Formazione Permanente
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INTRODUZIONE AL TRIDUO PASQUALE

P. Carmelo Casile

Celebrare il Triduo Pasquale è far presenti i primi tre giorni dell’anno zero della vita della Chiesa, per lasciarsi interpellare e coinvolgere nel Mistero di una Croce, di una Tomba e di una Mensa: i luoghi dove si realizzò e continua a realizzarsi l’incontro pieno e definitivo tra Dio e gli uomini, nel Signore Gesù; i luoghi dove nacque la Chiesa e nei quali continuamente deve rimanere per mantenersi in vita e continuare la peregrinazione fino alla Terra Promessa.

1. Il Triduo Pasquale nella Storia della Salvezza1

Dio-Amore, non solo ha creato il mondo, ma è anche entrato nel mondo ed è vissuto nel tempo. La storia registra tra i suoi «grandi» un uomo, chenon è soltanto uomo, ma è ancheDio: Gesù di Nazaret. Nella vita di Gesù c’è un momento culminante, la «sua ora»; l’ora nella quale egli si offre al Padre in sacrificio con infinito amore, l’ora nella quale il Padre accetta il sacrificio del Figlio e lo glorifica con pari amore. In una «settimana» della storia del mondo, si sono compiuti degli avvenimenti attraverso i quali operava Dio, per la nostra redenzione. Questi eventi sono la passione, la morte e la risurrezione di Cristo. È il mistero della Pasqua, ossia il «passaggio di Cristo da questo mondo al Padre» attraverso la sua passione, morte e risurrezione e, in lui e per lui, della umanità intera dalla schiavitù del peccato alla vita divina della grazia. Gesù, morendo ha distrutto la morte, e risorgendo ha ridato a noi la vita.

a) Il contesto evangelico

Per cogliere il contesto in cui si realizza il Triduo Pasquale, facciamo riferimento al Vangelo di Marco, che fin dall’inizio del suo racconto e poi via via in punti capitali, introduce la prospettiva della morte di Gesù come conseguenza e conclusione del suo ministero in mezzo alla gente: cf. già 1,14 (accostamento fra l’arresto del Battista e la predicazione di Gesù); 3,6; 8,31; 9,31; 10,33s.; e i cc. 11-13 i cui episodi sono ambientati in Gerusalemme e centrati in particolare sul Tempio che sarà distrutto, così come Gesù sarà annientato sulla croce.

Il breve soggiorno di Gesù a Gerusalemme volge ormai al termine. I sommi sacerdoti e gli scribi tirano le fila della congiura che avevano tramato da lungo tempo. Le motivazioni e i retro scena di questo complotto, che qui viene solo nominato, risultano evidenti da tutta la narrazione che precede. In essa appare chiaro perché Gesù di Nazaret entra in conflitto con i capi del popolo: per il messaggio che porta e che incarna, egli provoca una rottura netta e inconciliabile con i criteri dominanti che i suoi nemici sostengono. Con lui, infatti, è giunta la liberazione del regno di Dio (1,15), che sovverte il codice di valori di tutti gli oppressori (cf. ultima disputa). Finalmente prende corpo la decisione di ucciderlo, che si era profilata fin dal primo incontro con Gesù (3,6). Tale decisione era stata solo accennata, ma aveva lasciato il lettore col fiato sospeso e aveva pesato su tutta la vita pubblica del Maestro come un’ombra, una fatalità incombente e oscura. Ai suoi discepoli, alla cui formazione si è ormai esclusivamente dedicato, Gesù ha chiarito il significato e la portata della sua uccisione (cf. le tre predizioni della passione e tutte le istruzioni di questa seconda parte del vangelo). Marco stesso, descrivendo Gesù nelle sue opere e nelle sue parole, ha mostrato al lettore attento come tale evento rientri nel disegno di Dio, al quale spetta l’ultima parola. Infatti, a tutta la storia di male e di cattiveria dell’uomo, che si riversa contro Gesù, Dio risponde rivelando la sua parola definitiva, che è risurrezione e vita donata a tutti.

Per timore della folla (14,2; cf. 11,18; 12,12), che lo ascoltava volentieri (12,37), i capi attendevano il momento buono per passare dalla decisione all’esecuzione. Ce n’è voluto di tempo per cogliere l’occasione propizia! Esattamente tutto quel tempo che è bastato a Gesù per compiere ciò che doveva fare. Per essere perpetrato, anche il male esige il suo tempo, e non riesce mai a impedire che intanto si compia tutto ciò che si deve!

Infatti questo tempo, che i suoi avversari hanno usato per ordire insidie, Gesù l’ha speso tutto nel fare il bene. Per questo ora i suoi discepoli, che l’hanno seguito di persona o mediante il racconto dell’evangelista, sono in grado di capire anche il significato della croce, che è il punto inevitabile d’incontro tra colui che opera il bene e colui che trama il male. La croce è lo scandalo finale che coglie Gesù e chi vuole seguirlo; è l’enigma fondamentale che i discepoli hanno potuto sciogliere solo alla luce del mattino di pasqua, rivedendo il significato di tutta la vita del Nazareno; che proprio sulla croce appare loro come la rivelazione di Dio.

Marco intende provocare i suoi lettori allo stesso scandalo del Dio crocifisso, in tutta la sua crudezza. Qui puntava tutto il suo racconto.

b) La cronologia

Per questo, se prima l’evangelista si accontentava di dati cronologici sommari, ora, giunto il grande dramma della passione, scandisce con precisione il tempo, inquadrandolo nell’arco di una settimana, come il racconto della creazione. Sta infatti presentando, com’è accennato nella prima parola del vangelo, il «principio» della nuova creazione, che scaturisce dalla morte del Cristo, Gesù, Figlio di Dio. Così tutta l’attività di Gesù a Gerusalemme è divisa in sette giorni, numero della perfezione:

1° giorno (11,1-11: domenica): salita di Gesù a Gerusalemme;

2° giorno (11,12-19: lunedì): maledizione del tempio e del popolo infedele (fico sterile);

3° giorno (11,20-13,37: martedì): rivelazione di Gesù signore e giudice della storia (5 dispute e discorso escatologico);

4° giorno (14,1-11: mercoledì): unzione messianica mentre è decisa la sua morte;

5° giorno (14,12-16: giovedì): preparazione della pasqua;

6° giorno (14,17-15,47: tenendo presente che per gli ebrei il giorno cominciava al calare del sole: venerdì): ultima cena, orazione nell’orto, arresto, processo davanti al sinedrio, condanna, svolgimento e compimento della passione, morte e sepoltura di Gesù. Pur cadendo probabilmente la pasqua in giorno di sabato, Marco la fa cadere di venerdì per far coincidere la pasqua ebraica con la morte e sepoltura di Gesù (cf. 14,1). Questo lo fa per un profondo motivo teologico: vuol mostrare come la vera pasqua si compia con l’uccisione del vero agnello. Nel sesto giorno la creazione è compiuta. E Cristo che muore in croce, dando il suo Spirito, è il compimento della nuova creazione.

Il 7º giorno, il giorno del sabato, il giorno santo di Dio, il giorno del suo riposo coincide col riposo di Gesù nel sepolcro. È il giorno della discesa agli inferi, il giorno morto, il giorno del silenzio. La creazione, uscita dal silenzio, torna al silenzio e tace e dorme col Cristo nella tomba, ridotta al nulla da cui è sorta. Ma in Cristo, fedele a Dio, essa è affidata alla fedeltà del Dio dei vivi. Egli non permette al suo Cristo di vedere la corruzione (Sal 16,10), e riscatta dalla morte chi gli è fedele. A questo giorno, che è il sabato, il giorno della vita attraverso la morte, non è dedicato nessun versetto: si fa cenno solo che è «passato» (16,1), per lasciare il posto al vero 7º giorno, chiamato anche l’«ottavo giorno», in cui il «sole è già sorto» (16,2-8): è il giorno della risurrezione, il giorno del vero riposo di Dio, il giorno definitivo di festa di Dio e dell’uomo, in cui ormai vive la nuova creazione, vero tempio di Dio aperto a tutti. È il giorno ultimo, in cui si rivela il volto di Dio tra gli uomini, il giorno del «vangelo», cioè del lieto annuncio della vita di Dio comunicata agli uomini; è il giorno dell’ascesa a Gerusalemme nella gioia e nell’abbondanza dei frutti (a differenza di 11,1-11!); è il giorno carico di giustizia, di pace e di amore, il «giorno del Signore» («domenica»!) donato in Gesù all’uomo (cf. 2,27!).

