Ascensione del Signore (A)
Matteo 28,16-20
In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
(Letture: Atti 1,1-11; Salmo 46; Efesini 1,17-23; Matteo 28,16-20)
Un Dio che se ne va per restare ancora più vicino
Ermes Ronchi
L’ultimo appuntamento di Gesù ai suoi è su di un monte in Galilea, la terra dove tutto ha avuto inizio. I monti sono come indici puntati verso l’infinito, la terra che si addentra nel cielo, sgabello per i piedi di Dio, dimora della rivelazione della luce: sui monti si posa infatti il primo raggio di sole e vi indugia l’ultimo.
Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù lascia la terra con un bilancio deficitario: gli sono rimasti soltanto undici uomini impauriti e confusi, e un piccolo nucleo di donne tenaci e coraggiose.
Lo hanno seguito per tre anni sulle strade di Palestina, non hanno capito molto ma lo hanno amato molto, e sono venuti tutti all’appuntamento sull’ultima montagna.
E questa è la sola garanzia di cui Gesù ha bisogno. Ora può tornare al Padre, rassicurato di essere amato, anche se non del tutto capito, e sa che nessuno di loro lo dimenticherà.
Gesù compie un atto di enorme, illogica fiducia in uomini che dubitano ancora, non resta a spiegare e a rispiegare. Il Vangelo e il mondo nuovo, che hanno sognato insieme, li affida alla loro fragilità e non all’intelligenza dei primi della classe: è la legge del granello di senape, del pizzico di sale, dei piccoli che possono essere lievito e forse perfino fuoco, per contagiare di Vangelo e di nascite coloro che incontreranno.
C’è un passaggio sorprendente nelle parole di Gesù: A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra… Andate dunque. Quel dunque è bellissimo: per Gesù è ovvio che ogni cosa che è sua sia anche nostra. Tutto è per noi: la sua vita, la sua morte, la sua forza! Dunque, andate. Fate discepoli tutti i popoli… Con quale scopo? Arruolare devoti, far crescere il movimento con nuovi adepti? No, ma per un contagio, un’epidemia divina da spargere sulla terra. Andate, profumate di cielo le vite che incontrate, insegnate il mestiere di vivere, così come l’avete visto fare a me, mostrate loro quanto sono belli e grandi.
E poi le ultime parole, il suo testamento: Io sono con voi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo: con voi, sempre, fino alla fine.
Cosa sia l’ascensione lo capiamo da queste parole. Non è andato lontano o in alto, in qualche angolo remoto del cosmo, ma si è fatto più vicino di prima. Se prima era insieme con i discepoli, ora sarà dentro di loro. Non è andato al di là delle nubi ma al di là delle forme. È asceso nel profondo delle cose, nell’intimo del creato e delle creature, e da dentro preme come forza ascensionale verso più luminosa vita.
Quel Gesù che ha preso per sé la croce per offrirmi in ogni mio patire scintille di risurrezione, per aprire brecce nei muri delle mie prigioni, lui è il mio Dio esperto di evasioni!
Avvenire
Commento di don Angelo Casati
Un pastore della chiesa riformata, il pastore Paolo Ricca, scrivendo in questi giorni dell’Ascensione, diceva che “un po’ dappertutto l’Ascensione è diventata o tende a diventare la cenerentola delle feste cristiane”. Ascensione, festa cenerentola. E si chiedeva perché, come mai?
Eppure dell’Ascensione si parla ampiamente nelle Sacre Scritture. A confronto per esempio col Natale, molto più ampiamente. Eppure vedete quanta importanza diamo al Natale, e quanta meno all’Ascensione. Perché? Come mai?
“La risposta” -scrive Paolo Ricca- “non è difficile: l’Ascensione è poco festeggiata perché la Chiesa esita a far festa nel momento in cui il suo Signore “se ne va”. La Chiesa festeggia volentieri il Signore che viene, ma non il Signore che parte; acclama colui che appare, ma non colui che scompare”. Con l’Ascensione Gesù diventa invisibile.
