Lectio divina
– Vangeli

Lectio divina sul Vangelo di Matteo
Capitoli 8-9


Matteo

Testo doc Fausti – Matteo Cap 8-9
Testo pdf Fausti – Matteo Cap 8-9

dal libro di Silvano Fausti,
“Matteo. Il Vangelo della Comunità”

Messaggio del testo nel contesto

24. SE VUOI PUOI MONDARMI. VOGLIO! SII MONDATO!
8,1-4

Se vuoi, puoi mondarmi”, è la richiesta del lebbroso; “Voglio! Sii mondato”, è la risposta di Gesù.

I cc 5-7 riferiscono ciò che la Parola dice; i cc 8-9 ciò che essa dà: rifà l’uomo nuovo, a immagine del Figlio, vittorioso su ogni male, sulla malattia e sulla stessa morte.

Gesù fa quello che dice: Verbo del Padre, nel quale, attraverso il quale e per il quale tutto è creato e ricreato, è la Parola che dice. L’ascolto di lui ci guarisce dalla morte e ci rigenera figli. Il discorso sul monte e i prodigii formano un tutt’uno, incorniciato dall’attività guaritrice di Gesù (4,23=9,35): i prodigi sono frutto dell’ascolto della Parola, che fa nuove tutte le cose. E sono dieci (nove miracoli più un esorcismo), numero di totalità, per dodici persone!

I cc 8-9 costituiscono una “treccia” di vari filoni. Dei due principali il primo racconta la storia di Gesù, che fa il bene e riceve il male; il secondo è quello della fede e della mancanza di fede in lui. Lo stile del racconto di Matteo, rispetto agli altri sinottici, è più sobrio ed essenziale, con l’intento di evidenziare gli aspetti teologici.

Nella prima parte, inquadrata in una giornata (8,1-17), si dice in sintesi cosa opera la parola di Gesù: compie il miracolo di farci figli.

Il miracolo è un segno che ha un significato – dove l’importante è proprio questo. Quello del lebbroso mondato è segno del dono della vita nuova del Figlio che ha vinto la morte (8,1-4); quello del servo del centurione guarito è segno della fede nella sua parola, sorgente della vita nuova (8,5-13); quello della suocera di Pietro, che serve, è segno del contenuto di questa vita nuova: amare e servire come Gesù il Servo (8,14-17). Chi legge i miracoli fermandosi al segno è come lo stolto che, se gli indichi la luna, ti guarda la punta del dito.

Noi ci siamo allontanati da Dio. Ci siamo volti verso gli idoli e siamo diventati come loro: vacuità di vita, con il corpo segnato dalla morte (= lebbra) e le varie membra – piedi, occhi, mani, bocca, orecchi ecc. – che ne sono infette e servono solo a diffonderla (cf Sal 115,4-8). Non può essere che così, e consideriamo questa situazione come normale. I miracoli ci presentano quell’impossibile a cui nel nostro profondo da sempre aspiriamo. Il racconto ci fa da specchio, e serve a liberare in noi il desiderio della nostra verità: ci mostra che il bene, per cui siamo fatti, è possibile, reale e donato.

Gesù come Mosè scende dal monte. Ma non più con una parola da osservare – già trasgredita prima di essere data -, ma come Parola compiuta: è il Figlio, perfetto come il Padre (5,48), che fa grazia ai fratelli. Quanto ha detto non è legge, ma vangelo. Se la legge denuncia e condanna il peccato – o addirittura fa venire la lebbra, come a Maria che invidia il fratello Mosè (Nm 12,1-10) -, la parola di Gesù è un fiume di acqua viva: chi si immerge e “si battezza” in essa, ne esce purificato, mondo dalla lebbra, dal peccato e dalla morte, con la carne fresca di un bambino (2Re 5,14).

Guarire dalla lebbra è azione esclusiva di Dio, padrone della vita e della morte (2Re 5,7): Gesù, con la Parola appena detta sul monte, rigenera a vita. È il Signore! Questo primo miracolo contiene gli altri, che ne saranno specificazione e articolazione: è il passaggio battesimale, la risurrezione alla condizione di figli operata dalla Parola. Il lebbroso guarito è figura di ogni uomo che accorre da Gesù per ricevere il dono di una vita finalmente libera dalla morte. Tutti morti a causa del peccato, “privi della gloria di Dio” (Rm 3,23), siamo gratuitamente vivificati dalla sua grazia.

C’è stretta connessione tra miracolo, parola e “tocco”. L’uomo è trasformato dalla parola che gli tocca il cuore. I miracoli defatalizzano la storia e la sdemonizzano, facendo brillare davanti ai nostri occhi la libertà alla quale aspiriamo. Ci ripresentano l’uomo vivo, a immagine di Dio, restituito alla sua dignità.

Gesù è stato prefigurato in Mosè. Per mezzo di questi fu data la legge, per mezzo suo la grazia della verità, dalla cui pienezza tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia (Gv 1,16s).

