Lectio divina sul Vangelo di Matteo
Capitoli 1-4
Testo doc Fausti – Matteo Cap 1-4
Testo pdf Fausti – Matteo Cap 1-4
dal libro di Silvano Fausti,
“Matteo. Il Vangelo della Comunità”
Messaggio del testo nel contesto
INTRODUZIONE
La Sacra Scrittura è come uno spartito, la cui musica esiste solo dove e come è eseguita. Chi cerca di leggerla, interpretarla e attualizzarla, ne è letto, interpretato e attualizzato. Infatti la parola di Dio è viva ed efficace, scruta i sentimenti e i pensieri del cuore, e tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi (Eb 4,12s).
Il vangelo racconta quanto Gesù dice o fa per qualcuno. Quel qualcuno è il lettore stesso, chiamato a fare in prima persona l’esperienza di ciò che è narrato: la Parola fa quello che dice, per chi l’accoglie con fede (cf 1Ts 2,13).
L’interesse al racconto può essere a tre diversi livelli.
Può essere rivolto al testo, per vedere come esattamente è, qual è la sua storia, la sua struttura, il suo stile, ecc. È un passo previo. Chi però si ferma qui è come uno che vuol mangiare la parola “pane” invece del pane. Non sazia molto!
Può essere anche rivolto a cosa dice il testo: qual è il suo messaggio, come capirlo e vivere oggi, ecc. È un secondo gradino, anche questo necessario, ma non sufficiente. Chi si ferma qui è come un figlio che mangia del pane senza sapere che viene dai genitori. Neppure questo sfama.
Può essere infine rivolto al Signore: oltre al testo e a ciò che dice, si è attenti a colui che dice quel testo. Tutta la Scrittura è una lettera che il Padre ha inviato a ciascuno dei suoi figli; dietro ogni parola c’è chi parla, e il suo dirsi è un darsi. Chi raggiunge questo terzo livello, ha trovato ciò di cui ha fame.
Il vangelo di Matteo, nella sua forma attuale – la tradizione parla di un Matteo ebraico, a noi ignoto – è nato probabilmente in ambiente palestinese o siriano (Antiochia di Siria?) circa l’anno 80. Scritto in buon greco da un giudeo ellenistico, mostra come Gesù, il Figlio di Dio morto e risorto, sia il compimento della promessa di Dio fatta ad Israele. È attribuito fin dall’inizio a Matteo, chiamato ad essere discepolo mentre stava seduto al banco delle imposte (Mt 9,9; 10,3; Lc 5,27; Mc 2,14 lo chiama Levi).
Escludendo i due capitoli iniziali, Matteo usa per lo più lo stesso materiale di Marco e Luca, riportando parole e azioni compiute da Gesù nel breve periodo che va dal suo battesimo alla sua pasqua. La sua particolarità è aver organizzato il tutto secondo i vari argomenti, condensandolo in cinque grandi discorsi seguiti da altrettante parti narrative che li illustrano.
Il discorso sul monte (cc.5-7) contiene la “Parola” del Figlio ai fratelli; il discorso della missione (c.10) la porta a tutti gli uomini, cominciando da Israele; il discorso in parabole (c.13) mostra come essa agisce nel mondo; il discorso sulla comunità (c.18) fa vedere come si realizza nella quotidianità dello stare insieme; il discorso escatologico (cc.24-25) infine la presenta come il criterio di valutazione sull’uomo e la sua storia. I cc. 26-28, che raccontano la morte e risurrezione del Signore, ne sono il compimento.
Matteo è considerato il vangelo della comunità: è centrato sulla parola del Figlio che ci rende figli del Padre facendoci fratelli tra di noi. La fraternità è la realizzazione del nostro essere figli: nel rapporto con l’altro viviamo quello con l’Altro. Anche per questo è stato il più letto nella Chiesa. Oggi, in un’epoca in cui lo stare insieme si è fatto problematico, torna di particolare attualità. In genere l’attenzione si concentra proprio su ciò di cui si avverte la mancanza.
1. GENESI DI GESÙ CRISTO
1, 1-17
“Libro della genesi di Gesù Cristo” è il titolo del vangelo di Matteo, che ci racconta la nascita nel tempo del Figlio eterno del Padre che si fa nostro fratello. Gesù è visto come la nuova genesi dell’uomo, principio e fine del mondo creato da Dio.
Dopo la genealogia, i primi due capitoli sono una introduzione di tipo narrativo. Si tratta di “racconti teologici”, tipici della letteratura ebraica, che spiegano dei testi biblici con narrazioni edificanti (midrashim haggadici). Matteo qui però non commenta un testo biblico con episodi della vita di Gesù, ma la vita di Gesù con testi biblici e altro materiale. Si tratta di racconti cristologici.
Il primo capitolo presenta l’origine di Gesù, insieme umana e divina: figlio di Davide secondo la carne (vv. 1-17) e Figlio di Dio secondo lo Spirito (vv. 18-25). Attraverso i discendenti di Abramo, Dio entra nella storia dell’uomo e l’uomo nella storia di Dio. Il prototipo del credente è Giuseppe, lo sposo di Maria, da cui riceve il Figlio di Dio come proprio figlio (vv. 18-25).