In questa inquadratura si può osservare che, se il momento finale è la gloria della risurrezione, il punto centrale più sviluppato e più lungo del dramma è costituito dal venerdì santo, il giorno del compimento della creazione che culmina sulla croce. In essa, infatti, Marco – e prima di lui la comunità dei discepoli – ha colto il punto decisivo della storia di Gesù, che rende conto di tutta la sua vita prima e dopo la morte. Per questo il venerdì – che presenta l’ultima ora della terra e che inizia nelle tenebre della notte per terminare nell’oscurità del mezzogiorno e nel silenzio della tomba – è il giorno più lungo di tutto il vangelo, il giorno pieno, descritto in modo dettagliato, senza perdere nessun momento. Della notte si scandiscono tutte le quattro veglie mediante la successione dei fatti: ultima cena, agonia nell’orto, cattura e, infine, sua rivelazione davanti al sinedrio. Dopo questa sua rivelazione tanto luminosa, che oscura tutto, anche le ore del giorno, che finiranno appunto nelle tenebre, sono scandite con cura di tre in tre: il mattino la condanna (15,1); ore 9 la crocifissione (15,25); ore 12 si oscura il sole di mezzogiorno (15,33); ore 15 rivelazione di Dio nella morte in croce (15,34ss.) e al tramonto la sepoltura (15,42).

In questa inquadratura vediamo dei profondi significati teologici che danno il senso di tutta la passione. Innanzitutto la coincidenza della morte di Gesù con la pasqua ebraica vuol dimostrare come la nostra pasqua, la festa della nostra liberazione, si compie sulla croce: è in essa che l’uomo è riscattato dalla schiavitù. Questo è il senso della croce, sapienza di Dio, che l’uomo non può cogliere. Inoltre il venerdì è il sesto giorno della creazione, quello del suo compimento, quando fu creato Adamo «a immagine e somiglianza di Dio». Ma Adamo, per voler essere Dio, cadde e perse se stesso, perdendo colui del quale era immagine. Anche il venerdì in cui Gesù muore è il sesto giorno del suo soggiorno a Gerusalemme, il giorno del compimento della sua opera. Infatti, sull’albero della croce si ripara la caduta di Adamo e riappare sul volto di Gesù il vero volto di Dio (15,39). Finisce così la vecchia creazione posta sotto il segno del male e della morte, e si compie la nuova creazione, quella del nuovo Adamo.

Nella storia della passione si può leggere la controstoria di Adamo: Gesù è il nuovo Adamo, che percorre a ritroso tutta la storia di peccato del vecchio Adamo. Per questo tutto il male del mondo si riversa su di lui che, operando solo il bene, nuota contro la corrente del fiume della storia. Nella sua morte giunge alla fine dell’opera, e ricompone l’uomo con la sua immagine, ma in un modo nuovo e inatteso, solo adombrato nella prima creazione: dell’uomo morto in croce, infatti, il centurione dirà: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio» (15,39). Così nel cammino inverso a quello di Adamo, viene vinto e capovolto il peccato dell’origine. L’uomo ritrova il suo volto tanto cercato… «Ecce homo!». È il volto stesso di Dio che ha cercato l’uomo e l’ha trovato nella sua morte.

2. Dimensione commemorativa del Triduo Pasquale

Questi avvenimenti, come fatti storici, sono fissati nel tempo e, come tali, sono irripetibili. Tuttavia, questi avvenimenti, come azioni di Dio, sono al di fuori del tempo e, perciò, sempre presenti e operanti, principalmente nelle azioni liturgiche. Nella celebrazione liturgica, pertanto, la parte più cospicua di questi eventi non solo è ricordata, ma è anche misteriosamente ripresentata. Gli avvenimenti sono passati nei riti che li rinnovano e li perpetuano, e così noi possiamo partecipare all’evento della Passione e Risurrezione di Gesù.

La morte e la risurrezione di Cristo, che è attualizzata in ogni Messa, nella Settimana santa viene come rivissuta dalla Chiesa anche cronologicamente. La Chiesa, attraverso i riti, segue passo passo, momento per momento, il suo Signore che per lei va al Calvario e per lei è glorificato dalla potenza di Dio Padre nella risurrezione quale suo capo.

La natura scandisce il tempo con il ritmo del giorno. Dio che entra nella storia scandisce il tempo con il ritmodella settimana. È la misura sacra del tempo, rivelata da Dio nel primo libro della sacra Scrittura e consacrata da Dio per mezzo di Cristo con l’opera della redenzione. La settimana nella quale Cristo ci ha riconciliati con Dio e tra noi è chiamata dalla Chiesa «Settimana grande», «Settimana santa». È grande perché è la più importante. È santa perché i suoi giorni sono sottratti all’uso profano e riservati a Dio che ci salva. Questi giorni sono come qualcosa di sacramentale: in essi opera Cristo. Per chi crede sono i giorni della salvezza. La Settimana santa, soprattutto il Triduo pasquale, è al centro di lutto l’anno liturgico e di tutta la vita sacramentale della Chiesa, perché tutte le celebrazioni si riferiscono al Mistero della nostra redenzione: il Mistero Pasquale. (cf. Tertio Millennio Adveniente, 10)

Perciò, «se v’è liturgia, che dovrebbe trovarci tutti compresi, attenti, solleciti ed uniti per una partecipazione quanto mai piena, degna, pia e amorosa, questa è quella della grande settimana. Per una ragione chiara e profonda: il Mistero Pasquale, che trova nella settimana santa la sua più alta e commossa celebrazione, non è semplicemente un momento dell’anno liturgico; esso è la sorgentedi tutte le altre celebrazioni dell’anno liturgico stesso, perché tutte si riferiscono al mistero dellanostra redenzione, cioè al Mistero Pasquale» (Paolo VI, in L’Osservatore Romano, 7 aprile 1966).

Per tanto, più che da quello che ci inventiamo o che altri ci possano dire, la bellezza e la fecondità della liturgia del Triduo Pasquale scaturisce dall’iniziativa divina, che spazza via tutte le nostre mediocrità e ci predispone gli uni accanto agli altri in vista di un fine che ci supera. La celebrazione liturgica del Triduo Pasquale è bella, perché è espressiva della realtà di Dio che entra nel nostro mondo attraverso il Mistero della Passione e della Risurrezione di Gesù. Il Cristo pasquale ci libera dal dominio del vangelo di questo mondo, che è quello dell’amore per se stessi, e fa crescere in noi la fede e, con la fede, un clima di speranza che rigenera le energie dell’amore.

Sarà quindi l’esperienza della Chiesa a guidarci in un’esperienza del Triduo Pasquale inseparabil­mente liturgica e spirituale, personale e comunitaria, a partire dall’itinerario biblico-liturgico del Triduo stesso.

Il percorso liturgico di questi giorni, scandito da riti e particolari brani biblici che specificano il senso e il messaggio del Mistero Pasquale, possiamo considerarlo come un fiume di vita. Acconsentendo a farci portare dalla sua corrente lenta e profonda, di carattere didattico ma anche contemplativo, lo svolgimento della celebrazione ci potrà rivelare e unire sempre più profondamente al mistero della sorgente della nostra consacrazione battesimale e missionaria: essa è sempre la stessa, il Mistero Pasquale, da cui la consacrazione battesimale sgorga come l’acqua dalla sua sorgente; un acqua che è sempre viva e nuova, e che in noi produce come frutto particolare la consacrazione per la missione.

3. Posto e importanza del Triduo Pasquale nella Liturgia e nella vita della Chiesa

La celebrazione del Mistero Pasquale occupa un posto di primo piano nella comunità cristiana, come pure nella vita d’ogni battezzato.

In fatti, il messaggio della Pasqua costituisce l’unica ragione dell’essere della Chiesa: “Se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e rimanete ancora nei vostri peccati” (1Cor 15, 17).

La Chiesa, pertanto, è inviata essenzialmente per

Annunciare che il Figlio di Dio mediante la Sua morte e risurrezione ci liberò dal dominio di Satana e dalla morte, e ci collocò nel Regno del Padre.

Realizzare per mezzo del sacrificio e dei sacramenti l’opera della salvezza annunciata dalla Parola (cfr. SC 6-8, Sacrosanctum Concilium).

Portare i fedeli, saziati e fortificati dai “sacramenti pasquali” a vivere “in perfetta unione”, perché manifestino nella vita ciò che hanno ricevuto per la fede (cfr. SC 10-16).

È evidente che “il Mistero Pasquale” non è obiettivo di devozione spontanea nella vita cristiana, né è una celebrazione di poca importanza nella liturgia. Rappresenta esattamente la propria ragion d’essere della nostra vita cristiana: “morte e vita attraverso la morte e per mezzo della morte” (Nocente). Questa è la vera Pasqua, che vuol dire «passaggio»: di Cristo dalla morte alla vita e, in lui e per lui, il passaggio di tutta l’umanità e, in un certo senso, dell’intera creazione dalla schiavitù del peccato alla vita divina della grazia.