La Chiesa nasce dall’immersione (= battesimo) in lui e nella sua parola. Unita a lui, diventa come lui, partecipe del suo Spirito di Figlio.

25. TROVAI TALE FEDE
8,5-13

Presso nessuno in Israele trovai tale fede”. Gesù costata che solo un pagano crede senza esitazione al potere della Parola (cf 27,54). E si stupisce! Di due cose il Signore si meraviglia: della nostra fede (v. 10; 27,54) e della nostra mancanza di fede (Mc 6,6). Ambedue sono per lui qualcosa di inedito, con il carattere del “meraviglioso” o del “mostruoso”. La nostra libertà lo sorprende: pone infatti qualcosa di imprevedibile, nuovo anche per lui. Dio non ce la toglie mai, neanche quando è contro di lui e contro di noi – il che per lui è peggio. È il dono più bello del creato, che rende la creatura simile al suo Creatore.

Radicalmente la libertà si esprime nella fede o nella sfiducia, nel nostro acconsentire o meno alla comunione con lui.

Siamo al secondo dei dieci prodigi. Il primo rivela il risultato ultimo della sua parola: guarire la nostra vita dalla lebbra che la avvelena di morte. Questo secondo ne rivela la sorgente prima: il nostro credere ad essa.

I miracoli sono dei segni naturali che hanno un significato spirituale. Il segno è importante, anzi necessario, come le lettere dell’alfabeto per scrivere; ma ciò che conta è leggere cosa è scritto. Noi, feticisticamente, diamo importanza più ai miracoli che al loro significato: siamo attaccati al vantaggio materiale immediato che ne abbiamo. Ma i miracoli, visti in questo modo, non hanno grande valore. Non cambiano la realtà, se non momentaneamente: chi è guarito tornerà ad ammalarsi, chi è risuscitato tornerà a morire di nuovo – come non bastasse la crudeltà di vivere e morire una volta! Ciò che vale non è il segno, che è transitorio e può anche essere piccolo, ma il significato, che è grande ed eterno. Questo è in genere espresso da una parola di Gesù che, mentre guarisce il corpo, spiega ciò che questa guarigione significa.

Il miracolo è quindi un segno visibile di cui bisogna leggere il significato, invisibile. Questa capacità di lettura “simbolica” distingue l’uomo dall’animale. Una rosa rossa per una capra è semplicemente qualcosa da mangiare; per una donna significa il cuore di chi gliela dona.

Il miracolo può essere letto a vari livelli.

A una prima lettura è un portento, qualcosa di insolito che richiama l’attenzione e fa pensare a un intervento di Dio. È un irrompere del soprannaturale nel naturale, segno del divino che si manifesta nella storia.

A una seconda lettura è segno del mondo nuovo, raggio anticipato del sole della risurrezione. Ogni miracolo significa un aspetto della nostra trasformazione a sua immagine: Gesù sana i nostri piedi per camminare come lui, le nostre mani per accoglierlo, i nostri sensi per ascoltarlo, vederlo, odorarlo, toccarlo e gustarlo.

A una terza lettura è segno dell’amore di Dio che interviene in nostro favore. Egli non è insensibile al nostro male, perché ci è padre/madre.

A una quarta lettura il miracolo è segno della nostra fiducia: Dio è per noi, e tutto vuol donarci, anche se stesso. Aspetta solo che noi lo chiediamo con fede. Questa è alla fine il vero miracolo, che ci porta ad accogliere i doni di Dio, e Dio stesso come dono. Essa ci guarisce dalla diffidenza di Adamo.

A una quinta lettura, più profonda, propria di chi è illuminato, ogni creatura, anche minima e insignificante, è vista come segno dell’amore infinito del Creatore.

Il presente miracolo tematizza la fede nella Parola, che permette al Signore di agire in noi. Questo centurione, pagano come Abramo, è il padre dei credenti, figura della Chiesa, che, a distanza di spazio e di tempo, per la fede nella parola di Gesù detta sul monte, ne sperimenta la forza trasfigurante. Sia per Israele che per gli altri, è il credere alla promessa di Dio che viene accreditato a giustizia (Gen 15,6) e rende figli di Abramo, eredi della promessa (cf Gal 3,29).

Il miracolo è preceduto da un dialogo che illustra le caratteristiche della fede. Essa è coscienza del male che non cede né alla delusione dell’impotenza né all’illusione dell’onnipotenza; è umiltà che non si deprime, ma anzi si apre all’impossibile.

Gesù, oltre che lodare la fede del pagano, rimprovera chi ha ridotto la fede di Abramo a semplice bandiera, a talismano di salvezza, a feticcio in cui porre la propria sicurezza, senza aprire il cuore a Dio.

L’incredulità di Israele – o, meglio, di parte di esso – è profezia permanente per la Chiesa. Non basta appartenere ad essa per entrare nel banchetto (cf 13,47-50). Se è stato reciso l’olivo, a maggior ragione sarà reciso l’olivastro innestato, se non porta il frutto della fede (Rm 11,16-24).