Il secondo capitolo prospetta la vicenda futura di Gesù: accolto dai lontani e non dai vicini (2,1-12), ripercorre il destino del popolo, che scende nella schiavitù d’Egitto e ascende alla terra dei padri (2,13-23). Nel “Nazoreo” si compie quanto i profeti hanno detto (2,23).
In questi primi due capitoli, per ben 5 volte su un totale di 11, Matteo parla del “compimento delle Scritture” (1,22s; 2,5s.15s.17s.23). Gesù è visto come il punto d’arrivo del disegno divino, colui del quale tutta la Scrittura parla. Tenendo lo sguardo puntato su ciò che lui ha fatto e detto, la storia d’Israele è rivisitata all’indietro – come fa il “gambero” – e colta nel suo mistero profondo.
Il materiale comune agli altri evangeli, che Matteo ha a disposizione per costruire questi racconti, è costituito, oltre che dalle citazioni bibliche, dalle genealogie, dai nomi dei genitori di Gesù, dalla sua ascendenza davidica, dalla fede nella sua divinità, dalla concezione verginale per opera dello Spirito Santo, dalla sua nascita ai tempi di Erode e dalla sua permanenza a Nazareth. Il resto del materiale è suo, non attestato da altre tradizioni.
Che il tono dei racconti sia quello di un midrash né comporta né pregiudica l’attendibilità dei fatti – da verificare di volta in volta. L’importante per Matteo è interpretare la Scrittura alla luce di Gesù e del suo Spirito.
Questo primo brano è una lista di nomi, divisi in tre periodi, che vanno da Abramo a Gesù: la “carne” del Figlio di Dio passa attraverso coloro che l’hanno preceduto. Di ognuno si dice due volte “generare”, una volta come figlio e l’altra come padre. Lo schema costante si interrompe con Giuseppe, per aprire alla sorpresa di ciò che capita attraverso Maria (v. 16).
Del primo patriarca, Abramo, non si dice chi l’ha generato, e dell’ultimo, Gesù, non si dice né chi lo genera né chi a sua volta egli genera. Si allude al mistero iniziale del Padre, e a quello finale del Figlio. La deportazione di Babilonia ha particolare spicco (vv. 12.17a.17b), così pure la menzione dei “fratelli” (vv. 2.11) – Gesù è venuto a ricostruire la fraternità disfatta e dispersa nell’esilio! Colpisce inoltre l’introduzione di quattro donne (vv. 3.5a.5b.6), anticipo della quinta, Maria, di cui si parlerà nel racconto seguente.
La ripetizione ossessiva del generare con la sola variazione di nomi provoca una tensione, quasi l’attesa della novità promessa nel primo versetto, che interrompa la catena e dia senso al tutto. Il che avviene in Gesù, presentato come il “dunque”: le generazioni da Abramo a Gesù sono tre volte quattordici, ossia sei volte sette. Con lui, primogenito di una numerosa schiera di fratelli (Rm 8,29), la storia della promessa raggiunge sette volte sette, la perfezione.
Per noi questa interminabile lista di nomi può risultare arida. Ma ogni persona è un volto unico e irripetibile, un gioco di passioni e azioni, con uno strano destino di libertà. Ogni nome ha valore assoluto, come il Nome da cui viene e verso cui va. Può essere ignoto a noi; ma sempre vive nella memoria di Dio e pulsa nelle vene del discendente. L’uomo fa la storia e la storia fa l’uomo: il nome, relazione con l’Altro e gli altri, non si perde mai.
All’inizio sono nominati Davide e Abramo, depositari della promessa: tutto il generare è sotto il segno di una particolare benedizione divina. La storia cessa di essere l’eterno ritorno dell’identico, il serpente che si morde la coda, Kronos che divora i suoi figli. Da tragico dominio del fato, diventa libero dialogo tra uomo e Dio, con un principio, uno svolgimento e un fine. La parola scambiata tra i due fa nascere una novità che costituisce il senso della creazione: il dono reciproco di sé tra Creatore e creatura.
La vicenda umana diventa storia di salvezza, realizzazione di Dio nell’uomo e dell’uomo in Dio, dramma dove i due sono i protagonisti, e il resto è lo scenario interessato, che assiste alla decisione del proprio destino.
In questi primi versetti si mostra l’appartenenza di Gesù alla carne di Israele. Il Signore la sposa così com’è, con la sua gloria e le sue miserie, facendo passare attraverso di essa il cammino della salvezza.
Gesù Cristo, compimento della storia di Israele, è il Figlio di Dio che, assumendo la carne di peccato, opera la salvezza di ogni carne. “Caro salutis cardo” (la carne è cardine della salvezza), e “quod non est assumptum, non est redemptum” (ciò che non è assunto non è redento), sono le due affermazioni della Chiesa antica che fondano ogni teologia cristiana.
La Chiesa ha in Israele la sua radice santa e nel Figlio il frutto che contiene ogni benedizione.
2. NON TEMERE DI PRENDERE CON TE MARIA
1, 18-25
“Non temere di prendere con te Maria”, dice l’angelo a Giuseppe. Da lei infatti riceverà Gesù, il Figlio generato dallo Spirito, il Dio con noi.