L’invisibilità fa problema: mi ha colpito questa citazione di Dietrich Bonhoeffer, che scriveva: “L’invisibilità ci uccide”. Sì, questo è un pericolo. Non è forse vero che nell’invisibilità ci si allontana a volte? Abbiamo perfino coniato un proverbio: “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.
Quasi a dire che quando viene meno la visibilità -lontano dagli occhi- viene meno anche il rapporto la relazione. E non è proprio questo quello che accade sul monte degli Ulivi, e cioè l’andare lontano dagli occhi? E’ scritto: “Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo…”.
Lontano dagli occhi. Ma ci chiediamo, lontano anche dal cuore questo Signore?
Ecco, la storia che seguì -e la storia che segue è certo quella narrata negli Atti degli Apostoli, ma anche quella narrata nei secoli successivi, è la storia anche dei discepoli di oggi- ebbene, la storia che segue contiene una sfida al proverbio, sta a dimostrare che la lontananza dagli occhi di Gesù, la sua invisibilità, non l’ha cancellato dal nostro cuore. “L’invisibilità” -scrive Paolo Ricca- “non significa assenza, ma un altro tipo di presenza, quella dello Spirito con il quale Gesù paradossalmente è più vicino di prima ai suoi discepoli: prima stava “con loro”, adesso dimora “dentro” di loro”.
L’Ascensione rovescia il proverbio: “lontano dagli occhi, vicino nel cuore”.
Vorrei aggiungere che paradossalmente quella visibilità di Gesù a cui, a volte, guardiamo con nostalgia, la visibilità del passato, quando le folle lo toccavano, quando la donna peccatrice lo ungeva e lo profumava, quella visibilità era anche un ostacolo.
Un ostacolo perché tratteneva Gesù: lo tratteneva in un piccolo paese, nei confini che delimitavano la sua azione: quante migliaia di persone lo videro, lo ascoltarono? Poche senz’altro.
Da quando è asceso al cielo, pensate quante storie di uomini e di donne -miliardi, miliardi di storie e noi siamo una di queste storie- quante storie di uomini e di donne hanno stretto un legame con questo invisibile Signore. Voi mi capite, che Gesù -lontano dai nostri occhi- viva, viva con la sua presenza, con la sua parola, con la sua luce, con la sua consolazione, nei nostri cuori.
E da ultimo è anche vero che questa festa dell’Ascensione -lo faceva notare ancora Paolo Ricca- proprio perché sottrae il Signore ai nostri sguardi, ci fa vivere i nostri giorni anche come attesa. Perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno, allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo.
Vivere l’attesa. Non è facile imparare l’attesa. Aspettare Dio. Anche nella religione a volte abbiamo più l’aria di chi possiede, che lo sguardo curioso di chi attende.
Scrive P. Tillich: “Penso al teologo, che non aspetta Dio perché lo possiede rinchiuso in un edificio dottrinale. Penso all’uomo di chiesa, che non aspetta Dio perché lo possiede rinchiuso in una istituzione. Penso al credente, che non aspetta Dio rinchiuso nella sua propria esperienza. Non è facile sopportare questo non avere Dio, questo aspettare Dio…”.
E’ quello che ci insegna la festa dell’Ascensione.
don Angelo Casati
http://www.sullasoglia.it
“Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”
Enzo Bianchi
Purtroppo in Italia festeggiamo l’Ascensione del Signore Gesù Cristo non il quarantesimo giorno dopo la resurrezione (cf. At 1,3) – come previsto dal calendario della chiesa romana – ma la domenica successiva, la settima domenica di Pasqua, quella che precede la domenica della Pentecoste, cinquantesimo giorno postpasquale. La solennità dell’Ascensione è comunque sempre memoria di una cristofania pasquale, di una manifestazione del Cristo risorto, glorificato dal Padre nella potenza dello Spirito santo. L’ascensione o assunzione di Gesù al cielo, il suo esodo da questo mondo al Padre (cf. Gv 13,1), è narrata come uno staccarsi di Gesù dai suoi, un essere portato verso il cielo. Troviamo questo racconto nella conclusione del vangelo secondo Luca (cf. Lc 24,50-51) e all’inizio degli Atti degli apostoli (cf. At 1,6-11), mentre in Matteo, Marco (a parte la chiusura canonica, posteriore; cf. Mc 16,19-20) e Giovanni si narrano apparizioni del Risorto ma non si parla esplicitamente di una partenza, di un lasciare la terra per il cielo.