Il Triduo Pasquale è il momento forte della vita della Chiesa, nel quale il Mistero Pasquale è annunciato, realizzato e portato nel vissuto della vita quotidiana. Tutti gli anni la Chiesa celebra la memoria di un Venerdì, di un Sabato, di una Domenica: tre giorni che lei chiama “santi” perché li considera decisivi per la sua stessa esistenza e per la storia del mondo. È chiamato «pasquale», per mettere in evidenza che non è una preparazione della solennità di Pasqua, ma è veramente, secondo le parole di sant’Agostino “il santissimo Triduo del (Cristo) crocifisso sepolto e risorto” e perché appaia più evidente che la Pasqua di Cristo consta della sua morte e risurrezione, cioè della novità di vita che scaturisce dalla morte redentrice.

La Chiesa, per tanto, “ricordando in tal modo i Misteri della Redenzione, offre ai fedeli le ricchezze delle azioni salvifiche e dei meriti del suo Signore, in modo tale da renderli come presenti a tutti i tempi, perché i fedeli possano venire a contatto con essi ed essere ripieni della grazia della salvezza“ (SC 102).

Allora celebrare la memoria non è misurare la distanza tra il presente e un avvenimento passato, ma eliminare questa distanza. Per questa ragione San Gregorio Nazianzeno esclamava: «O grande e santa Pasquaespiazione di tutto il mondo!Io ti parlo come ad essere vivente» (Oratio 45,30).

Celebrare la memoria, commemorare, è far rinascere, è far presente il passato, è sentirsi misurati e, insieme, fecondati da un grande dono di Dio. Nel caso del Triduo Pasquale è far presenti i primi tre giorni dell’anno zero della vita della Chiesa, per lasciarsi interpellare e coinvolgere nel Mistero di una Croce, di una Tomba e di una Mensa: i luoghi dove si realizzò e continua a realizzarsi l’incontro pieno e definitivo tra Dio e gli uomini, nel Signore Gesù; i luoghi dove nacque la Chiesa e nei quali continuamente deve rimanere per mantenersi in vita e continuare la peregrinazione fino alla Terra Promessa.

4. Mistero Pasquale e articolazione celebrativa del Triduo

Il Triduo Pasquale è praticamente costituito:

  1. dal venerdì: la Passione e morte;
  2. dal sabato: la sepoltura;
  3. dalla notte fra il sabato e la domenica: la Risurrezione.

Per comprendere la celebrazione liturgica del Triduo Pasquale, è necessario non perdere di vista l’unità teologale del Mistero Pasquale e il suo rapporto con l’articolazione celebrativa del Triduo.

Il Mistero Pasquale è Gesù vincitore della morte con la sua morte e che ci consegna la sua vita: ecco l’unico evento della storia, la sua Croce e la sua Resurrezione. Non due eventi, ma due momenti del medesimo Mistero, fonte di salvezza e pienezza del culto.

Dall’unità di visione del Mistero Pasquale dipende anche il senso unitario della celebrazione del Triduo. Infatti, il Triduo, in quanto celebrazione del Mistero Pasquale, non è costituito da tre giorni indipendenti uno dall’altro, da tre celebrazioni separate, ma dalla celebrazione di un unico Mistero, il Mistero di Cristo Gesù crocifisso, sepolto e risorto. Il Triduo è la realtà stessa della Pasqua del Signore celebrata sacramentalmente in tre giorni: il venerdì santo celebra la passione; il sabato santo la sepoltura; la domenica la risurrezione. Ogni giorno del Triduo è in rapporto con l’altro e sfocia nell’altro, come l’idea di risurrezione suppone quella della morte.

Purtroppo questa visione unitaria del Triduo Pasquale è stata dimenticata per molto tempo, e adesso è necessario fare uno sforzo per scoprirla di nuovo. A questa riscoperta possiamo arrivare se cogliamo il rapporto tra il Mistero Pasquale e l’articolazione celebrativa del Triduo; questo rapporto possiamo coglierlo facendo attenzione al termine «mistero», che è usato in modo diversificato nello svolgimento della celebrazione del Triduo.

Col termine “mistero” il linguaggio cristiano intende il proposito divino di salvare l’umanità, concepito dalla sapienza e realizzato dall’amore di un Dio che interviene personalmente nella storia umana. Così “mistero” designa anche gli avvenimenti storici nei quali Dio si fa presente e salva. Mistero Pasquale quindi significa tanto il progetto divino di salvezza quanto l’avvenimento di morte e risurrezione di Cristo nel quale quello si concretizza.

Ma il linguaggio cristiano usa il termine “mistero” anche per designare le celebrazioni liturgiche che quegli avvenimenti salvifici commemorano e che rendono attuale e accessibile, qui e ora, quel proposito di salvezza. Quindi l’espressione “Mistero Pasquale” ha molteplici significati che si annodano intorno alla Pasqua storica di Gesù. Nel suo passaggio dal mondo al Padre, avvenuto con la morte dolorosa e nella risurrezione gloriosa, si è manifestato e attuato ildisegno salvifico di Dio che apre all’umanità una via di conversione, di speranza, di vita rinnovata.

Questa via si percorre con la fede, nell’adesione personale al proposito divino, e con la partecipazione sacramentale del battesimo e dell’eucaristia, in quanto coinvolgono l’esistenza in una trasformazione profonda.

Nella celebrazione del Triduo Pasquale la Chiesa fa la solenne commemorazione annuale della Pasqua del suo Signore, con i riti2 ne celebra l’avvenimento e vi si coinvolge esistenzialmente. Il rito, infatti, è per una comunità il segno rievocativo della sua origine e fondativo del suo essere nella storia. Per il singolo fedele è un’occasione per riconoscere e stringere i suoi vincoli con la comunità, e il mezzo per attingere senso e forza alla sorgente della sua vita.

Quindi con le celebrazioni del Triduo Pasquale la Chiesa riconosce nella Pasqua l’origine e la direzione della sua vita, aderisce con fede rinnovata al “Mistero Pasquale” come progetto divino della sua salvezza, medita gli avvenimenti costitutivi del “Mistero Pasquale” come indicativi di ciò che deve essere, partecipa ai misteri rituali della Pasqua che ne comunicano l’energia trasformante, pone nella storia un segno di speranza oltre la morte e per l’esistenza rinnovata»3.

La liturgia del Triduo Pasquale è profondamente dominata da questa visione unitaria del Mistero Pasquale, che è stato appena descritto.

La linea unitaria dei differenti momenti celebrativi va colta anzitutto concentrandosi sull’evento centrale celebrato: il «passaggio di questo mondo al Padre» (Gv 13, 1) di Gesù che da Messia rifiutato, uomo dei dolori, corpo dissanguato sepolto, diventa il Signore della vita, esaltato nella gloria del Padre e fonte dello Spirito Santo. Il Triduo pasquale nella sua articolazione celebrativa deve essere sempre ricondotto al centro. I temi che emergono in ogni giorno del Triduo, bisogna leggerli in una visione unitaria del Mistero Pasquale, e nella partecipazione ad ogni celebrazione bisogna mettersi nell’angolo visuale proprio dal quale si scorge e si ritualizza l’unica Pasqua di Cristo e della Chiesa.

Il centro di gravitazione dei tre giorni è la Veglia Pasquale con la sua celebrazione eucaristica. Per tanto, non può entrare nello spirito della celebrazione liturgica di questi giorni, nel Mistero profondo della Pasqua, colui che si ferma soltanto ad alcuni aspetti parziali delle celebrazioni, anche se interessanti.

Riesce a penetrare nelle profondità del Mistero Pasquale colui che, sotto l’azione dello Spirito Santo, si prende tempo non solo per partecipare nella liturgia, ma anche per approfondirla personalmente nei suoi contenuti e significati dal punto di vista biblico, liturgico, simbolico e ascetico, e cerca di cogliere l’unità e la totalità del Mistero Pasquale. In quest’unità e totalità ci viene indicata la legge fondamentale della nostra vita: la logica pasquale del “muori e divieni…”.

Sant’Ambrogio ci spiega questa legge appoggiandosi sulla tipologia della ricostruzione del tempio in tre giorni: «Bisogna che noi osserviamo non solo il giorno della passione, ma anche quello della risurrezione, in modo da avere un giorno di amarezza e anche un giorno di gioia, in modo da digiunare in quel giorno e da essere sazi in quest’altro… È questo il triduo sacro… durante il quale il Cristo ha sofferto, si è riposato ed è risuscitato: riguardo il quale egli dice: “distruggete questo tempio e lo rialzerò in tre giorni”»4.

IN SINTESI:

Per comprendere la celebrazione del Triduo Pasquale, è necessario comprendere il Mistero Pasquale nei suoi due aspetti di morte e risurrezione uniti da un nesso causale voluto dallo stesso Dio: Cristo si fece obbediente fino alla morte di Croce. “Per questo” il Padre lo esaltò con la risurrezione e ascensione.