Questo racconto risponde con chiarezza alle due domande che apre il brano precedente: chi è il Padre di Gesù, e come Giuseppe entra nella sua parentela?
Il Cristo è il Figlio stesso di Dio, generato per opera dello Spirito e nato dalla vergine Maria; Giuseppe, prototipo del credente, diventa suo consanguineo sposando Maria. In lui vediamo i dubbi e le resistenze dell’uomo ad aprirsi a ciò che è ben più grande di lui, anche se per questo è fatto.
La fede nella Parola stabilisce la parentela tra noi e Dio. Per essa, come Giuseppe, accogliamo colui che ha il potere di farci figli (Gv 1,12). Tutto è lasciato alla nostra responsabilità, alla nostra capacità di rispondere alla parola di Dio: questa è il suo “angelo”, che ci offre la possibilità di accoglierlo, di ascoltarlo e di rispondergli.
Il brano precedente dice come Dio entra nella nostra storia, questo come noi entriamo nella sua: lui assume la nostra carne così com’è, noi assumiamo lui così come si offre in Maria.
Giuseppe è discendente di Davide a cui Dio promise il Messia. Ma colui che promette, sempre si com-promette, e ciò che promette alla fine è se stesso, com-promesso in ogni sua promessa. Il figlio di Davide sarà non solo il Messia promesso, ma lo stesso Signore che promette.
Il Figlio non nasce da noi: viene dallo Spirito, perché Dio è Spirito. Giuseppe pensa di farsi indietro per discrezione e indegnità (vv. 18-19). Ma è incoraggiato dall’angelo a prendere la Madre e il Figlio. Deve dare il nome a colui che non è suo: è altro, è l’Altro stesso, che attende il suo “sì” per essere suo figlio, il Dio-con-lui, colui che salva lui e ogni “generare” dalla solitudine del non-essere (vv.20-23) . Giuseppe è presentato d’ora innanzi come colui che ascolta ed esegue la Parola (vv.24-25).
Gesù è il Figlio di Dio, generato nell’eternità dal Padre nello Spirito, e nato nel tempo dalla carne di Maria, per opera dello stesso Spirito.
La Chiesa, come Giuseppe “il sognatore”, realizza il sogno di Dio: in silenzio adorante, attraverso la fede accoglie il dono del Figlio.
3. DOVE È IL RE DEI GIUDEI CHE FU PARTORITO?
2, 1-12
“Dove è il re dei giudei, che fu partorito?”, chiedono i Magi.
Giuseppe, ebreo, fidanzato di Maria, con l’aiuto della Parola dell’angelo, sa dove è il Messia; deve solo riconoscere e accogliere il dono. I pagani invece, e tra questi anche noi, rappresentati dai Magi, devono fare un cammino, guidati dalla stella, per giungere a Gerusalemme, e lì informarsi “dove” è nato il Signore.
In Giuseppe vediamo il cammino di fede dell’Israelita, nei Magi quello del pagano. Trovare e incontrare il Dio-con-noi, colui che ci salva dai nostri fallimenti, è il desiderio di ogni uomo.
Il cap. 1 parla delle origini di Gesù e di come Israele lo accoglie; il cap. 2 parla del suo futuro e di come tutti lo incontrano. Anche lui farà un cammino, lo stesso del suo popolo: la discesa in Egitto con la shoà degli innocenti e l’ascesa con il ritorno alla “terra”. Il Nazoreo, nella sua discesa e ascesa, nella sua uccisione e risurrezione, realizzerà ogni promessa di Dio al suo popolo. La passione-glorificazione è il tema di questo capitolo.
La storia dei Magi ha sempre colpito la pietà popolare. Sono diventati “re”, su suggerimento di Is 60,3 e del Sal 72,10s. Il loro numero nella nostra tradizione è diventato “tre”, secondo i doni che offrirono. Rappresentano Sem, Cam e Jafet, i figli di Noè, tutta l’umanità, primizia della Chiesa. Le loro reliquie si trovano a Köln in Germania, pregiato bottino che il Barbarossa sottrasse nel 1164 alla chiesa di S. Eustorgio prima di distruggere Milano. I loro nomi divennero Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, che in certe regioni, all’inizio dell’anno nuovo, si scrivono sulle porte a protezione di uomini e bestie.
La loro fortuna è legata al fatto che noi, venuti alla fede dal paganesimo, ci identifichiamo con loro.
I temi principali del racconto sono due: la sapienza che guida alla rivelazione e la rivelazione che manifesta a tutti il Messia di Israele, luce per le genti. Il brano traccia il percorso per incontrarlo. Essendo già nato, si tratta di scoprire “dove” lo si può trovare.
Il Salvatore è innanzitutto presente nella stella, che raffigura la sapienza, principio di ogni ricerca. Questa porta a Gerusalemme: la sapienza apre alla rivelazione – e il Salvatore è presente nella Scrittura, che fa conoscere in che direzione cercarlo. Seguendo le sue indicazioni, la stella riappare con luce nuova: la ragione è illuminata dalla rivelazione, e conosce chi cerca. La gioia del cuore infine indica con precisione “dove” lui si trova. È lì che lo si adora e gli si apre il proprio tesoro – e il Signore è presente nell’adorazione (= portare-alla-bocca), nel bacio di comunione con lui, e nel tesoro di chi dona come lui si è donato. In questo scambio d’amore reciproco, Dio è finalmente tutto in tutti (1Cor 15,28).