Nel vangelo secondo Matteo viene testimoniata un’unica e sola apparizione del Risorto in Galilea, su una montagna, come ultimo e definitivo saluto testamentario ai discepoli. Se Matteo aveva aperto il suo vangelo con le parole “libro della genesi di Gesù Cristo … l’Emmanuele, il Dio-con-noi” (Mt 1,1.23), ora lo chiude con un’allusione all’ultimo versetto delle Scritture ebraiche che egli conosceva, là dove si legge: “Il Signore, Dio del cielo, mi ha consegnato tutti i regni della terra” (2Cr 26,23); e qui il Risorto, colui che è il Dio-con-noi per sempre, dice: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”. Così il vangelo porta a pieno compimento tutta la storia della salvezza.
Ma leggiamo il testo di Matteo con attenzione e umiltà. La sera della sua passione, durante la cena pasquale, dopo aver spezzato il pane e aver reso grazie sul calice, mentre con i suoi usciva verso il monte degli Ulivi Gesù aveva predetto lo scandalo di tutti e il rinnegamento di Pietro, dando però loro l’appuntamento dopo la sua resurrezione in Galilea (cf. Mt 26,30-35). Poi era venuta l’ora dell’arresto e della fuga di tutti i discepoli, la notte della passione, il giorno della morte e della sepoltura. Ma Matteo racconta che all’alba del giorno dopo il sabato Maria Maddalena e l’altra Maria trovarono la tomba vuota e ascoltarono da un messaggero l’annuncio della resurrezione di Gesù. E mentre andavano a portare ai discepoli questo vangelo, incontrarono il Risorto, il quale rinnovò loro l’invito, da rivolgere agli stessi discepoli, ad andare in Galilea, dove lui li precedeva e dove l’avrebbero veduto (cf. Mt 28,1-10).
Ed ecco che i discepoli, undici e non più dodici, a causa del tradimento di Giuda, “vanno in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato”. Non sono chiamati apostoli, inviati, ma discepoli, perché devono ancora essere iniziati dal loro grande rabbi Gesù, e sono nuovamente in Galilea, la terra in cui sono stati chiamati e sono rimasti per anni alla sua sequela. Per Matteo la Galilea non è tanto la terra dell’infanzia di Gesù, da cui ha preso l’appellativo di “galileo”, quanto piuttosto la terra voluta da Dio come luogo dell’evangelizzazione, la “Galilea delle genti, dei pagani” (cf. Mt 4,12-16; Is 8,23-9,1), terra ritenuta impura, da cui “non poteva uscire nulla di buono” (cf. Gv 1,46), terra di mescolanza di popoli, lontana dal centro della fede e del culto, la città santa di Gerusalemme. La Galilea, dunque, come terra per eccellenza di evangelizzazione e di missione: qui sono richiamati i discepoli, quasi a ricominciare quella sequela conclusasi con l’abbandono di Gesù.
Il luogo dell’appuntamento è la montagna, sito teologico per Matteo, là dove Dio a più riprese si è rivelato e ha voluto essere incontrato, là dove Gesù aveva pronunciato il lungo discorso contenente anche le beatitudini (cf. Mt 5,1-7,29), là dove Pietro, Giacomo e Giovanni avevano contemplato la sua trasfigurazione (cf. Mt 17,1-8). Al vedere Gesù gli undici discepoli, che l’avevano visto l’ultima volta catturato dai suoi nemici, non possono fare altro che prostrarsi in adorazione. Cos’è accaduto? Matteo non ci ha parlato della reazione dei discepoli all’annuncio delle donne né di altri segni dati da Gesù; ma ora, di fronte a questa cristofania, essi lo adorano, senza dire nulla. Alcuni tra loro giungono alla fede nella resurrezione, ma altri nutrono ancora dei dubbi, perché esitano a riconoscerlo: la fede non è mai visione ma è una continua vittoria sui dubbi, vittoria che si ottiene solo adorando e soprattutto amando. Nei vangeli non c’è traccia di esaltazione irrazionale davanti a Gesù risorto, ma vi è un faticoso riconoscimento che si realizza solo in una relazione amorosa, carica di fiducia e di abbandono al Signore.
