuole e noi vogliamo che sia così, per “noi”, per me e per tutti.

Le prime tre domande (vv. 9-10) riguardano il bisogno che noi qui in terra abbiamo del Padre celeste; le altre quattro (vv. 11-13) il bisogno che abbiamo dei suoi doni per vivere il suo dono. Segue un’aggiunta sul perdono (vv. 14-15): la fraternità è sacramento della paternità, il perdono al fratello luogo del dono del Padre.

pregate voi. È un imperativo presente rafforzato dal pronome. Prescrive di continuare un’azione: la preghiera è e sia presente e continua, come la vita, che, se si arresta, muore. Se Gesù non l’avesse ordinato, non avremmo “osato” pregare in questo modo, “ordinando” al Padre di darci ciò di cui abbiamo bisogno. Ma proprio così riconosciamo il nostro bisogno, e ci impegniamo a volere ciò che ordiniamo.

Esprimiamo i suoi desideri, che sono come un comando interiore dello Spirito che in noi grida la necessità d’amore che è in Dio: avvenga in noi ciò che da sempre è in lui. Necessariamente Dio santifica il suo nome, regna, fa la sua volontà, dà il pane e il perdono, ci salva nella tentazione e ci libera dal maligno. Questa sua necessità diventa nostra mediante lo Spirito, che ci fa chiedere e volere ciò che lui non può non dare.

Il “Padre nostro” è la preghiera di Gesù, il Figlio, che ci fa essere ciò che siamo: uguali a lui, figli nel Figlio, che si rivolgono al Padre con il suo stesso Spirito.

Esiste in due redazioni: questa e quella di Luca (Lc 11,2-4). In Marco le richieste del Padre Nostro si trovano sparse nel vangelo, particolarmente nella scena del Getsemani (Mc 14,32-42) In Giovanni il cap. 17 può essere considerato un Padre nostro ampliato.

Questa preghiera, pur nella sua novità, ha profonde radici ebraiche nel Qaddish e nel Shemoneh Eshreh.

Gesù è il Figlio venuto a comunicarci il suo Spirito, la sua relazione d’amore col Padre.

La Chiesa è la comunità dei fratelli che nel Figlio conosce il Padre e lo ama a nome di tutti.

17. QUANDO DIGIUNI, PROFUMATI IL CAPO
6,16-18

Quando digiuni, profumati il capo”, dice Gesù. L’elemosina e la preghiera, scaturite dal cuore del Figlio davanti al Padre, compiono la “giustizia eccessiva” nei confronti dell’altro e dell’Altro. Il digiuno a sua volta la compie nei propri confronti: fa accettare se stessi come figli e il proprio limite come principio di vita.

Digiunare è il contrario di mangiare, vivere. È segno sia di lutto che di conversione. È spesso associato alla preghiera e allo studio della Torà (Dt 8,3). Se la sazietà ottunde, la fame aguzza l’ingegno: quella volontaria poi fa capire che non di solo pane vive l’uomo.

Il digiuno è obbligatorio il giorno dell’espiazione, in cui è proibito “mangiare, bere, lavarsi, profumarsi, calzare i sandali e avere rapporti sessuali” (Mishna). Oltre al digiuno pubblico, prescritto, ci sono quelli privati, di devozione. Il fariseo al tempio, di cui parla Gesù nella parabola, digiuna ben due volta la settimana (Lc 18,12). Le opere supererogatorie procurano fama di persona pia. Ognuno cerca di primeggiare, scegliendo l’ambito dove meglio riesce. Non importa se è la religione o lo sport, l’arte o l’economia, la pace o la guerra, la politica o la malavita: tutto serve per essere “qualcuno” davanti agli altri. L’apparire agli occhi degli uomini è il DNA di ogni male, che ha la sua radice nel non sapere chi siamo agli occhi di Dio.

A Gesù chiederanno perché i suoi discepoli non digiunano (9,14 s). Risponderà che è il tempo delle nozze, del banchetto messianicoo, della pienezza di vita che Dio ha promesso. Ma anche loro conoscono un digiuno, che è solo “davanti al Padre”.

Come in tutte le opere, Gesù guarda l’intenzione. Il cuore del Figlio è puro, e vede Dio (5,8), perché lui solo cerca. L’ipocrita cerca la propria reputazione, e in tutto trova il proprio io.

Stare davanti agli uomini o al Padre, è l’alternativa del nostro modo di essere e di agire: anche in Dio, si può cercare ancora il proprio io (Lc 18,11)!