Gesù è la Parola di Dio viva ed efficace (Eb 4,12). Per questo le sue parole sul monte hanno “l’autorità” (7,29) di operare quello che dicono.

La Chiesa è discendenza di Abramo mediante la fede (Gal 3,14.29). Essa è costituita innanzitutto da giudei e poi da pagani, da quanti credono nella Parola.

26. EGLI PRESE SU DI SÉ LE NOSTRE INFERMITÀ’
8,14-17

Egli prese su di sé le nostre infermità”. Con queste parole del quarto canto del Servo (Is 53,4), Matteo interpreta l’attività terapeutica di Gesù.

I miracoli sono segno della potenza di Dio. Ma la sua potenza è la debolezza della misericordia: la sua impotenza di crocifisso è la forza che rifà il mondo nuovo! Sorgente del suo agire è il suo com-patire – e “la compassione uccide”. Ogni azione che non nasce da qui non libera l’uomo: è solo esercizio di potere su di lui.

Il brano si articola in tre parti: la guarigione della suocera di Pietro che lo serve (v. 14s), un sommario dell’attività di Gesù che di sera guarisce tutti (v. 16) e l’interpretazione della sua attività come compimento della profezia sul Servo (v. 17).

Il primo miracolo, quello del lebbroso, è segno della vita nuova che Gesù porta; il secondo, quello del centurione, è segno della fede, che l’accoglie; questo terzo, con il sommario che segue, mostra l’origine e il fine dei miracoli: il servizio del Servo che ci rende capaci di servire.

Il tema è quello del servizio, espressione concreta dell’amore, principio e fine dell’attività di Gesù. Lui è il Servo che ci serve caricando su di sé il nostro male; e noi a nostra volta, serviti da lui come la suocera di Pietro, diventiamo come lui, capaci di servire: “Amatevi come io vi ho amati” (Gv 13,34) è il comando “nuovo” di Gesù. Il dono dello Spirito del Figlio ci dona di fare agli altri ciò che vorremmo che gli altri facessero a noi. Questa è la legge e i profeti (7,12).

In questo breve testo si dice il principio, il mezzo e il fine dell’azione di Dio per noi: il principio è lui stesso, che è amore, compassione e servizio; il fine è farci come lui, capaci di servire; il mezzo è il servizio di Gesù. Il servizio è quindi principio, mezzo e fine di ogni miracolo, che ci rende simili a lui, liberi di servire e amare. Questo è il mondo nuovo che Gesù porta.

Gesù, il Figlio uguale al Padre, è venuto a liberare la nostra capacità di amare e servire con il servizio della sua croce, dove tutto è compiuto (Gv 19,30).

La Chiesa è raffigurata dalla suocera di Pietro: serve perché è servita, ama perché è amata. Si lascia lavare i piedi da Gesù, e così ha parte con lui (Gv 13,8).

27. SEGUIRÒ TE. SEGUI ME
8,18-22

Seguirò te”, dice uno scriba a Gesù; “Seguimi”, dice Gesù a un discepolo. Le due scene fanno vedere la differenza tra lo scriba e il discepolo. Il primo si mette liberamente a scuola del maestro che lui stesso sceglie per imparare la Parola da seguire, e diventare a sua volta maestro; il secondo è chiamato direttamente da Gesù a seguire lui.

Gesù non è il maestro, ma la Parola stessa, il Signore, che viene “prima” di tutto. Ciò che per lo scriba è Dio e la sua legge, per il discepolo è Gesù e il suo cammino: l’unico tesoro, l’unico affetto della vita.

Matteo è uno scriba diventato discepolo: ha trovato la novità assoluta, il tesoro, la perla preziosa, e con gioia vende tutto per entrarne in possesso (13,52.44-46).

Il tema del brano è seguire Gesù. I tre miracoli precedenti ci mostrano ciò che in noi opera la sua parola. Tutto questo si realizza nel seguire lui: la fede nella sua Parola ci libera dalla lebbra e ci rende capaci di fare il suo stesso cammino di servizio ai fratelli.

Solo chi lo segue giunge “all’altra riva”, porta a compimento la traversata che tutti dobbiamo fare. Diversamente naufraga.

A questo punto il lettore è chiamato a sbilanciarsi doppiamente. Da scriba è chiamato a diventare discepolo, investendo tutto in colui che è non solo il maestro, ma il Signore. E, diventato discepolo, è chiamato a superare ogni velleitarismo, amando lui, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente (22, 37s; Dt 6,4s). Questa è la vita (Dt 30,20), il dono che lui fa al suo discepolo.

Gesù è il Signore.

La Chiesa lo riconosce come unico bene e lo vive come suo primo e unico amore.

28. PERCHÉ SIETE PAUROSI, O VOI DI POCA FEDE
8,23-27

Perché siete paurosi, o voi di poca fede!”, dice Gesù ai discepoli che l’avevano seguito nella traversata.