Per tanto, il Cristo risorto e glorificato presso il Padre supera i limiti dello spazio e del tempo, si fa contemporaneo di ogni uomo e il principio datore di tutta la vita divina, soprattutto attraverso la fede e i sacramenti pasquali dell’iniziazione cristiana: Battesimo ed Eucaristia.

Il Triduo è costituito dai giorni: Venerdì, Sabato e Domenica; inizia Giovedì con la messa vespertina della Cena del Signore, raggiunge il suo vertice nella Veglia del Sabato; deve essere chiamato Triduo Pasquale, perché è la Pasqua celebrata in tre giorni.

GIOVEDÌ SANTO:
LA MESSA DELLA CENA DEL SIGNORE

A. Giovedì Santo: Giorno conclusivo della Quaresima

Il Giovedì Santo è il giorno conclusivo della Quaresima e non fa parte del Triduo Pasquale.

Anticamente era il giorno della riconciliazione pubblica con Dio e con la Chiesa dei penitenti che concludevano la loro penitenza quaresimale. In quanto tale è opportuno riservarlo anche oggi alla celebrazione del Sacramento della Riconciliazione. La celebrazione di questo sacramento corona il cammino penitenziale quaresimale e introduce nel dinamismo salvifico del Triduo Pasquale, che è la celebrazione del passaggio dalla morte del peccato alla vita divina in Cristo.

Al mattino del Giovedì Santo, nella Chiesa Cattedrale, è celebrata dal Vescovo la Messa Crismale. Questo è un rito proprio del Vescovo, come Successore degli Apostoli e primo servitore della Chiesa locale, intorno al quale si riuniscono per celebrare con lui l’Eucaristia, i Sacerdoti dei diversi luoghi e ministeri della Diocesi, in una prova d’unità ecclesiale.

Attraverso i Santi Oli, da lui benedetti in questa Messa Crismale e dai Sacerdoti portati in tutte le parrocchie, il Vescovo “fondamento dell’unità della sua Diocesi”, sarà presente al Battesimo, alla Confermazione, alla Unzione degli ammalati.

La benedizione dei Santi Oli è fetta nella Messa, perché tutta l’efficacia dei Sacramenti deriva dal Sacrificio di Cristo, che si rinnova e continua per mezzo dell’Eucaristia.

In questa Messa, il Vescovo e i Sacerdoti prendono coscienza del fatto che sono uniti nell’unico sacerdozio di Gesù Cristo, e rinnovano il loro impegno di servizio alla comunità dei credenti come strumenti e servi del Mistero Pasquale di Cristo e della sua Chiesa.

La Messa Crismale nel suo insieme costituisce come un grande prefazio e la preparazione immediata par la celebrazione del Triduo Pasquale. Sarà per mezzo del ministero sacerdotale, che la grazia del Mistero Pasquale vivificherà e sosterrà la peregrinazione della Chiesa ad ogni passo e momento del suo cammino verso la Pasqua Eterna.

B. Apertura del Triduo Pasquale: Messa Vespertina della Cena del Signore

Il Triduo Pasquale comincia con la Messa Vespertina della Cena del Signore, che è il punto culminante del Giovedì Santo.

La celebrazione deve avere un tono di gioia e di festa.

La caratteristica della Messa della Cena del Signore è la sua “dimensione rituale”, cioè il rito memoriale che ricorda e rinnova il Mistero Pasquale di Cristo.

Nel rito della Cena, che Gesù ci comandò di celebrare, ci ha donato il suo Sacrificio Pasquale. La Chiesa per volontà di Cristo ripete la Cena per rinnovare la Pasqua.

“Nell’ultima Cena, Cristo istituì il Sacrificio e convito pasquale per mezzo del quale è reso continuamente presente nella Chiesa il sacrificio della croce, allorché il Sacerdote che rappresenta Cristo Signore nella Chiesa, compie ciò che il Signore stesso fece e affidò ai discepoli perché lo facessero in memoria di lui.

Cristo infatti prese il pane e il calice, rese grazie, spezzò il pane e li diede ai suoi discepoli, dicendo: «Prendete, mangiate, bevete: questo è il mio Corpo; questo è il Calice del mio sangue. Fate questo in memoria di me».

Perciò la Chiesa ha disposto tutta la celebrazione della Liturgia eucaristica in vari momenti, che corrispondo a queste parole e gesti di Cristo. Infatti:

  1. Nella preparazione dei doni, vengono portati all’altare pane e vino con acqua, cioè, gli stessi elementi che Cristo prese tra le sue mani.
  2. Nella Preghiera eucaristica, si rendono grazie a Dio per tutta l’opera della salvezza, e le offerte diventano il Corpo e il Sangue di Cristo.
  3. Mediante la frazione del pane e per mezzo della Comunione i fedeli, benché molti si cibano del Corpo del Signore dall’unico pane e ricevono il suo Sangue dall’unico calice, allo stesso modo con il quale gli Apostoli li hanno ricevuti dalle mani di Cristo stesso” (OGMR, 72 (= 48) )5.

Per tanto, il Triduo Pasquale ci presenta, per così dire, la “dimensione storica” del Mistero Pasquale, unico e indivisibile, nei suoi momenti cronologici: la crocifissione (Venerdì Santo); la sepoltura (Sabato Santo); la risurrezione (notte tra il Sabato e la Domenica).

A sua volta, la celebrazione della Messa Vespertina della Cena del Signore ci ricorda che Gesù questo Mistero ce lo lasciò presente attraverso un rito, proprio quello della Messa.

Infatti, le letture del “Novus Ordo” ci danno la descrizione del Rito Pasquale dell’Antico e del Nuovo Testamento, il cui punto centrale è costituito dalla Cena Pasquale celebrata da Gesù con gli Apostoli, la quale fa da cerniera tra la Pasqua Rituale Ebraica e quella Cristiana.

La prima lettura è tratta da Es 12, 1-8.11-14 e ci narra l’istituzione del rito memoriale degli avvenimenti dell’Esodo, che annunciarono e prefigurarono la Pasqua di Gesù.

L’immolazione dell’Agnello per il rito della Cena da parte di tutta l’assemblea della comunità d’Israele al tramonto del sole, come vittima Pasquale in onore del Signore (vv. 6 e 11); il passaggio del Signore durante la notte per ferire i primogeniti degli Egiziani (v. 12); il sangue, segno distintivo per risparmiare le case dei figli d’Israele (v. 5-13); il giorno memoriale della Pasqua che deve essere celebrato come una festa in onore del Signore per tutte le generazioni (v. 14).

Nella seconda lettura, tratta da 1Cor 11, 23-26, l’apostolo Paolo ci dà la descrizione e il significato della Cena Pasquale cristiana celebrata per ordine dello stesso Signore: non un pasto qualunque, anche se con carattere religioso, ma un banchetto sacrificale e Pasquale indissolubilmente legato al Sacrificio di Gesù, vero Agnello morto e glorificato per causa dei nostri peccati e per questo vera nostra Pasqua; un banchetto segno della nuova e definitiva comunione con Dio e tra gli uomini per mezzo di Cristo; rito memoriale della morte salvifica del Signore finché Egli venga.

Il Vangelo, Gv 13,1-15, è strettamente legato alle due letture anteriori e le illumina con la figura di Gesù, che pur essendo Signore e Maestro si fece servo, lavando i piedi dei suoi discepoli.

Questo gesto di Gesù è più che un atto d’umiltà. È un gesto attraverso il quale il Signore vuol far comprendere il significato profondo della sua missione redentrice: un servizio d’amore a Dio e agli uomini che arriva all’apice nella Passione e morte: “Non sono venuto per essere servito, ma per servire e dar la vita in riscatto per molti“ (Mc 10, 45). Giovanni introduce il gesto e lo sottolinea con forza e solennità di linguaggio: “ Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine (Gv 13, 1).

Siamo davanti al duplice dono della carità di Gesù realizzato nel giorno tipico della “traditio” (= consegna), cioè del dono supremo di sé:

— Gesù consegnato alla morte per i nostri peccati;

— Gesù consegnò ai suoi il precetto e i sacramento dell’amore.

È importante notare lo stretto e indivisibile nesso che il Vangelo stabilisce tra questi elementi: — il servizio / la carità fraterna / la Passione del Signore / la celebrazione eucaristica.

I testi della rivelazione ci ricordano all’unanimità che la celebrazione del “servizio” e della “umiliazione” del Signore nella Messa, esigono l’imitazione dell’esempio di Gesù nella vita personale: “Vi ho dato l’esempio perché come ho fato io, facciate anche voi”(Gv 13,15).