Il digiuno, come ogni opera buona, può essere esibizione davanti agli uomini, persino davanti a Dio – imbiancatura di un cuore orgoglioso, possessivo e padronale, pieno di morte. È quanto dicevano i profeti, proponendo un altro digiuno, gradito a Dio: operare con giustizia e dividere i propri beni coi poveri (Is 58,1ss).

Gesù ha digiunato nel deserto. Anche per lui “la fame” è stato luogo di tentazione.

La Chiesa occidentale ha ora attenuato la pratica del digiuno. In una società ridotta a bocca che tutto divora, a tubo digerente che tutto assimila, il digiuno riacquista la sua attualità. E c’è anche un digiuno della mente e del cuore, dell’orecchio e dell’occhio.

18. NON POTETE ESSERE SERVI DI DIO E DI MAMMONA
6,19-24

Non potete essere servi di Dio e di mammona”, dice Gesù. I nostri rapporti con le cose devono essere da figli di Dio: lui è il nostro tesoro, e le cose non sono feticci da adorare, ma doni del suo amore.

L’uomo è sempre “di” qualcuno. L’appartenenza, in molte lingue, si esprime col “genitivo”: è la relazione, che genera e fa esistere. Questa relazione è unica: non si possono avere due padri o due madri. Così Gesù dice che la nostra vita o dipende da Dio, e allora siamo suoi figli, o dipende da mammona, e allora siamo suoi schiavi.

Inizia in questo brano la conclusione del corpo del discorso della montagna, che culmina con il comando dell’amore, sintesi della legge e dei profeti (7,12). La sezione, molto articolata, è unita da un filo conduttore: la paternità di Dio. Questa è da vivere in rapporto alle cose come libertà dall’accumulo quando ci sono e dall’ansia quando non ci sono (6,9-24.25-34), e in rapporto alle persone come accoglienza e amore fraterno (7,1-12).

Lo Spirito filiale informa sia le opere religiose (elemosina, preghiera, digiuno) sia il rapporto quotidiano con le cose e le persone. Chi non si sa figlio di Dio e fa dipendere la sua vita dalle cose, accumula tesori sulla terra; il suo occhio è malato, perso dietro l’idolo, schiavo di mammona. Chi si sa figlio, invece, accumula tesori in cielo; il suo occhio è puro e in tutto vede colui che lo ama e che vuol amare. La fede in Dio si gioca concretamente nel rapporto con le creature, che può essere filiale e fraterno, oppure padronale e diabolico (cf Lc 12,13-34; 16,1-13).

Gesù, il Figlio di Dio, è il tesoro in cui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9).

La Chiesa ha scoperto il tesoro, e, con gioia, si disfa di tutto per ottenerlo (13,44ss). Vive ogni cosa come eucaristia: dono ricevuto dal Padre e condiviso con i fratelli.

19. NON PREOCCUPATEVI
6,25-34

Non preoccupatevi”, è il ritornello che Gesù ripete sei volte. Porre la vita nelle mani del Padre significa essere liberi dall’affanno. Ciò che ne garantisce il mantenimento è lui, che, come la dà, così la alimenta. L’ansia della previdenza cede il posto alla fiducia nella provvidenza.

Gesù non dice di non lavorare; dice di non fare del lavoro l’idolo che toglie il respiro: “Il lavoro è da fare, la preoccupazione da levare” (S. Girolamo). S. Ignazio da Loyola consiglia di agire come se tutto dipendesse da noi, sapendo però che tutto dipende da Dio. È un atteggiamento che toglie l’ansia – tutto dipende da Dio!-, e mette in libero gioco le nostre capacità – tutto dipende da noi! Il fatto che tutto sia dono non è alibi all’impegno, ma antidoto alla preoccupazione.

A differenza dell’animale, l’uomo non nasce vestito, né trova direttamente nella natura il cibo. Deve necessariamente lavorare. Ma non deve fare dei suoi bisogni il suo assoluto. È chiamato a soddisfarli da figlio, collaborando col Padre e condividendo con i fratelli. Il cibo e il vestito, se non diventano l’idolo, sono il mezzo che mette in comunione con Dio e con gli uomini.

La pre-occupazione assorbe energie utili per l’occupazione stessa, e toglie vita invece di mantenerla. Essa ci assale quando le cose da mezzo diventano fine; allora, invece di servirci, ci asservono, invece di comunicarci la vita filiale e fraterna, la uccidono.