Così Gesù si avvicina agli undici, non li rimprovera per la fuga (cf. Mt 26,56), non li fa arrossire per la loro poca fede (cf. Mt 14,31), ma si rivela nella gloria ricevuta dal Padre, che lo ha richiamato da morte: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”, parole che ci scuotono e che possiamo accogliere solo nella fede. Chi è costui? Sono parole che può dire solo il Kýrios, il Signore del cielo e della terra. Gesù possiede un’exousía, un potere: non se l’è dato da solo e neppure lo ha voluto, perché lo ha rifiutato quando gli è stato offerto dal tentatore, il diavolo (cf. Mt 4,8-10), ma l’ha ricevuto da Dio, il Padre. Infatti è lui “il Figlio dell’uomo giunto presso Dio, che gli diede potere, gloria e regno … un potere eterno, che non tramonta mai, un regno che non sarà mai distrutto” (cf. Dn 7,13-14). Nell’Antico Testamento Dio solo è il Signore del cielo e della terra, Signore del mondo visibile e di quello invisibile, Re del cosmo intero, e nella gloria Gesù ci rivela che questo potere divino è condiviso da lui. Così Matteo, anche senza descriverci un’ascensione di Gesù in termini visivi, ottici, ci rivela dove dobbiamo cercare e trovare il Risorto: in Dio, uguale a Dio nella sua signoria, “nel seno del Padre” (Gv 1,18) direbbe il quarto vangelo. La chiesa adora e confessa Gesù come colui che siede alla destra del Padre, colui che intercede per noi presso di lui. Queste e simili formulazioni risultano sovente incapaci di svelarci il mistero, ma ciò che è decisivo non è un nostro esercizio immaginativo per leggere l’ascensione, quanto piuttosto il fare sì che il Signore Gesù regni davvero in noi, sia il centro della nostra storia, sia colui che crediamo e attendiamo come unico Salvatore.
E siccome Dio ha rivestito Gesù di una tale autorità, egli può dire: “Dunque (oûn) andando fate discepole tutte le genti”, dove l’accento non cade sul verbo “andare” (non sta scritto: “Andate”), su una missione di conquista, di occupazione di terre e spazi, ma sull’apertura a tutte le genti, a tutte le culture, a tutti gli uomini e le donne che fanno parte dell’umanità. È venuta l’ora dell’annuncio alle genti: Gesù era venuto innanzitutto per il popolo di Israele, cui era stato promesso come Messia e Salvatore, e a questa missione conferitagli dal Padre aveva obbedito; ma dopo la sua morte e resurrezione il vangelo deve raggiungere tutte le genti della terra. Cadono tutti i muri: quello tra Israele e i pagani, quelli tra le genti, tutti i muri edificati nella storia. Ormai tutti gli esseri umani sono destinatari del Vangelo,
che va proposto non imposto,
che va offerto come testimonianza, non propagandato a parole,
che va vissuto per essere eventualmente annunciato.
Infatti, non si può insegnare e trasmettere il Vangelo senza viverlo e senza viverne! Ecco il compito dei discepoli, che in quell’ora in Galilea sono veramente piccola comunità, “piccolo gregge” (Lc 12,32): un compito che non guarda alla pochezza di chi lo svolge ma alla promessa di chi ha chiesto di viverlo e annunciarlo.