La pratica del comandamento della carità fraterna è il vero segno della Pasqua di Gesù fatto nostro nel sacramento ed espresso nella vita. È il segno del nostro passaggio dalla morte alla vita. È questo ciò che afferma S. Giovanni: “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita (= che realizziamo la Pasqua), perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte” (1Gv 3,14).

Il rito della lavanda dei piedi, nelle Chiese dove è realizzato, aiuta a comprendere meglio questo grande e fondamentale precetto cristiano: il servizio concreto dell’umile carità fraterna. Se, al contrario, si riduce soltanto ad una messa in scena sentimentale e priva di autenticità, è meglio sostituirla con un gesto più vero e concreto di carità: la presentazione, per esempio di offerte per i poveri all’inizio della celebrazione eucaristica.

C. La Reposizione e l’Adorazione dell’Eucaristia

Alla fine della celebrazione della Messa della Cena del Signore, le sacre Specie vengono portate processionalmente fino al luogo della reposizione convenientemente preparato, perché siano adorate e custodite per la comunione del Venerdì Santo.

La Chiesa, in questa notte in cui ricorda l’istituzione dell’Eucaristia, con il segno dell’adorazione vuole rilevare anche quest’aspetto emanante e dipendente dalla celebrazione della Messa: la presenza permanente di Gesù nelle Specie eucaristiche. Questo sacramento, in fatti, non deve essere adorato di meno, per il fatto di essere stato istituito da Gesù per essere ricevuto.

Così la Chiesa il Giovedì Santo ci aiuta a “considerar il Mistero eucaristico in tutta la sua ampiezza, tanto nella stessa celebrazione della Messa quanto nel culto delle sacre Specie, che sono conservate dopo la Messa per estendere la grazia del Sacrificio” (Eucharisticum. Mysterium, 3g).

L’Adorazione deve terminare a mezza notte, per rispettare il significato della celebrazione di questi giorni. A quest’ora il ricordo dell’Eucaristia è sostituito con quello del tradimento, della cattura, della Passione e della morte di Gesù. Termina, per tanto, opportunamente l’adorazione eucaristica e inizia il Triduo Pasquale del Venerdì – Sabato – Domenica.

La nostra pietà deve essere sempre Vera anche nei suoi segni esterni.

IN SINTESI:

Il Giovedì Santo è il giorno conclusivo della Quaresima e non fa parte del Triduo Pasquale.

Come tale è opportuno riservarlo alla celebrazione del Sacramento della Riconciliazione.

In questo giorno si celebra un’unica Messa Vespertina «In Cena Domini», cioè della “Cena del Signore”, che segna l’apertura del Triduo Pasquale.

Così, mentre il Triduo sottolinea in certo senso i momenti crono1ogici dell’attuazione del Mistero Pasquale, la Messa della “Cena del Signore” sottolinea l’aspetto rituale attraverso il quale Gesù ci dà la sua Pasqua perché la rinnoviamo.

Un’accentuazione particolare merita l’aspetto di servizio ai fratelli nella carità, perché è strettamente unito alla Passione del Signore e alla celebrazione eucaristica.

IL PRIMO GIORNO DEL TRIDUO PASQUALE:
IL VENERDÌ SANTO

Il primo giorno del Triduo Pasquale è il Venerdì Santo, il cui momento forte è costituito dalla solenne azione liturgica nella Passione e morte del Signore.

In ogni Eucaristia, la Chiesa celebra sempre la Morte del Signore, assieme alla sua Risurrezione, con la quale forma l’unico Mistero Pasquale.

Il Venerdì Santo, però, gli consacra uno speciale Rito Commemorativo che, normalmente, viene effettuato nell’ora in cui il Salvatore spirò sul Calvario.

Questa celebrazione comprende quattro parti:

  1. La Liturgia della Parola
  2. La Solenne Preghiera dei Fedeli
  3. L’Adorazione della santa Croce
  4. La Comunione Eucaristica

La Liturgia non considera il Venerdì Santo come un giorno di lutto e di lacrime, ma come un giorno di contemplazione amorosa del Sacrificio cruento di Gesù, che è fonte della nostra salvezza. La Chiesa, oggi, non ricorda l’anniversario della morte, ma celebra la morte vittoriosa di Gesù. Per questo usa l’espressione “beata e gloriosa” Passione, e i testi della liturgia hanno un tono proprio delle celebrazioni epiche e trionfali. L’aspetto di umiliazione e di morte è sempre associato all’altro di glorificazione e risurrezione. L’Istruzione Generale del Messale Romano riformato a norma delle disposizioni del Concilio Vaticano II, opportunamente elimina il colore nero e viola dei paramenti, sostituendolo con il color rosso (n. 308.b).

1. La Liturgia della Parola

La prima parte dell’azione liturgica odierna ci offre la più antica forma di celebrazione della Parola. Dopo la prostrazione e una breve preghiera, viene eseguita la proclamazione delle letture.

Senza molti riti introduttori, l’assemblea si mette ad ascoltare la Parola di Dio. È una celebrazione ridotta all’essenziale, nella quale tutto converge verso la proclamazione della Parola.

1.1 Nella prima lettura parla il profeta. Il brano è tratto dal profeta Isaia (52, 13-15; 53, 1-12) e è accompagnato dal titolo significativo: “Egli è stato trafitto per i nostri peccati“.

È il quarto canto del Servo di Jahvè, il più ricco di dottrina e il più importante dal punto di vista teologico.

Nei primi versetti (52, 13-15) è presentato il tema: il contrasto tra due estremi opposti: prima la massima abiezione e umiliazione dopo il trionfo più clamoroso e inaspettato, celebrato da tutti, re inclusi, i quali “si chiuderanno la bocca”.

Segue (53, 1-12) la descrizione e la spiegazione dello straordinario passaggio dalla situazione di Passione-morte a quella di glorificazione. Il Mistero di questo servo è tale che suscita le meraviglie delle nazioni.

L’origine di questo personaggio è umile e ignorata dal mondo, ma è un virgulto previsto e voluto da Dio, nella cui presenza egli cresce.

Le caratteristiche del Servo di Jahvè sono umiliazione e deformità. Egli non si trova in questa situazione a causa di peccati personali, ma per un castigo o sofferenza “vicario”: è innocente e soffre per le iniquità degli altri. Ma è proprio da questo abisso di abiezione che sbocciano i suoi meriti ( 53, 10-12).

Il senso letterale di questo cantico passa con una certa facilità dall’aspetto collettivo (il popolo d’Israele) all’aspetto individuale (una persona concreta).

È il N. T. che ci dà il significato pieno della personalità del Servo Sofferente vedendola realizzata nella persona di Gesù. Con questa pienezza di significato data dagli Evangelisti, la Chiesa legge oggi la Parola profetica di Isaia, chiamato “l’evangelista della Passione e morte di Cristo”.

La risposta a questa Parola di Dio, la Chiesa la dà con il Salmo 30, il cui sesto versetto è stato pronunciato da Gesù sulla Croce, secondo la testimonianza di Luca: “Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Detto questo, spirò” (Lc 23, 46).

Con questo versetto, scelto come ritornello per essere cantato dall’assemblea, la liturgia odierna attribuisce a Gesù tutto il Salmo, vedendo in esso la descrizione della sua Passione e del suo pieno abbandono al Padre.

Sono proclamate le parti più significative applicabili al Crocifisso.

1.2 Nella seconda lettura parla l’Apostolo. Il brano è tratto dalla Lettera agli Ebrei (4, 15-16; 5,7- 9) e ha come titolo: “Cristo imparò l’obbedienza e divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono”.

Dopo che il profeta Isaia ci ha presentato l’uomo dei dolori, il testo della Lettera agli Ebrei sottolinea che la figura del “Servo di Jahvè” non solo si realizza pienamente in Cristo, ma Egli è anche il “sommo sacerdote”, al quale è dovuta tutta la nostra fedeltà e fiducia.

Il motivo di questa sicurezza all’accostarci “con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno” (4, 16), nasce dal fatto che Cristo, Sacerdote e mediatore per la sua stessa natura in quanto Verbo Incarnato, avendo assunto la natura umana con tutte le sue limitazioni, le sue sofferenze, la stessa morte, escluso il peccato, si trova nelle migliori condizioni per “saper compatire” le nostre infermità (v. 15).

Il testo ci presenta, in un secondo momento, Gesù sommo sacerdote nell’atto supremo della sua mediazione: l’ora del Getsemani e del Calvario. L’autore della Lettera agli Ebrei accentua l’obbedienza di Gesù, il quale “pur essendo Figlio imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì” (5, 8), e la sua preghiera al Padre per ottenere la piena attuazione della sua volontà salvifica: “Egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà”(v. 7).