La nostra fede in concreto è riposta o nel Padre che tutto dona, o nell’idolo che tutto esige.

Gesù è il Figlio che tutto riceve dal Padre e spezza coi fratelli: la sua esistenza è amore ricevuto e dato.

La Chiesa vive allo stesso modo: libera dall’ansia di vita, che è paura di morte – e spesso paura di vivere e ansia di morire -, cerca in tutto il regno del Padre e la sua giustizia. Invece di tanti ansiolitici (l’attivismo, fin che regge, è il più usuale!), ha come medicina la fiducia nel Padre.

20. NON GIUDICATE
7,1-6

Smettetela di giudicare!” È l’ordine che Gesù ci dà per vivere nel rapporto coi fratelli la paternità di Dio. Non devo giudicare per due motivi. Primo, perché il mio giudizio condiziona negativamente l’altro; secondo, perché il mio giudizio sull’altro si rivolge contro di me. Il mio giudizio pre-giudica l’altro e giudica me stesso: l’altro tende a diventare come io lo vedo, e io sono come vedo l’altro.

Positivamente sono chiamato a stimare l’altro come figlio di Dio e mio fratello. La mia disistima nei suoi confronti è grave per lui e per me: nega a lui la fraternità mia, e a me la filialità divina.

Dopo aver visto come si vive la “giustizia eccessiva” del Figlio uguale al Padre nelle opere religiose (6,1-18), nell’uso dei beni (6,19-34), ora vediamo come la si vive in relazione all’altro (7,1-6). Il principio di tutto è la preghiera, comunione col Padre che concede ogni bene (7,7-11), in particolare quel bene sommo, che è fare all’altro ciò che voglio che l’altro faccia a me (7,12).

L’altro è “altro”, diverso ed estraneo. Intruso e concorrente, invasore e nemico, lo misuro, valuto e giudico: Ciò che ha in più – l’altro è semplicemente un di più rispetto a me! – è oggetto di invidia e rapina; ciò che ha in meno, è motivo di disprezzo, ansa per averlo in mano.

Dall’altro mi difendo per conservare la mia differenza; se possibile, lo attacco per impadronirmi della sua. Cerco la superiorità per non cadere in inferiorità, il dominio per non essere dominato. Ogni uomo diventa lupo per l’altro, animato da spirito di rivalità, rissa, inimicizia, sopraffazione e voracità.

È l’atteggiamento di Adamo nei confronti di Dio, è lo stesso che abbiamo nei confronti del padre, il primo altro, e di ogni “altro” da me. In realtà il volto dell’altro è quello dell’Altro: nel rapporto con lui, vivo quello con l’Altro, e viceversa.

Le ultime battute del discorso sul monte richiamano ciò di cui già si è parlato in 5,21-48 e di cui si parlerà nel c. 18

I vv. 1-2 vietano di giudicare: il mio giudizio cattivo sull’altro è contro me stesso. Non giudicare significa essere come il Padre, che accetta incondizionatamente il figlio. Giudicare significa non essergli figlio. Il mio giudizio buono o cattivo sull’altro è la misura del mio essere figlio o meno del Padre. Anzi, il giudizio futuro che Dio darà su di me non sarà altro che il giudizio presente che io do sul fratello. Dio lo lascia scrivere a me; lui alla fine semplicemente leggerà ciò che io ho scritto.

I vv. 3-5 esortano a giudicare me stesso invece dell’altro. Uno vede l’altro con il suo occhio, con il suo cuore: l’altro è colui che rispecchia me stesso. Se lo vedo male, è perché il mio cuore è cattivo. La critica verso l’altro è autocritica inconsapevole: il piccolo male che vedo in lui è spia del grande che è in me.

Il v. 6 mostra come il non giudicare non tolga il discernimento. Ne è anzi il presupposto. Se non giudico tra buoni e cattivi e vedo in me il male, posso discernere ciò che è opportuno fare nei confronti dell’altro.

Gesù porta sulla terra lo stesso giudizio di Dio: piuttosto di giudicare e condannare i fratelli, si fa giudicare e condannare da loro; li stima tanto da dare la vita per coloro che gliela tolgono! La croce è il suo giudizio sul mondo: misericordia assoluta per tutti.