Qui viene nuovamente delineato da Gesù chi è il discepolo: è uno reso tale grazie all’ascolto di Gesù, stando con lui; è uno che è immerso nella vita della comunione divina, tra Padre, Figlio e Spirito santo; è uno che, vivendo di questa vita donata, accoglie l’insegnamento degli inviati, degli apostoli, della chiesa, per vivere ciò che Gesù ha chiesto, per vivere il Vangelo. La promessa di Gesù in cui mettere fede e speranza è: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Ecco la nuova e definitiva alleanza con la quale Dio si è legato al suo popolo: “Io sarò il vostro Dio, io sarò il Dio-con-voi”. Questa l’ultima parola del vangelo, questa la nostra fede: il Signore Gesù Cristo è con noi sempre. Nell’inviarlo nel mondo, il Padre aveva rivelato attraverso il suo messaggero: “Sarà chiamato Emmanuele, Dio-con-noi” (Mt 1,23; Is 7,14); ora Gesù assume pienamente e definitivamente questo nome ricevuto dal Padre per l’eternità. Dio aveva detto a Mosè: “Io sarò con te” (Es 3,12), e Gesù Cristo lo dice a ciascuno di noi, battezzato nel suo nome, cristiano che porta il suo nome e tenta di vivere, di osservare il suo Vangelo.
Colui che riempie di sé tutte le cose
Clarisse di Sant’Agata
Questo è il giorno in cui, quando tutto sembra finire, tutto veramente comincia. La fine è l’inizio di una nuova storia. Perché la Fine è Lui, il compimento di tutto ciò che esiste. Fine e Principio che si sovrappongono senza soluzione di continuità. Non semplicemente per inaugurare un tempo diverso nel quale ai discepoli è affidato il compito di andare per fare discepole tutte le genti (“andate…”), nell’assistenza e presenza del Risorto con loro (“io sono con voi…”). Non si tratta, prima di tutto, di passare dal tempo di Gesù al tempo della Chiesa, corpo del Risorto nella storia. Si tratta più propriamente di entrare nel mistero della “potenza” di Gesù “verso di noi” (come dice Paolo nella seconda lettura di oggi), una “potenza che opera in noi” (Ef 3,20). È il Risorto che partecipa questo “potere” ai suoi discepoli dopo averlo Lui stesso ricevuto dal Padre, essendo passato per la sua pasqua (“a me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”).
In questo vangelo troviamo concentrata una serie di “totalità” espresse anche dal medesimo vocabolo greco “tutto”: la totalità della signoria del Risorto su ciò che esiste (“ogni potere in cielo e sulla terra”) la totalità del tempo (tutti i giorni, fino alla fine del mondo”), la totalità dello spazio (“cielo e terra… tutti i popoli”), la totalità delle relazioni umane (“tutti i popoli”), la totalità della Parola di Gesù (“tutto ciò che vi ho comandato”), la pienezza di Dio nella sua “capacità” di relazione (“nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”)… Sembra quasi che a conclusione del suo vangelo Matteo ci faccia gettare un’occhiata fugace sulla realtà definitiva, quando “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28).
L’ascensione di Gesù al cielo secondo Matteo (evento che l’evangelista non descrive!) “fotografa” la realtà secondo il cuore di Dio, ci fa affacciare su quello che è il Regno di Dio che va compiendosi nella storia degli uomini, un Regno presente “in mezzo a noi” (o più letteralmente “dentro di noi” cfr. Lc 17,21) e che è potenza e forza di Dio.
Nel Vangelo secondo Matteo non troviamo Gesù che sale al cielo, che si allontana dai suoi discepoli. Infatti le ultime due azioni che compie Gesù secondo l’evangelista sono l’avvicinarsi e il rivolgere la parola ai suoi: “Gesù si avvicinò e parlò loro dicendo….”. Questa è la realtà nella quale siamo immersi: il Risorto, da quel momento in poi, non ha mai cessato di avvicinarsi e di rivolgere la parola ai suoi “undici discepoli”, a noi, sua chiesa così segnata dall’incompiutezza (i discepoli sono “undici” perché uno di loro ha tradito, non c’è. Questa assenza manifesta il volto di una chiesa fatta di uomini deboli, segnata dal peccato, dall’assenza di fratelli che si sono allontanati…). Inoltre si tratta di discepoli che, pur avendo visto il Risorto, ancora convivono con il dubbio: “quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitavano”. Condizione perenne di ognuno di noi: l’aver incontrato il Signore non elimina l’esperienza del dubbio. Anzi potremmo dire che la condizione normale del credente è proprio questa commistione di fede, adorazione e dubbio. Tuttavia proprio a questi discepoli e non ad altri più adatti, più preparati, più “perfetti”, affida la sua missione.