La lettura termina mettendo in risalto l’efficacia della mediazione di Cristo Gesù, soprattutto nel suo Mistero Pasquale, per quanti accettano di aderire a Lui mediante l’obbedienza della fede: “.. reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (v. 9).

Per mezzo del Sacrificio del Calvario e a partire da quel momento noi abbiamo ” un sacerdote grande sopra la casa di Dio” (Eb 10, 21).

Come risposta alla parola dell’Apostolo e come preparazione all’ascolto della narrazione della Passione l’assemblea canta il testo di Paolo ai Fil 2, 8-9: “Per noi Cristo si è fatto obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è sopra ogni altro nome”.

1. 3. Nella terza lettura parla l’Evangelista. La liturgia stabilisce per il Venerdì Santo la lettura della narrazione della Passione secondo S. Giovanni, capitoli 18 e 19. La scelta non è fatta a caso, ma in base all’ottica con la quale l’Apostolo presenta la vita e la morte di Gesù: sfondo Pasquale sul quale domina l “ora” di Gesù, ora nella quale il Padre glorifica il Figlio, e il Figlio glorifica il Padre.

La liturgia del Venerdì Santo, con questa visione giovannea del Mistero Pasquale, vuole aiutarci a comprendere i segni della divinità e della gloria di Cristo Gesù, soffermandosi più su quest’aspetto che sulla descrizione della sua sofferenza umana. La morte di Gesù è una morte sacramentale, cioè attraverso questa morte Dio distrugge la morte entrata nel mondo con il peccato.

Va sottolineata anche l’importanza che Giovanni attribuisce all’influsso della morte del Signore nella vita della Chiesa: il carattere sacerdotale di questa morte (è lo sviluppo del tema della lettura precedente); il suo prolungamento sacramentale nell’acqua e nel sangue, la sua intima unione con il dono dello Spirito e con la nascita della Chiesa rappresentata da Giovanni e Maria.

2. La Solenne Preghiera dei Fedeli

Alla Liturgia della Parola segue la Preghiera Universale per le grandi intenzioni della Chiesa e del Mondo.

La preghiera comune o dei fedeli ci è stata trasmessa attraverso la liturgia del Venerdì Santo nella sua forma più ricca e classica. Il formulario attuale risale certamente al secolo V, ma lo stile delle preghiere che lo compongono è senza dubbio più antico.

La Chiesa, che ha per capo Cristo Gesù sommo e unico sacerdote, in nome e per pezzo del suo capo, presenta al Padre le sue grandi intenzioni.

Con questa solenne preghiera tutta la famiglia di Dio e tutta l’umanità è condotta ai piedi della Croce sulla quale Gesù muore per tutti.

Si prega per l’intera umanità, per la quale Gesù ha dato la sua vita:

— per la Chiesa – per il Papa – per tutti gli ordini sacri per tutti i fedeli – per i catecumeni – per l’unità dei Cristiani – per gli Ebrei – per i non cristiani – per coloro che non credono in Dio – per i governanti – per i tribolati.

Non si deve cercare in queste preghiere un nesso diretto con il Mistero della Croce, ma dobbiamo vedere in esse quelle intenzioni generali che la Chiesa deve avere in ogni celebrazione liturgica, secondo le indicazioni date dal Concilio a proposito della “preghiera dei fedeli” nella Messa e che devono essere normative per ogni formulario di questa preghiera.

3. L’Adorazione della Santa Croce

Terminata la Preghiera universale, dovrebbe cominciare la liturgia eucaristica. Ma il Venerdì Santo, la Chiesa non celebra l’Eucaristia. La liturgia è centrata tutta nel Sacrificio cruento di Gesù, non nel rito memoriale. Per questo motivo, non si celebra la Messa, ma si fa l’ostenzione e adorazione solenne della Santa Croce. Tuttavia non si deve dimenticare che il vero Mistero della Croce si rinnova nella Messa e non nella venerazione dell’immagine del Crocifisso. Si deve notare ancora che l’espressione “adorazione della Croce” può essere ambigua; adoriamo, in fatti, la persona di Gesù Crocifisso e il Mistero che questa morte significa per noi.

Il rito dell’ostenzione e adorazione della Croce nasce come atto conseguente alla proclamazione della Passione di Gesù.

La Chiesa innalza il segno della vittoria del Signore quasi per concretizzare in questo gesto la realizzazione della sua Parola: ” Quando avrete innalzato il Figlio dell’Uomo, allora saprete che Io sono” (Gv 8, 28; vedere Gv 12, 32).

Il rito vuole, per tanto, significare quest’aspetto vittorioso e trionfale dello scandalo della Croce: “Ecco il legno della Croce, al quale fu appeso il Cristo, Salvatore del mondo!”.

L’assemblea risponde: “Venite, adoriamo!”. L’atto con il qual Gesù si consegna al Padre e agli uomini sulla Croce è il segno massimo dell’amore: “Dio ha tanto amato il modo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3, 16).

È nella visione di quest’amore che si manifesta a noi in Gesù crocifisso, che possiamo comprendere il significato dei “lamenti del Signore”, o “improperi”, che sono cantati in questo momento della liturgia. È il dialogo tra Dio e il suo popolo: – Vedi ciò che Io ho fato per te, vedi ciò che tu hai fatto a me!.

A questo punto la Chiesa non può trattenere un inno di lode e di glorificazione. Infatti, l’Agnello che fu immolato “È degno di ricevere potere, onore, gloria e benedizione” (Ap 5, 12).

Allora, mentre prosegue l’adorazione, l’assemblea canta a Gesù Vincitore della morte e proclama già la sua risurrezione con un’antifona di origine bizantina:

Adoriamo la tua Croce Signore,
lodiamo e glorifichiamo la tua santa risurrezione.
Dal legno della Croce è venuta la gioia in tutto il mondo”.

Il significato della morte vittoriosa di Gesù è riassunto in un inno composto da dieci strofe e intercalato con una antifona in onore dell’albero della Croce: “O Croce fedele… Canta, o lingua, il glorioso combattimento…” .

Alla fine dell’adorazione, la Croce viene collocata in alto sull’altare, che è simbolo del Sacrificio e del sacerdozio di Gesù.

L’assemblea contempla il suo Signore.

Non si possono dimenticare in questo momento le Parole del profeta citate da Giovanni nella narrazione della Passione :

Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19, 37).

4. La Comunione eucaristica

Anticamente la Chiesa guardava all’Eucaristia come all’alimento più reale di tutti gli altri. Durante questi due giorni lo sposo è assente, per questo, secondo il suggerimento del Signore, si digiuna non solo dell’alimento materiale, ma anche di quello spirituale, cioè dell’Eucaristia, nell’attesa del suo ritorno.

Tuttavia in questo giorno la Comunione ha significato come partecipazione più intima e intensa al Sacrificio di Gesù, che si consegna per noi al Padre.

La solenne azione liturgica nella Passione e Morte del Signore termina con tre orazioni nelle quali la Chiesa chiede a Dio:

  • la grazia, nata della Passione di Cristo, del perdono dei peccati ;
  • la grazia di testimoniare nella vita il Mistero della morte del Signore, al qual partecipiamo mediante il sacramento;
  • la grazia di essere santificati dal Mistero Pasquale inaugurato nel sangue di Gesù.

4.1 Il Digiuno Pasquale

Come segno esteriore di partecipazione interiore nel Sacrificio di Gesù, “perché la vita di Gesù sia manifestata anche nella nostra carne mortale” (2Cor 4, 11), e come segno che “sono venuti i giorni in cui lo sposo ci stato strappato” (cfr. Lc 5, 33-35), il Venerdì Santo è giorno di digiuno.

La Costituzione Liturgica lo prescrive espressamente:

«Sia religiosamente conservato il digiuno pasquale, da celebrarsi ovunque il Venerdì della Passione e Morte del Signore, e da protrarsi, se possibile, anche il Sabato Santo, in modo da giungere con animo sollevato e aperto ai gaudi della domenica di Risurrezione» (SC 110b).

Questo digiuno è chiamato “pasquale” perché ci fa vivere il “transitus”, il passaggio dalla Passione alla gioia della risurrezione.

Digiuno e celebrazione della Passione e morte di Gesù si integrano e richiederebbero anche il digiuno eucaristico. Nella tradizione antica della Chiesa nei giorni di digiuno non si celebrava l’Eucaristia.

Questa costumanza è praticata ancora oggi nella Chiesa Ambrosiana nei Venerdì della Quaresima e nel Venerdì del Triduo Pasquale. Invece, la Domenica, giorno della Pasqua e della celebrazione del suo memoriale, l’Eucaristia, non si digiuna né ci mettiamo in ginocchio.

Da ciò si capisce che il digiuno pasquale non è elemento secondario, ma essenziale nella celebrazione del Triduo: per questo siamo consigliati a estenderlo anche al Sabato fino alla celebrazione eucaristica della notte.