Paura e fiducia sono due sentimenti opposti che si contendono il cuore dell’uomo. La prima lo blocca, la seconda lo fa camminare. Crescendo l’una, cala l’altra e viceversa. Sta a noi favorire la fiducia e tenere a bada la paura. Questa viene dalla coscienza del limite e conta su ciò che noi possiamo, quella viene dalla conoscenza che Dio ci è Padre e conta su ciò che lui può.

I discepoli lo hanno seguito, ma non sanno ancora che devono posare il capo anche sul mare in tempesta. Non è il padre che bisogna seppellire, ma le proprie paure. Diversamente non si giunge all’altra riva.

La traversata di Gesù con i suoi discepoli è immagine dell’esistenza umana. La barca è la comunità, dove lui sta con noi. Deve passare difficoltà, burrasche e tempeste. Prima o dopo tutti andiamo a fondo. È l’unica certezza. Numerosi anticipi ce la richiamano, se per caso la dimenticassimo.

Le situazioni limite, come evidenziano la pochezza, così stimolano la crescita della fede. I momenti di crisi – fino a quella crisi ultima – sono il luogo stesso della fede. Diversamente non serve per vivere una vita libera dalla paura della morte, la cui vista, come una Gorgone, ci pietrifica.

Una fede che non si misura con la morte, non passa per la verità dell’uomo che è “humus” (terra), ed è incapace di dare senso positivo al suo essere al mondo. La morte resterebbe il tiranno che la governa. Se si vuol giungere all’altra riva, va sdemonizzato il mare, l’abisso e la stessa morte. È quanto fa il Signore che “dorme” e “si sveglia”, che muore e risorge, per rompere definitivamente il muro che separa la nostra realtà di morte dal suo desiderio di vita.

Il racconto è una scena battesimale. È quel battesimo che si compie nell’arco di tutta la nostra storia personale e comunitaria, e ci immerge (= battezza) sempre più nel Signore, fino a quando, alla fine, ci fa entrare, con lui che “dorme”, nella sua stessa morte per uscirne con la sua stessa vita (cf Rm 6,1-11).

Gesù è colui al quale il vento ed il mare obbediscono. Lui ha “dormito” con noi e si è “risvegliato” per noi. Il suo sonno è la fiducia di chi posa il capo in seno al Padre. Per questa sua fede “si risveglia” nella potenza di Dio, dominatore del mare. Anche noi possiamo avere fiducia in lui: è il Signore che salva. Ma non “dalla” morte – sarebbe un’illusione, perché sappiamo di essere mortali!- bensì “nella” morte, offrendoci il risveglio a una vita nuova che va oltre la stessa morte.

La Chiesa è la comunità di coloro che sono battezzati nella sua morte, per aver parte alla sua medesima vita (cf Rm 6,3-11). Lo seguono e sono con lui sulla stessa barca: sia che veglino sia che dormano, vivono ormai sempre con il Signore (1Ts 5,10).

29. ANDATE
8,28-34

Andate!”, dice Gesù ai demoni, che entrano nei porci e finiscono nell’abisso. È il primo esorcismo di Matteo. Appena sedata la tempesta che spaventa i discepoli, Gesù vince la radice stessa della paura: riduce all’impotenza colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e libera così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita (Eb 2,14s). Il Signore che “dorme e si risveglia” quieta il mare: placa il terrore della morte e fa finire nell’abisso colui che ne turba le acque.

Diavolo significa “divisore”: con la menzogna divide l’uomo dalla sua verità di figlio e di fratello. Gli indemoniati sono “posseduti”, non padroni di sé, in balìa del nemico: dimorano nei sepolcri e terrorizzano i passanti. Anche se non “assatanati”, pure noi siamo posseduti dall’ignoranza della verità, divisi dalla realtà, estranei a tutto e a tutti. L’esorcismo ci restituisce a noi stessi, alla nostra libertà.

Gli esorcismi sono parte essenziale dell’attività di Gesù. Il male non è più fatale: abbiamo la possibilità, quindi la responsabilità, di vincerlo. Sempre saremo esposti ad esso e ne avremo paura. Ma un conto è averla, un altro esserne avuti; un conto è essere vulnerabili, un altro essere feriti o addirittura uccisi.

Il brano ci presenta prima l’incontro di Gesù con gli indemoniati (vv. 28-29), poi la richiesta dei demoni e il loro precipitare nel mare (vv. 30-32) e infine l’annuncio dei mandriani con la reazione dei Gadareni (vv. 33-34).

L’esorcismo è compiuto mediante la Parola: la semplice verità sbugiarda la menzogna. Se l’incredulità ci fa figli del padre della menzogna, omicida fin dal principio (Gv 8,44) – per sua invidia è entrata la morte nel mondo (Sap 2,24) -, la fede nella Parola ci fa figli del Padre della vita.

Nella misura in cui abbiamo fede, non siamo schiavi della paura. La nostra “poca fede” è comunque sempre insidiata dall’incredulità. L’esorcismo è una lotta tra diffidenza e fiducia, che dura tutta l’esistenza; si concluderà alla fine, quando necessariamente ci affideremo al Padre della vita.