Il cammino si compie nella scoperta del luogo “dove” è generato il re, e il re nasce “dove” si compie questo cammino. La prima parola che Dio disse ad Adamo è: “Dove sei?” (Gen 3,9), perché anche lui gli chiedesse a sua volta: “Dove sei?”, e i due si potessero incontrare. Il dove dell’uomo è Dio, perché il dove del Dio-con-noi è l’uomo.
In questo racconto si presenta “il natale dell’anima” (Meister Eckhart): la nascita del credente in Dio e di Dio nel credente. È una generazione graduale, in cinque momenti: il con-siderare (stare-con-le-stelle) dell’intelligenza che apre a de-siderare e seguire la propria stella, la Scrittura che svela colui che desideriamo, la gioia del cuore che mostra dove lui è, l’adorazione e infine il dono di sé a colui che già si è donato.
Anche se noi sappiamo il luogo materiale “dove” è nato, non basta. Dobbiamo fare in prima persona l’itinerario dei Magi, con la fatica di un cammino notturno pieno di fascino e di paure, di desideri e di dubbi, di speranze e di incertezze, sotto la guida di una mobile stella che appare e scompare. Diversamente siamo come Erode, che vuole ucciderlo, o come gli scribi e i sacerdoti – il cui sapere serve a dare indicazioni a chi lo uccide.
S. Agostino dice: “L’anima è più presente dove ama che nel corpo che anima”. Quello dei Magi è il cammino dell’amore che, attraverso la ricerca dell’intelligenza e della rivelazione, la gioia e l’adorazione, giunge al dono di sé. In questo gesto noi nasciamo in lui e lui in noi. Il suo dove diventa il nostro dove!
Nel brano c’è una divisione drammatica che ognuno si ritrova dentro: giocarsi o non giocarsi nel seguire i desideri profondi del cuore? Il lontano cerca e interroga, e così trova e dona con gioia; il vicino sa dove è il Signore, ma non lo cerca, interroga la Scrittura, ma non se ne lascia interrogare, e così cercherà di ucciderlo. All’uomo sono possibili due azioni: l’uccisione o la donazione di sé. Ambedue saranno assunte nella storia della salvezza. Proprio il rifiuto, che lo porterà sull’albero della croce, farà compiere al Figlio che adoriamo il cammino del dono di sé che ci salva.
Gesù è il re dei giudei, il Cristo, luce per le genti, nato per tutti in Bethlem di Giudea. La luce della ragione e della rivelazione porta a lui l’umanità, che in lui trova la propria vita.
La Chiesa, oltre che da giudei, è fatta anche da pagani che, come i Magi, fanno il cammino di ricerca fino a trovarlo, baciarlo e aprire a lui il loro tesoro.
4. NAZOREO SARÀ CHIAMATO
2, 13-23
“Il Nazoreo”, come sarà chiamato Gesù, è il compimento di quanto fu detto per mezzo dei profeti. Accolto da Giuseppe e dai Magi (2,1-12), rifiutato dai sapienti e dai potenti, egli rivive la storia del suo popolo: attraverso l’Egitto e l’esilio – con l’uccisione degli innocenti, anticipo della sua – torna alla terra promessa. Così compie puntualmente quanto “è scritto”.
In questo brano si presenta la storia di Gesù come un viaggio. È il viaggio del Figlio, che incontra i fratelli perduti, ripercorrendo la stessa via. Il racconto è diviso in tre quadri: la discesa/risalita dall’Egitto (vv. 13-15), la shoà degli innocenti (vv. 16-18) e il ritorno alla terra (vv.19-23).
Ogni quadro termina con una citazione biblica, che interpreta il fatto alla luce della Parola: la storia di Israele è profezia di Gesù. Lui, che scende e risale dall’Egitto, è il Figlio che realizza il nuovo esodo definitivo (Os 11,1). La shoà degli innocenti, preludio di quella del Giusto, è vista come il male supremo dell’esilio (Ger 31,15). L’Egitto e l’esilio sono la duplice esperienza di schiavitù, causata l’una dal peccato altrui e l’altra da quello proprio: da ambedue libera il “Nazoreo”, che è il “dunque” della promessa (1,17). Da Nazareth, nella Galilea dei pagani, sarà luce per ogni uomo che dimora nelle tenebre e nell’ombra di morte (4,15s).
Il “Nazoreo” è, allo stesso modo del popolo d’Israele, il Figlio liberato dalla mano d’Egitto e l’esule che ritorna alla terra. Il male, sia subìto che fatto – quest’ultimo ci dispiace di meno, ma è l’unico vero male! -, non vanifica la promessa di Dio. Anzi, la realizza nel Giusto che non lo fa e lo porta su di sé, compiendo ogni giustizia (cf 3,15).