La Chiesa è chiamata a conoscere e vivere, sia all’interno che all’esterno, la sua stessa simpatia illimitata per ogni alterità. Sempre tentata di compiere il giudizio dell’uomo, che è un massacro dell’altro,cerca di mantenere il giudizio di Dio, che è salvezza per tutti.

21. CHIEDETE
7,7-12

Chiedete” con la certezza di ottenere, dice Gesù, e vi sarà sicuramente dato. Questa esortazione sulla preghiera è incastonata tra il “non giudicare” e “la regola d’oro” sull’amore. Il contesto mostra la cosa da chiedere, che Dio certamente dà: la capacità di non giudicare e di amare l’altro. Questo è il dono del Padre che ci fa figli: il dono del suo Spirito (Lc 11,13).

In contesto analogo, nel discorso sulla comunità, troviamo un altro detto di Gesù sull’infallibilità della preghiera (18,19), posto tra l’accettazione incondizionata dell’altro, che rende possibile la correzione fraterna (18,12-18), e la parabola sull’amore che si esprime nel perdonare sempre e di cuore (18,21ss).

Nella preghiera la sua vita diventa nostra vita. L’unica condizione per riceverla è volerla e chiederla; volerla perché nessuno può darmi ciò che non voglio ricevere, chiederla perché nessun dono può essere preteso!

Se non otteniamo, è perché o non vogliamo, o non chiediamo bene, o vogliamo ciò che non è bene. In sintesi S. Agostino dice che non otteniamo perché chiediamo mali, vel male, vel mala, ossia con il cuore cattivo, o senza fiducia e umiltà, o cose cattive.

S. Giacomo dice: “Se qualcuno manca di sapienza, la domandi a Dio che dona a tutti generosamente e senza rinfacciare, e gli sarà data. La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all’onda del mare mossa e agitata dal vento, e non pensi di ricevere qualcosa dal Signore un uomo che ha l’animo oscillante e instabile in tutte le sue azioni” (Gc 1,5-8). E aggiunge: “Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per spendere per i vostri piaceri (Gc 4,2s).

La preghiera è infallibile se chiediamo ciò che è conforme alla volontà di Dio, con una fiducia che tutto desidera e nulla ritiene impossibile, con una umiltà che nulla pretende e tutto attende.

La preghiera è essenzialmente “chiedere, cercare e bussare”. Ma non è un importunare Dio per estorcergli ciò che vogliamo. È invece l’atteggiamento del figlio: sa che il Padre dà e sa cosa vuol dargli – e questo lui stesso vuole e chiede. Chiediamo non per forzare la sua mano, ma per aprire la nostra al suo dono, sempre a disposizione di chi lo desidera.

Il mio chiedere, come è l’unica misura del suo dare, è l’unica misura del mio ricevere la mia stessa realtà. Per questo è importante chiedere e desiderare: nella misura del mio desiderio, io sono me stesso – dono di “colui che in tutto ha potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare” (Ef 3,20).

I vv. 3-8 dicono di chiedere, cercare e bussare. I vv. 9-11 illustrano l’infallibilità della preghiera con la parabola del padre. Il v. 12 è il punto di arrivo del discorso sul monte, la “regola d’oro”.

Gesù è il primo che ha fatto agli altri ciò che ognuno vuole che gli altri facciano a lui: è il Figlio che ama incondizionatamente come ognuno desidera essere amato. Questo scaturisce dalla sua unione col Padre, dal quale riceve tutto, anche se stesso.

La Chiesa è fatta da coloro che, in lui, sono come lui: figli uniti al Padre e donati ai fratelli.

22. ENTRATE PER LA PORTA STRETTA
7,13-20

Entrate per la porta stretta”, dice Gesù. Dopo il v. 12 – vetta da cui si gode il panorama di tutta la catena di monti sui quali la legge e i profeti ci vogliono condurre -, Gesù conclude dichiarando l’importanza di quanto ha detto: è la “porta” d’ingresso al regno, la “via” che conduce alla vita, il “frutto bello” dell’albero buono.

Il brano si articola in due quadri con metafore suggestive: porta/via, albero/frutto.

La parola di Gesù è la “porta” stretta che ci fa entrare nella vita filiale e fraterna, la “via” angusta che ci conduce alla vita piena (vv. 13-14). Quanti la conoscono e non la praticano sono “falsi profeti”. Per loro la dissonanza tra il dire e il fare non è dolorosa incoerenza da cui uscire, ma strategia di vita. Le loro azioni li rivelano, come il frutto mostra la qualità dell’albero (vv. 15-20).