IN SINTESI:

Il Venerdì Santo per la Chiesa non ha il significato di un giorno di lutto, ma di un giorno d’amorosa contemplazione della Gloriosa Passione del Signore.

È indispensabile per la vera fede scoprire quest’aspetto essenziale del Mistero della morte di Gesù: una morte che Gesù accetta per amore del Padre e degli uomini, per essere vinta in Lui e per la nostra salvezza.

Il cammino che porta il Cristiano a questa scoperta, è la contemplazione delle umiliazioni e delle sofferenze inenarrabili del crocifisso; ma questa contemplazione sarebbe sterile e sentimentale senza la fede che ci dice come attraverso questa Passione Dio opera la nostra salvezza.

La liturgia di questo giorno, attraverso la Parola di Dio, i riti e le orazioni, ci presenta il significato vittorioso della morte di Gesù.

Opportunamente la riforma liturgica stabilisce che il colore dei paramenti non sia il nero né il viola, ma il rosso.

IL SECONDO GIORNO DEL TRIDUO PASQUALE:
IL SABATO SANTO

Il Sabato Santo è il secondo giorno del Triduo Pasquale.

Il Giovedì Santo apre il Triduo commemorando l’Eucaristia, la Pasqua rituale affidata alla Chiesa. Il Venerdì Santo celebra la Pasqua-Passione e la Veglia Pasquale la Pasqua–Risurrezione.

Al Sabato Santo spetta celebrare il momento più silenzioso e di abbassamento nella morte. Celebra la Pasqua-passaggio nella sua fase discendente più profonda. Se l’incarnazione porta il Figlio di Dio sulla terra nella persona di Gesù, la sepoltura lo pone nel ventre della terra.

Nella nostra tradizione liturgica non esistono assemblee particolari. Il Sabato Santo è giorno aliturgico, cioè senza la celebrazione dell’Eucaristia. Anticamente i fedeli si astenevano perfino dall’assemblea della preghiera, cioè anche dalla gioia di riunirsi.

Rimane però l’opportunità di celebrare parte della Liturgia delle Ore, che soprattutto nell’Ufficio delle letture sviluppa con inni, antifone, salmi e letture il mistero di questo giorno. È giorno di fede e di speranza. La Chiesa celebra il riposo di Gesù nel sepolcro dopo il vittorioso e glorioso combattimento della Croce, e aspetta il compimento della sua Parola: “Al terzo giorno risorgerò”.

Per questo, oggi la Chiesa si ferma in preghiera con la recitazione dell’Officio Divino o con altri momenti di preghiera per contemplare la tomba di Gesù, dalla quale sboccerà la vita. Nella tomba le membra mortali e sofferenti di Gesù riposano come la semente nel seno della terra, nell’attesa della vita definitiva e gloriosa che, questa notte, sorgerà. La Sua morte è il pegno della nuova Creazione, che si avvicina.

Il Sabato Santo ci ricorda pure il vincolo mai interrotto, che unisce la Madre al Figlio dal momento dell’Incarnazione fino alla “Ora” della Madre, cioè l’ora della fede di Maria, che non dubitò davanti al sepolcro e attese la risurrezione del Figlio.

Vivere il Sabato Santo in compagnia di Maria significa:

  • partecipare nella fede della Vergine Maria mentre attende la resurrezione di Gesù e poi nella sua gioia quando si incontra con Gesù risorto;
  • accogliere Maria, Vergine del silenzio e dell’ascolto, come guida che ci conduce a immergerci pienamente nel Mistero Pasquale;
  • disporci quindi a celebrare la Veglia pasquale animati dall’atteggiamento di Maria, la quale, come Madre e “discepola”, nel “gran sabato”, sola tra tutti i discepoli, attese vigilante nella fede la resurrezione di Gesù;
  • radicarci in questo atteggiamento per celebrare la festa della risurrezione, la Domenica, partecipando nella gioia di Maria per la risurrezione di suo Figlio Gesù;
  • vivere il ricordo della Vergine Maria ogni sabato come coinvolgimento nel fatto che Maria è sempre unita a Gesù e nello stesso tempo è sempre presente e operante nella vita della Chiesa.

IL TERZO GIORNO DEL TRIDUO PASQUALE:
LA GRANDE VEGLIA PASQUALE

1. Significato e Valore della Veglia

Dopo un giorno d’attesa, se viene vissuto con autenticità, si fa più viva la speranza e si può capire meglio il significato e il valore della Veglia Pasquale.

La Veglia non ha il significato di una Veglia biblica di preghiera o penitenziale per prepararci alla festa della Pasqua, ma è la stessa Pasqua celebrata vigilando. “Veglia Pasquale”, è sinonimo di “notte di Pasqua”: notte del passaggio del Signore, notte del nostro nuovo esodo in Cristo e per Cristo.

La Chiesa è riunita non già per attendere la Risurrezione del Signore, come se il Signore non fosse già il Risorto (sarebbe in questo caso una specie di rappresentazione teatrale).

La Chiesa veglia perché attende il ritorno definitivo del Signore, quando la Pasqua (il “transitus” ) avrà il suo pieno compimento.

Il significato della Veglia sta nella attesa della beata speranza e dell’ultima venuta del Signore Gesù nella gloria, quando anche noi saremo rapiti con Lui nella gloria.

“Viviamo l’ultima notte che ci separa dall’alba dopo la quale mai più sarà notte; stiamo alla porta del banchetto delle nozze e lo Spirito sospira in noi per il momento in cui la porta si aprirà”, giacché lo Spirito e la sposa dicono al Signore Gesù: Vieni!6.

Mai come in questa notte l’attesa della Chiesa nella speranza si fa più profonda, viva e acuta.

“Per antichissima tradizione questa «è la notte di Veglia in onore del Signore» (Es 12, 42). I fedeli, portando in mano – secondo l’ammonizione del Vangelo (Lc 12, 35 ss.), la lampada accesa, assomiglino a coloro che attendono il Signore al suo ritorno, in modo che, quando egli verrà, li trovi ancora vigilanti e li faccia sedere alla sua mensa”7.

Il significato più vero della Veglia è questo: noi stiamo vivendo già la Pasqua che celebriamo attraverso il rito: la celebriamo affinché operi sempre più profondamente in noi mentre attendiamo la Pasqua eterna; “Cristo è la nostra Pasqua” (1Cor 5, 7); ” la notte è avanzata, il giorno è vicino; gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce ” (Rom 13, 12-14).

Questa notte santa è il vertice, il cuore e al fonte d’ogni liturgia, la chiave di tutto l’edificio liturgico.

“La Veglia Pasquale, durante la notte in cui Cristo è risorto, è considerata come « la madre di tutte Veglie». In essa la Chiesa attende, vegliando, la risurrezione di Cristo, e la celebra nei sacramenti. Quindi tutta la celebrazione di questa sacra Veglia si deve svolgere di notte, cosicché cominci dopo l’inizio della notte o termini prima dell’alba della domenica”8

Questa Veglia Pasquale è notturna per sua natura. Il simbolismo del “passaggio” dalle tenebre alla luce, dalla notte al giorno esprime il Mistero più profondo della Pasqua. Non solo perché ricordiamo la notte dell’uscita del Popolo eletto dall’Egitto e la notte del sepolcro dal quale Gesù risuscitò sul far del giorno della Domenica, ma soprattutto perché il Mistero celebrato è un “passaggio”, una trasformazione che si realizza nell’uomo per mezzo della grazia di Gesù Risorto. È la Pasqua.

In questa notte non è lecito dormire, tutti i battezzati devono vegliare nell’attesa di Gesù Risorto.

Il simbolismo fondamentale della celebrazione della Pasqua è quello di essere una notte “illuminata” e “dimostrare e ricordare in che modo dalla morte del Signore scaturì la nostra vita di grazia” (Nuovo Ordo).

2. Riti della Veglia Pasquale

La celebrazione si svolge interamente nella gioia della Pasqua con un ritmo progressivo e ascensionale che sfocia nella liturgia eucaristica.

La celebrazione con le sue differenti parti costituisce un tutto unitario, il cui nucleo essenziale è la proclamazione del Mistero Pasquale attraverso la Parola e la sua attuazione in noi per mezzo dei Sacramenti Pasquali del Battesimo e dell’Eucaristia.

Siamo di fronte alla celebrazione più forte del rinnovo della Alleanza: Dio ci propone il suo disegno d’amore; noi ci impegniamo nella fede ad accettarlo; l’Alleanza è effettuata e sigillata con il Sacrificio di Gesù. Questa è la nostra Pasqua.

2.1 – Liturgia della Luce e solenne annuncio della Pasqua.