Il brano rappresenta in sintesi il dramma di Israele e di tutti. Da una parte c’è il re e dall’altra il bambino: il buono è perseguitato dal malvagio, il bene è perdente, il male sempre più forte. Ma alla fine vince l’innocente, proprio con il suo sangue.
La storia, da vittoria dei potenti e massacro degli innocenti, diventa la storia del Figlio prediletto, che salva i fratelli che l’hanno venduto (cf Gen 50,20). Le macchinazioni del male, alla fine, senza saperlo eseguono ciò che la sua mano e la sua volontà aveva preordinato che avvenisse (At 4,28; Ap 17,17). Dio è Dio della storia: pur rispettando la nostra libertà, onora divinamente anche la sua!
Gesù è il Figlio, totalmente solidale con il destino dei suoi fratelli.
La Chiesa, in e con lui, compie il suo stesso cammino nella storia.
5. IO VI BATTEZZO CON ACQUA PER LA CONVERSIONE
3, 1-12
“Io vi battezzo con acqua per la conversione”, dice Giovanni a quelli che vanno da lui. È l’ultimo profeta, l’Elia che deve tornare, per chiamare alla conversione prima della venuta del Signore (17,12s; cf Ml 3,23s). Solo passando per l’acqua – il caos primordiale, il diluvio e la morte dove ci ha condotto il peccato – riceveremo il fuoco dello Spirito, la vita nuova dei figli di Dio.
Giovanni prepara ad accogliere il Signore che viene. I profeti in Israele mantengono viva la promessa. Non solo richiamano all’obbedienza, ma, soprattutto, impediscono che la religiosità si riduca a sola legge, senza cuore, senza uomo ed infine senza Dio. Dietro la Parola, c’è colui che parla. Non c’è solo un’idea da capire o un ordine da eseguire, ma da stabilire comunione con colui che nella sua parola comunica se stesso. Per questo il profeta chiama “a guardare in alto” (Os 11,7), a levare lo sguardo dalle cose alla mano e al volto di chi le porge. Dimenticare questo è cadere nel feticismo: ci si innamora dell’anello e si dimentica il fidanzato.
Il pericolo di una religione della Parola è ridurre questa a feticcio, come nelle varie forme di fondamentalismo, dottrinarismo e legalismo. Con la Scrittura si può fare ciò che i pagani fanno con gli altri doni di Dio: dimenticare il rimando a lui. Al pollo interessa il becchime, non chi glielo dà, se non nella misura in cui glielo dà. Che la Scrittura non sia il becchime della nostra religiosità, invece che l’incontro con il Signore! L’uomo si distingue dall’animale per la sua lettura simbolica della realtà.
Giovanni è il profeta che sta sulla soglia tra il passato e il futuro. Per lui la promessa non è la tomba, ma il grembo della novità. Icona dell’AT che passa al suo compimento, è l’Elia che deve venire (Ml 3,23), che anzi è già venuto, anche se non riconosciuto, anticipando il destino di colui che vuol far riconoscere (17,10-13). Punto d’arrivo della paziente fatica di Dio durata millenni, il Battista è l’uomo pronto ad accogliere, oltre ogni promessa, il Signore che ha promesso. Non è solo l’asceta o il mistico che incontra Dio nella solitudine del deserto: è l’apostolo, che vuol aprire tutti ad accogliere colui che sempre viene, e attende solo di essere accolto. Precedendo cronologicamente il Signore di un passo, spiritualmente lo segue. Lui è la “voce” che lo proclama – e il Signore è la sua “parola”.
La figura del Battista suscitò molta impressione. Qualcuno lo riteneva il Messia (Gv 1,19s). Marco lo presenta come l’angelo di Ml 3,1s, che prelude la venuta del Signore (Mc 1,2). Qui Matteo lo presenta come colui che annuncia la fine dell’esilio (3,3; Is 40,3). Egli, come Elia, è l’uomo davanti a Dio, pronto all’incontro. Come tutti i profeti, denuncia il peccato e annuncia il perdono. Ma, rispetto a loro, ha una coscienza nuova. Sa che arriva colui che ha promesso. Questi ci battezzerà, invece che nell’acqua della morte, nel fuoco del suo amore.
Il Battista rappresenta la rottura del limite ultimo dell’uomo: desiderio che si apre al desiderato che viene, porta che si spalanca al Signore che bussa.
Questo testo si legge durante l’avvento. Tutta la nostra vita è “attesa” di colui che è “avvento”: noi tendiamo a lui, perché lui viene a noi.
Il brano si articola in tre parti: l’apparire di Giovanni nel deserto che annuncia la venuta del regno e la fine dell’esilio (vv. 1-6), il suo appello alla conversione (vv. 7-10), l’annuncio del Messia che viene col fuoco del suo Spirito (vv. 11-12).
Gesù è il Figlio che il Padre manda ai fratelli per ricondurli dall’esilio a casa. È colui che “deve venire”. E viene per chi lo attende, come il Battista.
La Chiesa, seguendo il suo esempio, entra nella promessa di Dio.