Quasi potremmo pensare che proprio perché i discepoli sono “undici” e sanno cosa significhi vivere fra la fede e il dubbio, Gesù li invia a “fare discepoli tutti i popoli”. Il discepolo che manca per completare il numero “compiuto” dei Dodici è il fratello che attende di essere immerso nell’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito… Di tutti questi fratelli Gesù ci rende responsabili, nella testimonianza di quello che a nostra volta abbiamo ricevuto e che cerchiamo di vivere nella faticosa esperienza della fede.
Ora Matteo ci presenta il volto del Risorto nella sua relazione perenne con i suoi. Il suo “avvicinarsi” è lo stile con cui si propone a noi e il suo “rivolgere una parola di invio” è la forma del suo avvicinarsi che prolunga il mandato che Lui ha ricevuto dal Padre: “come il Padre ha mandato me, così io mando voi” (Gv 20,21).
Il Risorto si fa vicino proclamando che ormai la sua signoria si estende su tutto ciò che esiste (“A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”). C’è un “potere” che il Risorto esercita ora nella storia degli uomini. E’ il “potere” dell’amore che ama fino alla fine e depone la vita per coloro che ama: “ho il potere di dare la vita e il potere di riprenderla di nuovo” Gv 10,18. Questo è l’unico “potere” di Gesù. Ed è proprio questo “potere” dell’amore che gli permette di ricevere dal Padre la signoria su tutto ciò che esiste: “a me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra” (si tratta di una signoria universale che Gesù riceve dal Padre sottomettendosi a Lui e non prostrandosi davanti a Satana, come gli aveva proposto nelle tentazioni in Mt 4,8-9).
Questo “potere” del Risorto è il fondamento e la garanzia della sua presenza che continua in mezzo agli uomini. Notiamo infatti che Gesù apre e chiude il suo piccolo discorso ai suoi con due affermazioni corrispondenti, entrambe alla prima persona singolare: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. (…) Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Gesù è il Signore di tutto e non c’è realtà che non possa essere raggiunta dal suo “potere”, cioè dalla sua capacità di amare fino alla fine. E questa signoria corrisponde alla sua presenza in mezzo a noi, con noi uomini che viviamo nella storia: “egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio” (Ap 21,3).
La storia dei nostri giorni (ma forse potremmo dire di ogni tempo) stenta a riconoscere le tracce della Signoria di Dio e della Sua presenza in mezzo a noi. Ma forse, proprio per questo, la parola che oggi ci raggiunge parla di un Dio che rimane per sempre il “Dio con tutti i popoli”. E questo attraverso la debole prossimità che Lui stesso ci invita a vivere, inviandoci ai fratelli.
Questa Parola quindi svela anche il nostro volto di discepoli che, pur nella nostra fragilità e limitatezza, continuiamo a ricevere il mandato di manifestare la signoria di Dio e la sua presenza potente in mezzo ai fratelli. Una potenza che si rivela pienamente nella nostra debolezza (cfr. 2Cor 12,9).
http://www.clarissesantagata.it
“Andate e fate discepoli tutti i popoli”
Romeo Ballan mcci
L’Ascensione è una nuova epifania. Le letture bibliche e altri testi liturgici la presentano come una manifestazione gloriosa di Gesù. Nella I lettura appaiono la nube e uomini (angeli) in bianche vesti, come nelle manifestazioni divine; ci sono ben quattro riferimenti al cielo in soli due versetti; è annunciato anche il ritorno futuro… (v. 9-11). S. Paolo (II lettura) presenta l’epilogo di una impresa difficile e paradossale, ma riuscita: Gesù seduto alla destra del Padre nei cieli, al di sopra di ogni autorità e potenza, costituito capo della Chiesa e su tutte le cose (v. 20-22). Gli avvenimenti finali della vita terrena di Gesù danno senso e illuminano il tribolato percorso anteriore. “Per questo Giovanni parla di esaltazione, quindi di ascensione di Gesù nel giorno stesso della morte in croce: morte-risurrezione-ascensione costituiscono l’unico mistero pasquale cristiano che vede il recupero in Dio della storia umana e dell’essere cosmico. Anche i quaranta giorni, di cui è fatta menzione in Atti 1,2-3, evocano un tempo perfetto e definitivo e non sono certo da vedere come una informazione cronologica” (G. Ravasi).