Gesù, nel suo “dormire e risvegliarsi”, è la Parola che vince la menzogna, la luce che sconfigge le tenebre, la fiducia nel Padre che toglie la paura della morte e ci offre un’esistenza libera, filiale e fraterna.

La Chiesa prosegue la stessa lotta. Il nemico, seppure in fuga, è ancora attivo. Solo alla fine sarà precipitato nel mare.

30. IL FIGLIO DELL’UOMO HA POTERE SULLA TERRA
DI RIMETTERE I PECCATI
9,1-8

Il Figlio dell’uomo ha potere sulla terra di rimettere i peccati”. Gesù dice espressamente per l’unica volta il “perché” dei suoi miracoli: sono un segno per mostrare sulla terra il potere di Dio, quello di perdonare i peccati.

Peccare è fallire il bersaglio, non raggiungere il proprio fine. I nostri continui fallimenti ci avvolgono come un bozzolo, che alla fine ci incapsula come mummie. Quando pensiamo a Dio, subito pensiamo a una legge che giudica e punisce il male. Sentiamo il dovere di osservarla, la colpa di trasgredirla e la necessità di espiare. Dovere, colpa ed espiazione sono tipici di ogni re-ligione, che lega e ri-lega l’uomo, come suo eterno destino.

Ma Dio non è legge, e noi non abbiamo debiti con lui: è lui che ne ha con noi. Ci ha fatti per amore, e ogni nostro male è un “suo” fallimento, di cui soffre. Come i genitori con i figli, lui si mette in questione se noi stiamo male o sbagliamo. L’amore infatti non accampa diritti: riconosce i bisogni dell’amato come diritti suoi e doveri propri. Gesù, il Figlio che conosce il Padre, “deve” dare la vita per questo mondo di peccato: è venuto sulla terra per portare ai fratelli nel suo perdono quello del Padre.

Questa è una bestemmia. Gesù si fa uguale a Dio, l’unico che perdona. E per di più senza condizioni: non ci perdona perché siamo convertiti, ma possiamo convertirci a lui perché lui per primo si converte a noi – anzi, con mitezza somma, si addossa la colpa di averci abbandonati e ci chiede scusa (cf Is 54,7-10). Gesù, il Figlio dell’uomo, invece di giudicare assolve, invece di condannare perdona, invece di punire espia per gli altri. Proprio per questo sarà giudicato, condannato e giustiziato sulla croce, da dove tutti ci assolve, perdona e libera. Solo così rivela sulla terra il potere di Dio.

La legge giustamente condanna le trasgressioni; ma se Dio perdona, chi più è garante di un agire corretto? Il vangelo ci presenta una “giustizia superiore” (5,20), che è quella del Padre che fa piovere la sua luce e la sua benedizione su tutti i suoi figli, cattivi o buoni che siano (5,45).

I miracoli rifanno l’uomo nuovo (8,1-4: il lebbroso), vengono dalla fede (8,5-13: il centurione), conducono al servizio (8,14s: la suocera), hanno la loro fonte nel “Servo” (8,17) che dorme e si risveglia per vincere la nostra paura della morte (8,23-27: la tempesta sedata), affogando il male che con essa ci tiene schiavi per tutta la vita (8,28-34: l’esorcismo). Ora il vangelo mostra come la vita nuova è essenzialmente perdono: la legge ci crocifigge al nostro male, il perdono ci risveglia e incammina verso casa.

Perdonare è miracolo più grande che risuscitare un morto. Lazzaro, una volta risuscitato, morirà ancora. Perdonare invece è nascere e far nascere a vita immortale – la stessa di Dio, che è amore ricevuto e accordato senza condizioni. Il perdono è l’esperienza di un amore più grande di ogni male; esso rivela insieme l’identità di Dio, che ama senza misura, e quella dell’uomo, suo figlio, sempre e comunque amato.

Il perdono è parte integrante dell’annuncio di morte/resurrezione di Gesù: ne è il significato (Lc 24,46s). La prova che Cristo è risorto, per Paolo consiste nell’esperienza di una vita riscattata dal peccato (1 Cor 15,17).

Le prime parole che Dio disse ad Adamo sono: ”Dove sei?” L’uomo non era più al suo posto, perché si era nascosto da lui. Lontano da lui, è lontano da sé e dagli altri, estraneo a tutto. Perché “Dio è il suo posto”. Nel perdono ritrova lui, e in lui se stesso e il suo posto nel mondo.

Il peccato è divisione, e la divisione è morte; il perdono ristabilisce comunione di vita ancor più profonda là dove c’era stata divisione.

Gesù è venuto sulla terra a portare il giudizio di Dio – il suo potere di legiferare, giudicare e far giustizia. E fa tutto questo nel perdono. Questa bestemmia, che sblocca l’uomo dalla sua paralisi, inchioderà il Figlio dell’uomo sulla croce.