6. QUESTI È IL FIGLIO MIO, L’AMATO,
NEL QUALE MI SONO COMPIACIUTO
3, 13-17
“Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale mi sono compiaciuto”: il Padre si compiace del Figlio che ha fatto la scelta di immergersi tra i fratelli peccatori. È la prima volta che parla, confermando Gesù come il Figlio. La seconda volta aggiungerà per noi: “Ascoltate lui” (17,7). E non dirà più niente. Gesù, Verbo unico del Padre, con ciò che fa e dice rivela quel Dio che nessuno mai ha conosciuto (Gv 1,18).
Il battesimo è la scelta fondamentale, che Gesù condurrà avanti tutta la vita. È il Figlio che, conoscendo l’amore del Padre per i suoi figli, si fa loro fratello: si mischia tra i peccatori, si immerge nella loro realtà, solidale con loro in un amore più grande della morte. È necessario per il Figlio è farsi fratello.
Il brano è una miniatura che contiene tutto il vangelo e rivela il mistero più profondo di Dio: la Trinità, come Amore tra Padre e Figlio, offerto da questo a tutti i fratelli.
Gesù in fila con i peccatori è la “presentazione” prima del Dio-con-noi. E come può essere diversamente, se vuole essere con noi? L’immagine che Dio dà di se stesso è esattamente l’opposto di quella che ogni uomo, religioso o meno, ha di lui – e per questo lo fugge, lo serve o lo nega.
Questa scena del Giordano richiama il Calvario: là si “immergerà” nella morte come qui nelle acque, là si squarcerà il velo del tempio come qui il cielo, là darà a tutti lo Spirito che qui riceve, là si rivolgerà al Padre che qui lo chiama, là sarà riconosciuto Figlio dal fratello più lontano come qui dal Padre (27,51-54). Tutta l’esistenza terrena di Gesù, rivelazione corporea di Dio, è contenuta tra queste due scene e ne è la spiegazione.
Il testo ha quindi valore programmatico: è il nucleo da cui germina il resto, che su di esso si struttura e si sviluppa. Il battesimo è il seme che cresce fino a diventare l’albero della croce.
La scelta di Cristo è anche quella del cristiano, chiamato a “immergersi” nel Figlio, ed essere, con lui e come lui, uguale al Padre.
Dio dall’eternità ha pensato come presentarsi all’uomo fuggitivo. Per trent’anni a Nazareth ha considerato la cosa più da vicino. E non ha trovato che questo modo, il più adeguato ai nostri bisogni e alla sua natura. Il battesimo di Gesù è la porta di ingresso alla rivelazione cristiana, che ci introduce nella casa di Dio. Non è lui tutto una porta spalancata all’uomo?
Il battesimo è la “vocazione” di Gesù: riceve il nome di Figlio dal Padre. Ma è anche la sua “missione”: il suo essere di Figlio lo porta a farsi fratello.
La scena è introdotta da una discussione tra Gesù e Giovanni (vv. 13-15): è scandaloso che il più forte sia battezzato dal più debole, che l’innocente e il giusto si metta dalla parte dei peccatori. Poi ci si presenta Gesù che si immerge ed esce dall’acqua (v. 16a), il cielo che si apre e lo Spirito che scende (v. 16b), e infine la voce del Padre che si compiace della scelta del Figlio (v. 17).
Il Figlio si è fatto con noi e per noi maledizione e peccato (Gal 3,13; 2Cor 5,21), perché noi partecipassimo alla benedizione della sua vita. Non si è vergognato di chiamarci suoi fratelli (Eb 2,11), per ricondurci nell’amore suo reciproco con il Padre, dimora e vita di tutto ciò che è.
In questo suo immergersi, in cui si fa solidale con noi nel nostro limite, il Signore ristabilisce comunione là dove anche noi desolidarizziamo da noi stessi.
Gesù nel battesimo si rivela Figlio di Dio, e rivela chi è Dio: è Padre suo e vuol essere Padre nostro.
La Chiesa è la comunità dei figli che, battezzata in Gesù, ha il suo stesso Spirito di amore verso il Padre e i fratelli. Il battezzato è battezzato nel battesimo di Gesù, immerso nel suo immergersi in noi.
7. VATTENE, SATANA!
4, 1-11
“Vattene, satana!”, dice Gesù a chi gli prospetta un modo di essere figlio che sia diverso da quello di farsi fratello.
L’uomo ha la vita, ma non è la vita. Come mantenerla, salvandola dalla minaccia costante della morte, è il movente di ogni suo pensare e fare. L’errore originario fu quello di volerla possedere invece di riceverla in dono.
L’uomo è relazione con cose, con persone e con Dio, che rispettivamente gli assicurano la vita animale, umana e spirituale. Questi sono gli ambiti della tentazione, con possibilità di vittoria o di caduta, secondo che siano vissuti con lo Spirito del Figlio che tutto riceve in dono e dona, o con quello del vecchio Adamo, che tutto vuol rapire.
Nelle tre tentazioni si presenta, in modo articolato, il peccato di Adamo, che è lo stesso di Israele, della Chiesa e di ciascuno di noi: rubare ciò che è donato. Dio è dono: il possesso rappresenta l’antidio, principio di decreazione, origine di tutti i mali.