La felice culminazione dell’avvenimento-mistero pasquale di Gesù sta alla base della gioiosa speranza della Chiesa e della “serena fiducia” dei fedeli di essere un giorno “nella stessa gloria” di Cristo (Prefazio). Da qui traggono ispirazione ed energia sia l’impegno apostolico sia l’ottimismo che anima i missionari del Vangelo, nella certezza di essere portatori di un messaggio e di una esperienza di vita riuscita, grazie alla risurrezione. Non si tratta di un’esperienza fallimentare, ma sicura e riuscita: già pienamente riuscita in Cristo, e, anche se in forma parziale, già riuscita nella vita del cristiano e dell’evangelizzatore, sia pure in attesa di nuovi sviluppi.
Motivati interiormente da tale esperienza di vita nuova in Cristo, gli Apostoli – e i missionari di tutti i tempi – ne diventano “testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra” (At 1,8), in un percorso che si apre progressivamente dal centro (Gerusalemme) verso una periferia vasta come il mondo intero.Il campo di lavoro missionario della Chiesa sono tutti i popoli (Vangelo), ai quali Gesù manda i suoi discepoli prima di salire al cielo (v. 19). Li manda in forza di una pienezza di potere (v. 18), che Gli compete come Figlio di Dio e come Kurios (Signore) glorificato: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli… insegnando…” (v. 19-20). Una missione che è possibile realizzare con la forza dello Spirito, che invochiamo, insieme con Maria e gli Apostoli, nell’attesa di una Pentecoste sempre nuova.
Quel dunque (oun-ergo: in gr. e lat., rispettivamente) ha il valore di una conseguenza irrinunciabile: indica, infatti, la radice e la continuità della missione universale, che nasce dalla Santa Trinità e si prolunga nel tempo e nello spazio attraverso la Chiesa, inviata a tutti i popoli, rassicurata dalla presenza permanente del suo Signore: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (v. 20). Per Matteo, Gesù non si allontana dai suoi, cambia soltanto il modo di essere presente. Resta con loro: Egli è sempre l’Emanuele, il Dio con noi, annunciato fin dall’inizio del Vangelo (cfr. Mt 1,23).
I verbi che Gesù usa per mandare gli apostoli in missione mantengono la loro perenne attualità. ‘Andate’ indica il dinamismo di una uscita permanente e il coraggio per immergersi nelle situazioni sempre nuove del mondo; “andate”, cioè “uscite”, “partite”, come dire “andate incontro all’altro”; ‘fate discepoli tutti i popoli’ vuol dire farli seguaci non tanto di una dottrina, ma di una Persona; proponete, così come Dio si propone senza imporsi; ‘battezzate’ segnala il sacramento che inserisce le persone nella Chiesa e le immerge nella vita trinitaria; ‘insegnate a osservare’ richiama la risposta dei discepoli alla voce del Maestro e Pastore. Egli ha compiuto l’opera della salvezza a favore di tutti i popoli; ora chiama e invia altri discepoli a continuare la sua stessa missione. Sulle strade del mondo, il cristiano vive spesso in tensione fra il guardare al cielo e il trasformare la terra. Se guarda solo in alto, vengono gli angeli (Atti 1,11) a indicargli i suoi compiti sulla terra. Se si guarda solo in terra, S. Paolo ci ricorda a quale speranza siamo chiamati (Ef 1,18). La sintesi è la missione in nome di Dio e in mezzo ai popoli. Tale è il dono e il mistero di ogni vocazione al servizio del Vangelo nel mondo.