Molte sono le porte, ma una sola quella di casa; tante le vie per perdersi, ma una sola quella che porta alla meta; mille gli alberi, ma uno solo dà il frutto di vita.

Come Mosè (Dt 30,15-20), Gesù ci pone davanti al bivio: ci apre la via della benedizione e della vita, perché abbandoniamo quella della maledizione e della morte. Abbiamo finalmente la possibilità di scegliere la nostra verità: oltre il male che già conosciamo e facciamo – e che la legge denuncia – c’è il bene che in lui possiamo finalmente conoscere e fare.

Il brano richiama il Salmo 1, che presenta la via “beata” del giusto e quella “perduta” del peccatore, paragonati rispettivamente a un albero ricco di frutti in riva al fiume, e alla pula dispersa dal vento. Fare o meno queste parole, è per l’uomo realizzare o perdere se stesso.

Gesù è il Figlio, porta d’accesso alla comunione con il Padre e i fratelli, via che conduce a una felicità sempre maggiore, albero che porta il dolce frutto, maturo e pieno, dell’amore.

La Chiesa è la comunità dei figli e dei fratelli che ascoltano la parola che lui per primo ha fatto e detto.

23. CHIUNQUE ASCOLTA QUESTE MIE PAROLE E LE FA
7.21-29

Chiunque ascolta queste mie parole e le fa”, dice Gesù, compie la volontà del Padre mio: edifica qui in terra la sua dimora eterna, costruita su quella stabile roccia che è Dio stesso. Chi invece le ascolta e non le fa – Matteo si rivolge a credenti, che ascoltano ma non sempre fanno -, per quanto faccia cose buone, non fa la volontà di Dio: costruisce sulla sabbia del proprio io la rovina di se stesso.

In continuità con il brano precedente, si conclude il discorso sul monte dichiarando la sua importanza per il destino dell’uomo. Sono due metafore sul giudizio (vv. 21-23.24-27), visto prima da parte del Signore che ci riconosce o misconosce, poi da parte nostra, che realizziamo salvezza o rovina. Il “giudizio” sulla nostra vita di credenti è lasciato non all’arbitrio di Dio, ma alla nostra libertà di fare o meno la sua parola.

Matteo si trova davanti una comunità carismatica, ricca di fede ed entusiasmo: adora il Signore, nel suo nome fa profezie, miracoli ed esorcismi. Ma questo non basta. Infatti, senza l’amore, tutto è nulla (cf 1Cor 13,1-3). E l’amore è, innanzitutto, fare ciò che piace dell’amato. La comunità di Matteo, piena di doni anche straordinari, rischia di trascurare il quotidiano “fare la volontà del Padre”, amando e servendo i fratelli nelle piccole cose di ogni giorno.

Nel primo quadro (vv. 21-23) Gesù dice che si possono compiere opere religiose – celebrare la liturgia, fare profezie, esorcismi e miracoli – senza il cuore del Figlio. Si può agire nel nome del Signore, ma ancora per amore del proprio io, senza l’amore del Padre e dei fratelli. In “quel giorno” ognuno mieterà ciò che ha seminato (Gal 6,7). Se avrà seminato amore, sarà riconosciuto; altrimenti sarà bollato come “operatore di iniquità”, che non ha agito secondo la legge dell’amore.

Nel secondo quadro (vv. 24-27) si ribadisce la stessa cosa con una prospettiva inversa. Se prima si guardava al cammino dalla meta, ora si guarda alla meta dal cammino: la casa che noi ora costruiamo resisterà o meno “in quel giorno” secondo che avremo fatto o meno “queste parole”. Chi le fa è come un uomo “saggio” che costruisce sulla “roccia”. Chi non le fa è uno “stolto” che costruisce sulla “sabbia”. Ad ambedue capitano le stesse avversità, ma con risultato diverso: la casa dell’uno permane, quella dell’altro cade. Il saggio costruisce nel tempo la dimora eterna, che resiste a ogni avversità; lo stolto invece si costruisce la propria rovina, che gli crolla addosso.

La conclusione (vv. 28-29) sottolinea lo stupore delle folle per il suo insegnamento: la sua parola non solo spiega, come gli scribi, ma ha l’autorità di Dio stesso.

Gesù è il primo ascoltatore e facitore della Parola: è la Parola fatta carne.

La Chiesa ascolta e fa la sua parola, continuando nella propria storia l’incarnazione del Figlio.