Le tentazioni di Gesù corrispondono alle tre concupiscenze (1Gv 2,16) e ai tre aspetti seducenti del frutto proibito (Gen 3,6): il possesso delle cose è buono da mangiare, perché garantisce la vita animale; il possesso delle persone è bello da vedere, perché garantisce la vita umana; il possesso di Dio è desiderabile per essere autosufficienti in tutto. Gli idoli dell’avere, del potere e dell’apparire sono la struttura stessa del mondo: la sua “nullità nullificante”, alla quale Dio risponde rispettivamente con il dare e servire in amore e umiltà.
Gesù ha compiuto la scelta del Figlio: la solidarietà con i fratelli. Ora c’è uno scontro tra due vie di salvezza: la sua, che porta a unirsi agli altri, e quella diabolica, che porta a distinguersi da loro mediante la ricchezza, l’onore e l’arroganza. La via di Dio, che è amore e condivisione, è opposta a quella di satana, che è egoismo e divisione. È un’opposizione interna che attraversa il cuore di ogni uomo.
È importante notare che le tentazioni si presentano come proposte per conseguire meglio l’obiettivo: mostrare che Gesù è “il Figlio di Dio”. Il male è sempre a fin di bene. Ma non basta agire a fine di bene: i mezzi devono essere della stessa natura del fine – altrimenti lo distruggono.
La distinzione tra la strategia di satana e quella di Cristo è sintetizzata magistralmente da S. Ignazio di Loyola, quando presenta la prima come brama di ricchezze, di onore e di orgoglio, la seconda come desiderio di povertà, umiliazione e umiltà.
Gesù rifiuta i messianismi correnti della sua e di ogni epoca. Sono i tre idoli che dominano l’uomo, proiezione dei suoi bisogni: l’idolatria delle cose, con un messianismo economico che trasforma in pane le pietre, l’idolatria di Dio, con un messianismo miracolistico che vuol disporre di Dio stesso, e l’idolatria del potere, con un messianismo politico che vuol dominare tutti.
Le cose, le persone e Dio sono i tre bisogni vitali: l’uomo può soddisfarli in modo diabolico o filiale, rubando o ricevendo, possedendo o condividendo.
Le tentazioni sono le “ovvietà” del pensare umano. Gesù le supera obbedendo alla Parola: è il Figlio che, a differenza di Adamo, ascolta la Parola del Padre. Questo brano ci svela come noi ci perdiamo nell’illusione di salvarci, e ci rivela come il Signore ci salva in modo divinamente diverso dalle nostre attese.
Gesù fu tentato come profeta, come sacerdote e come re, intendendo rispettivamente la salvezza in modo materialistico, la comunione con Dio in modo miracolistico, la libertà in modo padronale. Sono le tentazioni di sempre: scambiare salvezza con salute, Dio con le sue (o meglio nostre) prestazioni/sensazioni, l’altro con il nostro potere su di lui.
Gesù smaschera satana e gli dice: “Vattene!”. In Pietro, che gli prospetterà implicitamente le stesse cose, riconoscerà lo stesso volto, e lo chiamerà: “Satana”. Ma non gli dirà: “Vattene”, bensì: “Va’ dietro di me” (16,23).
Le tentazioni non sono solo un incidente iniziale, quasi un biglietto di ingresso. Sono la lotta che Gesù continuerà tutta la vita, nella fatica di vivere il proprio limite, anche quello estremo, da figlio e non da padrone.
Gesù è il Figlio: tutto riceve dal Padre e tutto dà ai fratelli. Il suo rapporto con le cose non è di rapina, ma di dono – fino al dono di sé, quando si farà pane per tutti in obbedienza alla Parola del Padre -; il suo rapporto con Dio non è la volontà di usarlo a proprio vantaggio, ma la fiducia in lui; il suo rapporto con gli altri non è dominare, ma servire, fino a farsi “il Servo”.
La Chiesa ha le stesse tentazioni di Gesù. La mancanza di discernimento è il suo peccato peggiore: pur amando Gesù, non pensa e non agisce come lui, come fece anche Pietro (16,23!). Deve sempre stare attenta a non considerare mezzo, addirittura privilegiato, ciò che lui scartò come tentazione.
8. IL REGNO DEI CIELI È QUI.
4, 12-17
“Il regno dei cieli è qui”, suona il proclama di Gesù. Vinto satana, arriva il regno. C’è una contrapposizione tra i regni prospettati dal nemico e quello voluto dal Signore: la stessa che c’è tra cielo e terra, tra uomo e Dio. I regni della terra sono quelli di Adamo, che pone come principio di vita le proprie paure – e le realizza -; il regno dei cieli è Gesù, che ha come principio il Padre di tutti e la sua parola.
Il brano segna il passaggio tra l’attività del Precursore e quella del Messia. Dopo il ritiro nel deserto e l’arresto del Battista, Gesù torna in Galilea; non va però al suo paese, bensì a Cafarnao. L’inizio del suo ministero è visto come il sorgere del sole, aurora del giorno nuovo.