La Chiesa è fatta da coloro che hanno accolto questo perdono e lo accordano agli altri: sono figli che vivono la misericordia del Padre, suoi ambasciatori presso tutti i fratelli (2 Cor 5,14-6,2).

31. NON SONO VENUTO A CHIAMARE I GIUSTI, MA I PECCATORI
9,9-13

Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori!” Il paralitico che cammina è segno del grande miracolo: il peccatore è chiamato a seguire Gesù. Rimesso in piedi dal perdono, può entrare in casa sua e accogliere chi lo ha accolto, insieme a tanti fratelli, come lui bisognosi di perdono e accoglienza.

Continua il tema iniziato nel brano precedente: la legge denuncia il peccato e punisce il peccatore, mentre il Signore rimette il peccato e accoglie il peccatore. Dio non è legge, ma amore; non è sanzione e punizione, ma perdono e medicina. La nostra miseria è il nostro titolo ad accogliere lui, misericordia senza limiti.

Il peccato non esclude dal regno. Rappresenta anzi un “privilegio” in due sensi: Dio ama di più il peccatore, perché ha più bisogno, e anche il peccatore lo amerà di più, perché ha ricevuto maggiore amore (Lc 7,36-50). Il malato, più è grave, più ha diritto del medico e maggiori sono i doveri di questi nei suoi confronti. Così il peccatore, più è lontano, più ha diritto di misericordia e maggiori sono i doveri di Dio nei suoi confronti. Inoltre il suo peccato non gli impedisce l’esperienza di Dio: anzi, proprio in esso lo chiama per il suo vero nome, che è Gesù, Dio-salva (1,21; cf Lc 1,77).

Il brano si articola in tre parti. Nel v. 9 Gesù chiama il pubblicano, identificato con Matteo; nel v. 10 Gesù, con i suoi discepoli, entra in casa sua e si fa commensale con lui e con altri suoi colleghi; nei vv. 11-13, all’obiezione dei farisei contro i discepoli, Gesù risponde dichiarando la sua missione di salvatore, che risponde al suo nome.

In questo brano si presenta un problema costante nella Chiesa: i “giusti”, come il fratello maggiore di Lc 15, stentano ad accettare i peccatori. Lo fanno con fatica, e solo se questi si convertono e si sforzano di diventare bravi. Gesù invece accetta quelli non ancora convertiti. Non perdona il peccatore perché si converte; lo perdona prima, perché possa convertirsi.

Difficile per il Signore non è convertire quelli di Ninive alla penitenza, ma Giona, il giusto, al perdono. Dio è amore e grazia. Il peccatore facilmente lo riconosce, perché ne ha bisogno. Il giusto invece gli resiste con tutte le forze. Deve prima accettare il peccatore come suo fratello, suo gemello, anzi come se stesso, addirittura come il suo Signore che si è fatto maledizione e peccato per lui (Gal 3,13; 2 Cor 5,21); solo allora conosce Dio e si converte alla “giustizia superiore” (5,20), quella del Dio misericordioso, di grande amore, clemente, longanime, che si lascia impietosire (Gn 4,2). Se esclude dal suo banchetto il peccatore, esclude il Signore stesso, che banchetta con i peccatori.

Il nostro unico titolo di merito nei confronti del Dio-che-salva è la nostra perdizione.

Gesù chiama tutti, ed è commensale con i peccatori non solo convertiti, come Matteo, ma anche con gli altri. Anche Matteo non fu chiamato perché convertito, ma si convertì perché chiamato. Lui è nostro medico proprio con il suo essere con noi peccatori: la sua vicinanza è la medicina.

La Chiesa non è fatta di giusti, ma di peccatori perdonati, sempre bisognosi di ricevere e dare perdono. I cristiani non vivono della propria giustizia, ma della sua “grazia”: graziati dal Signore, usano grazia gli uni verso gli altri (Ef 4,32).

32. LO SPOSO È CON LORO
9, 14-17

Lo sposo è con loro” , risponde Gesù: per questo i suoi discepoli non digiunano. Nella sua carne è indissolubilmente unita divinità e umanità, si celebrano le nozze tra l’uomo e Dio.

In casa di Matteo il peccatore, oltre i discepoli e altri peccatori, ci sono anche i farisei (cf brano precedente) e i discepoli di Giovanni: tutti sono presenti alle nozze dell’Agnello, che porta su di sé il peccato del mondo (Gv 1,29). Nessuno è escluso dalla festa, perché egli è il principio e il fine della creazione: per lui e in vista di lui tutto è stato fatto e tutto sussiste in lui (Col 1,16s), vita di quanto esiste (Gv 1,3b-4). Il Signore che mangia con tutti, peccatori convinti o meno, è il riposo di Dio nella sua creazione e della creazione nel suo Dio. Nascono i cieli nuovi e la terra nuova, dove ha stabile dimora la giustizia di Dio (2Pt 3,13).