Nel v. 12 si dice che Giovanni era stato “consegnato”: anticipa e prefigura il destino del suo Signore. È profeta non solo con la parola, ma anche con la vita. Gesù si “ritira” dalla Giudea in Galilea per non fare subito la stessa fine, e da lì cominciare il suo ministero che lo porterà a Gerusalemme.
Nel v. 13 Gesù va a Cafarnao, che diventa la sua seconda patria. Importante centro sul lago, via di comunicazione, è più adatta per il suo ministero.
Nei vv. 14-16, Matteo risponde all’obiezione di chi sa che il Messia viene da Giuda (cf 2,6), mostrando che la sua “fuga tattica” è compimento della profezia di Isaia, che aveva previsto il sorgere della luce proprio nella Galilea dei pagani. Il regno è visto come luce che vince le tenebre e la morte.
Il v. 17 è il proclama di Gesù, identico a quello del Battista. Ciò che prima era preparazione, ora diventa realizzazione. La conversione è la porta d’ingresso nel regno, al di là di ogni appartenenza religiosa. Il seguito del vangelo, attraverso i fatti e i detti di Gesù, mostrerà il cammino della vita nuova del regno.
Gesù è la luce promessa a Israele e, per mezzo di lui, a tutti gli uomini. In lui si realizza il passaggio dalla nostra notte al giorno di Dio, dalla morte alla vita, dai vari regni della terra che uccidono, all’unico regno dei cieli che fa vivere.
La Chiesa ha in Israele la sua radice santa (Rm 9-11; Sal 87). L’inserimento in essa non viene da appartenenze di carne, ma dalla conversione al Signore (cf 3,7-10).
9. VENITE QUI, DIETRO DI ME
4, 18-25
“Venite dietro di me!” è l’invito personale di Gesù. Il cristianesimo è la risposta a questa sua proposta. Seguire lui significa “convertirsi”, volgersi al Dio-con-noi, entrare nel regno dei cieli, che già è qui: è lui. Si segue lui per diventare come lui, figli e fratelli, che vivono il regno del Padre.
La fede cristiana non è innanzitutto una dottrina o una pratica: è relazione personale con Gesù, il mio Signore, che amo perché lui per primo mi ama. L’amore per lui, che si esprime inorecchi che ascoltano, occhi che guardano, piedi che seguono, mani che toccano, fiuto che sente, bocca che assapora e cuore che canta, è il centro del cristianesimo.
“Maledetto l’uomo che confida nell’uomo” ( Ger 17,5). L’uomo può seguire solo Dio e la sua parola, che è “la via”. Seguiamo Gesù perché è Dio, Parola fatta carne. Il cammino del Figlio dell’uomo tra gli uomini è come l’ordito attorno al quale cresce la trama del cammino dei fratelli, che, pur errando qua e là, lo seguono.
La prima azione di Gesù è una “vocazione”. Anche la creazione è una vocazione, una chiamata dal nulla. Il suo chiamarmi per nome è il mio stesso esistere nella mia verità: il mio io è il mio nome detto da Dio! Conoscere come lui mi chiama è raggiungere la mia identità.
“Il popolo che camminava nelle tenebre vide una luce grande” (v. 16). Come al principio “Dio disse”, e dal caos fu la luce, così il Signore dice il mio nome, e io vengo alla luce e sono luce: sono figlio!
La chiamata è a coppie di fratelli, perché il Figlio chiama alla fraternità; e sono due le chiamate, perché due è il principio di molti. Oltre la prima, ce n’è sempre un’altra, fatta a ciascuno di noi.
I discepoli diventeranno “pescatori di uomini”, come Gesù, il Figlio, che pesca i fratelli dall’abisso delle loro perdizioni (vv. 23-24). Pescati da lui, diventano come lui: figli che si fanno fratelli di tutti i perduti. A loro, immediatamente dopo la chiamata, è confidato il discorso sul monte, dove è rivelata l’identità loro e del Padre. Capiranno meglio la loro chiamata quando, a loro volta, saranno inviati per la pesca (c. 10).
Le due scene di chiamata (vv. 18-20.21-22) sono gemelle. I diversi dettagli dell’una chiariscono quelli dell’altra. Ne esce un quadro unico: Gesù “cammina”, “vede”, “chiama” dei pescatori per “un’altra pesca”, e questi “lasciano reti”, “barca” e “padre”, e “seguono lui”. Sono gli elementi di ogni vocazione, che comincia con i piedi di Gesù che cammina per venirci incontro e termina coi nostri che camminano dietro di lui per seguirlo. Il principio è il “vedere” e “chiamare” suo, che ci fa “lasciare tutto” e “seguire lui”, per essere con lui e come lui.
I vv. 23-25 ci presentano Gesù che pesca gli uomini. Il tema verrà ripreso in 9,35, alla fine del discorso sul monte e dei miracoli: il suo dire e fare “pesca” gli uomini dalla morte, restituendoli alla vita.
Lo stile del racconto è solenne, stilizzato. È una scena ideale, quasi un distillato che contiene l’essenza di ogni chiamata.
Gesù è la parola del Padre, il Figlio, che ci guida nel cammino verso la libertà, come la nube luminosa che condusse il popolo dall’Egitto alla terra.
La Chiesa trova la propria identità e rilevanza nel seguire il Signore Gesù.