Il racconto usa parole primordiali, di immediata comprensione, quali il cibo e il digiuno, l’amore e il vestito, il vino e gli otri. Con Gesù è finito il digiuno, e inizia il banchetto nuziale (vv. 1415a), anche se la sua morte comporterà un digiuno attraverso cui passare per giungere alla meta (v. 15b). La vita nuova che lui porta non è un aggiustamento di quella vecchia (v. 16); c’è finalmente qualcosa di nuovo sotto il sole (Qo 1,9): il vino nuovo (v. 17), lo Spirito nuovo promesso dai profeti (Ez 36,26), effuso nei nostri cuori (Rm 5,5), che esige e dona un cuore nuovo.

Le metafore illustrano, con semplicità divina, la bellezza della vita nuova e la sua inconciliabilità con quella vecchia.

In casa di Matteo, noi peccatori siamo chiamati al banchetto di nozze. Su quanti siedono alla mensa del Figlio, si riversa ogni dono di Dio. L’uomo conosce digiuno, solitudine, nudità, sopore e ovvietà di morte, perché è fame di amore, vestito, ebbrezza, novità e vita. La venuta del Signore sazia questa fame, antica come l’uomo stesso.

Gesù è il cibo, lo sposo, il vestito nuovo, il vino migliore riservato alla fine. In lui ci è donato tutto ciò che Dio è.

La Chiesa non digiuna: fatta di peccatori, fa eucaristia per il dono del perdono di cui perennemente vive e gioisce.

33. LA TUA FEDE TI HA SALVATA
9, 18-26

La tua fede ti ha salvata”, dice Gesù alla donna che lo tocca e guarisce. Subito dopo, lui stesso tocca la fanciulla e la risuscita. Sono due miracoli a sandwich, da leggere insieme, come due aspetti di un’unica realtà. Il racconto della donna, posto nel mezzo, dice che cos’è la fede: toccare Gesù; il racconto della fanciulla morta e risorta, posto all’inizio e alla fine, dice cosa dà la fede: fa passare dalla morte alla vita.

“Toccare”, forma prima e ultima del conoscere, è andare oltre il proprio limite, entrare in comunione e scambio con l’altro. La fede è “toccare” il Signore della vita, che a sua volta ci “tocca” – e il suo tocco è il dono stesso della vita. Non si evita la morte – siamo mortali! – , ma, proprio in essa, si è presi per mano da colui che ci risveglia: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà” (Gv 11,25). Infatti “chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno” (Gv 11,26). La salvezza del Cristo risorto è già presente nella comunità come vita affrancata dalla paura della morte e libera dall’egoismo.

Come le due donne, ciascuno di noi è chiamato a sperimentare il tocco di Gesù. Questo “tocco” è lo Spirito Santo, dito di Dio, che scrive nel nostro cuore il suo nome e lo ferisce col suo amore: è la fede che ci fa amare come siamo amati, ci fa vivere in comunione con lui, sia che vegliamo sia che moriamo (1Ts 5,10).

La salvezza dalla morte è “il problema” dell’uomo. Ogni suo sapere e agire altro non è che un vano tentativo di sconfiggere la sovrana incontrastata di tutto e di tutti.

Il Signore, che con noi sulla barca ha dormito e si è svegliato, placa il mare e la nostra paura di andare a fondo. Ora, con lui risorto, sciolti dallo spirito del male, dalle nostre paralisi e peccati, siamo chiamati a mangiare con lui, lo sposo; anzi, a toccarlo e a vivere del suo tocco. Così, con-morti, con-sepolti e con-risorti con lui, possiamo già ora vivere la stessa vita nuova di colui che è morto, sepolto e risorto per noi (cf Rm 6,1-11; Col 2,12-15). “Toccando” lui che “prende” la nostra mano, usciamo dal lutto del digiuno ed entriamo nel banchetto delle nozze.

Matteo, come al solito più sobrio di dettagli rispetto agli altri sinottici, rileva con essenzialità i temi connessi del morire, del toccare (fede), del salvare e del risorgere.

Gesù libera quelli che abitano nelle tenebre e nell’ombra di morte (4,16; Is 9,1ss). È il Messia, che porta il regno di Dio: i morti risorgono.

La Chiesa è raffigurata dalle due donne, figlie di Sion, delle quali una tocca il Signore e l’altra è presa per mano da lui.

34. AVVENGA A VOI SECONDO LA VOSTRA FEDE
9,27-34

Avvenga a voi secondo la vostra fede”, dice Gesù ai due ciechi, guarendo subito dopo il muto. La fede è vista, l’incredulità cecità. In forza della fede, colui che, come Zaccaria, era rimasto muto a causa dell’incredulità, può parlare (cf Lc 1,20).

I due miracoli, ultimi della serie dei dieci prodigi e punto di arrivo dell’attività di Gesù, descrivono la fede come visione e parola. La vita nuova culmina nell’illuminazione, che ci fa vedere la nostra realtà e ci rende capaci di esprimerla. Vedere è nascere, venire alla luce. La fede nella Parola ci fa nascere come figli, in grado di comunicare coi fratelli.

Così si compie la missione del Figlio, primo apostolo inviato ai fratelli. Quelli che a loro volta sono illuminati, la continuano nei confronti degli altri.

“Svegliati, o tu che dormi, destati dai morti, e Cristo ti illuminerà” (Ef 5,14). Tutte le religioni cercano l’illuminazione. Questa non è frutto di esercizi strani, ma di occhi nuovi; non consiste nel vedere cose nuove, ma nel vedere nuove tutte le cose, con gli occhi del Figlio. Chi ha il cuore del Figlio, ovunque vede l’amore del Padre. Invece delle proiezioni delle proprie paure, scorge ovunque la bellezza del suo volto: si sveglia dall’incubo della notte e viene alla luce. Finalmente libero dalla menzogna, conosce la verità ed è in grado di parlare “correttamente” (Mc 7,35). Guarito dalla cecità e dall’afasia, può dire, con gioia sua e altrui, ciò che ha udito, visto e toccato dal Verbo della vita (1Gv 1,2-4).

I ciechi, illuminati dalla Parola, saranno a loro volta luce del mondo (5,14). Subito dopo, al c. 10, ci sarà la missione dei Dodici, i primi che hanno avuto occhi nuovi e bocca nuova per proclamare le meraviglie di Dio (At 2,11).

Il brano si articola in due parti: i vv. 27-31 raccontano la guarigione dei due ciechi, i vv. 32-34 quella del muto e il diffondersi della Parola, che porta all’accettazione o al rifiuto di Gesù, all’illuminazione o all’accecamento del cuore. Lui è venuto per fare un giudizio: perché chi è cieco veda, e chi crede di vedere diventi cieco (Gv 9,39).

Gesù, luce del mondo (Gv 8,12), Parola eterna del Padre, è il Figlio, primogenito di una numerosa schiera di fratelli (Rm 8,29) illuminati alla sua luce.

La Chiesa, accesa dal fuoco che lui ha donato il giorno di Pentecoste, è luce del mondo (5,14), e trasmette ai fratelli la Parola che guarisce e rigenera a vita filiale e fraterna.

35. SUPPLICATE DUNQUE IL SIGNORE DELLA MESSE
9, 35-38

Supplicate dunque il Signore della messe, perché getti fuori operai nella sua messe”, dice Gesù ai suoi discepoli prima di inviarli a continuare la sua stessa opera.

Il discorso sulla missione è introdotto allo stesso modo del discorso sul monte (9,35=4,23). La parola e l’azione del Figlio diventano sorgente della parola e dell’azione dei suoi fratelli: ciò che lui ha detto e fatto, è quanto i discepoli continueranno a dire e a fare. Unica è la missione: quella del Padre che manda il Figlio ai fratelli, perché nella fraternità sua e tra di loro diventino figli. I discepoli, dopo di lui, sono chiamati a trasmetterla nello spazio e nel tempo. “Come il Padre ha mandato me, così anch’io mando voi” (Gv 20,21).

La storia è storia di missione: l’unico amore, che è la vita di tutto, “spinge” il Padre verso il Figlio e il Figlio verso il Padre. Ma il Figlio non può amare il Padre, se non ama come lui i fratelli. Per questo va verso di loro, per ricondurli dall’esilio alla casa paterna. L’apostolo, a sua volta, è spinto dal medesimo amore (2Cor 5,14). Mediante la fraternità ognuno diventa figlio: amando i fratelli, ama il Padre, il cui amore è amare il Figlio e in lui tutti i suoi figli. La missione ricostruisce l’unione degli uomini nell’unico Figlio del Padre. La Trinità, che è in cielo, si realizza sulla terra nell’amore reciproco, fino a quando Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28). Allora il Signore sarà “uno” su tutta la terra (Zc 14,9), che finalmente diventerà il riflesso della Gloria.

Matteo riunisce nel discorso sulla missione anche quanto gli altri sinottici dicono sull’identità del discepolo e sulla sua vocazione. Vocazione e missione sono sempre congiunte: la mia “vocazione” di figlio si realizza nella “missione” verso i fratelli – il nome è sempre relazione all’altro.

Questi versetti allacciano la missione della Chiesa a quella di Gesù, che si esplica nell’annuncio del regno e nella cura dell’uomo (v. 35), e ha nella compassione la sua sorgente (v. 36). La messe è matura: è impellente che ci siano operai a raccoglierla, perché non vada rovinata (v. 37). Bisogna pregare, entrare in comunione col Padre, per diventare figli ed essere inviati verso i fratelli (v. 38).

Gesù è il primo apostolo, il Figlio inviato ai fratelli dalla compassione del Padre.

La Chiesa è apostolica non solo perché ha negli apostoli – e, attraverso di loro, in Gesù, primo apostolo – la propria origine, ma anche perché è fatta di figli che si sentono inviati ai fratelli. Come Paolo, ogni credente è spinto verso i lontani dallo stesso amore di Cristo, che ha dato la vita per tutti (2Cor 5,14).