La prima parte della Veglia celebra la luce di Cristo, infatti, soprattutto con la sua Risurrezione è la luce del mondo (cfr. Gv 1, 9; 8, 12; 12, 35-36).

Anche noi che partecipiamo del suo Mistero mediante i Sacramenti dell’iniziazione cristiana (Battesimo – Cresima – Eucaristia) siamo “luce nel Signore” (Ef. 5,8).

Il rito, per tanto, deve creare una atmosfera di allegria che penetri tutta la celebrazione e deve mettere in evidenza il “segno” della luce, cioè il significato Pasquale della luce che nasce dalle tenebre.

Questa atmosfera deve nascere dalla benedizione del fuoco, dell’accensione del Cero e dalle candele che i fedeli devono tenere nella mano. In mezzo a queste luci il Cero Pasquale è il segno principale.

Dopo essere stato acceso, il cero viene portato processionalmente verso l’altare dal Diacono (o dal Celebrante) seguito dal popolo.

Il significato Pasquale di peregrinazione, di marcia, verso l’eternità è evidente. Siamo il nuovo popolo di Dio, nato dalla Pasqua; peregrinando seguiamo Gesù Risorto, nostro capo e luce del mondo, attraverso il deserto della vita presente verso la patria celeste.

Il Cero viene collocato su un candelabro, in mezzo al Presbiterio, e domina l’assemblea. Allora il Diacono, o il Celebrante, proc1ama solennemente nella gioia della luce di Cristo le feste pasquali. Annuncia il messaggio della Risurrezione e celebra, con una stupenda preghiera di azione di grazie, le maraviglie operate da Dio in questa notte santa, culmine di tutta la Storia della Salvezza.

2.2. – Liturgia della Parola

Dopo la benedizione della luce e l’annuncio della Pasqua, la Chiesa medita le meraviglie che il Signore effettuò in favore del suo popolo fin dall’inizio e rinnova la sua fiducia nelle Parole e nelle promesse divine.

È la notte santa nella quale si compirono in Cristo morto e risorto le grandi opere annunciate e preparate negli interventi dell’A. T..

Il simbolo della luce del Cero cede il posto alla realtà di Cristo, luce del mondo, presente nella sua Parola proclamata nella Chiesa.

Queste letture c’introducono nel significato e nell’importanza che ha la Pasqua nella vita della Chiesa e d’ogni cristiano. Devono, per tanto, essere comprese in relazione ai Sacramenti pasquali mediante i quali moriamo e risuscitiamo in Cristo e nel quadro della Storia della Salvezza.

Questa lettura della Parola di Dio è parte fondamentale della Veglia Pasquale. Per questo deve essere proclamata in un clima di meditazione e preghiera. Si deve creare un vero dialogo con Dio. Per tanto, sono essenziali i momenti di silenzio dopo la lettura; le acclamazioni: il canto o la recitazione dei ritornelli e dei salmi responsoriali. La valorizzazione di questi elementi incrementa il grado di partecipazione viva e interiore dell’assemblea nella liturgia.

Ordine delle letture:

1ª Lettura: La creazione del mondo: Gn 1, 1-2, 2

o : La creazione dell’uomo: Gn 1, 26- 31a,

2ª Lettura: Il Sacrificio di Abramo: Gn 22, 1-18

3ª ” : L’uscita dall’Egitto: Es 14,15-31; 15,1

4ª ” : La nuova Gerusalemme: Is 54, 5-14

5ª ” : La salvezza offerta gratuitamente a tutti: Is 55 1-11

6ª ” : La fonte della sapienza: Bar 3,9-15; 32-38; 4,l-4

7ª ” : Un cuore nuovo e uno spirito nuovo: Ez 36,24-28

8ª ” : Testo battesimale della Lettera ai Rom: 6,3-11

9ª ” : Il Vangelo della Risurrezione: Mt 28, 1-10

2.3 – Liturgia Battesimale

La terza parte della Veglia ha come punto centrale il fonte battesimale, cioè il luogo nel quale per ogni uomo la Pasqua di Cristo divenne sorgente di salvezza nel segno dell’acqua accompagnato dalla preghiera. Nel fonte battesimale, nascono, in questa notte, nuovi figli alla Chiesa, comunità dei fedeli riuniti in torno al Risorto. Questo fonte è nello stesso tempo sepolcro del peccato e seno materno dal qual nasce la vita.

La benedizione del fonte significa che la grazia del battesimo non nasce dall’acqua in quanto elemento materiale, ma dallo Spirito Santo che la santifica.

Per tutti i battezzati questa è la notte dell’anniversario ideale del Battesimo. Per questo l’assemblea rinnova le promesse battesimali.

Tutta la Quaresima con il suo carattere penitenziale e battesimale dovrebbe essere stata una preparazione per quest’atto, che sarà efficace nella misura in cui ogni battezzato ha preso coscienza, con una fede illuminata e vissuta, dell’importanza del battesimo, gesto con il quale Gesù c’inserì nel Mistero della sua morte – risurrezione.

Tuttavia questa partecipazione arriva al suo culmine nella Celebrazione Eucaristica, giacché è nella Messa che si effettua l’adesione battesimale definitiva.

Per questo le promesse battesimali vengono rinnovate nel contesto della Celebrazione Eucaristica e per una più efficace partecipazione in essa.

2.4 – Liturgia Eucaristica.

A questo punto della Veglia si celebra l’Eucaristia. Stiamo nel cuore della Veglia Pasquale: sono i primi momenti del gran giorno atteso: il giorno che il Signore ha fatto, l’alba del giorno che vide il Cristo Risorto.

Tutto ciò che la Chiesa realizza durante l’anno liturgico converge verso questa Messa e parte da questa Messa Pasquale.

L’Eucaristia di questa notte è la più alta e significativa “azione di grazie” data dalla Chiesa al Padre per averci dato il suo Figlio morto e risorto.

Non c’è un “congresso” migliore di quest’assemblea, in torno all’altare della Pasqua, nel quale si rinnova il Mistero dell’immolazione e della glorificazione di Cristo Gesù.

Tutto il Mistero cristiano è qui, tutta la meraviglia dei Sacramenti, tutto il significato del destino divino degli uomini.

“La Pasqua è il momento in cui ebbe inizio la vera eucaristia! Perciò anche il Mistero della notte Pasquale si incentra sull’Eucharistia, che Cristo non presenta più da solo, ma assieme la sua Ecclesia. Questa partecipa alla sua Eucharistia, che inaugura la grande solennità della Pentecoste, nella quale ininterrottamente la Chiesa redenta ringrazia il Padre assieme al Figlio”9.

Il frutto della Pasqua è il dono dello Spirito Santo effuso nei nostri cuori e che deve essere testimoniato da una viva espressione della “nostra comunione con il Padre e con il suo Figlio Gesù Cristo” (1Gv 1, 3).

IN SINTESI:

Il cristiano deve comprendere che “celebrare la Pasqua” significa accettare un grande dono di Dio che trasforma interamente la sua vita, facendola simile a Cristo Gesù morto per i nostri peccati e resuscitato per la nostra santificazione. È il dono di un passaggio da una condizione di vita ad un’altra.

La santità cristiana, per tanto, non è conquistata per mezzo delle nostre forze, ma consiste essenzialmente nel dare una risposta concreta e coerente di vita al dono della fede e alla grazia del Battesimo.

La santità cristiana che nasce dalla fede e dal Battesimo è santità Pasquale, perché nasce dalla Pasqua e fa nostra la Pasqua di Gesù. La santità Pasquale esige che la condotta morale sia una continua morte al peccato e agli egoismi, per vivere la vita nuova di resuscitati in Cristo Gesù. La Parola di Dio e l’Eucaristia alimentano questa vita divina e la portano al suo pieno compimento.

4. Entrare nel Triduo per celebrare, contemplare, annunciare il Mistero Pasquale

Nell’ordinamento attuale della liturgia il Triduo Pasquale è complesso e differenziato. È facile quindi disperdersi nei particolari e perdere di vista la sua profonda unità teologale e celebrativa.

Il cammino per non disperderci e arrivare al centro della celebrazione, è costituito da tre dimensioni fondamentali dell’ordinamento liturgico del Triduo, che si concretizzano nel: celebrare, contemplare e annunciare il Mistero Pasquale.

Celebrare il mistero

Celebrare viene dal latino «celeber, celebrare», che ha una connotazione di «frequente, frequentare», ma che soprattutto esprime il carattere festivo, rituale e comunitario nell’azione. Anche nella vita sociale si parla di celebrare feste, compleanni, matrimoni, vittorie, ecc. Questi termini sottolineano che nella Liturgia, oltre al rito esteriore, esiste una realtà interiore, tanto quella di Cristo che quella delle persone che celebrano.

Per tanto, nella celebrazione, la fede cristiana è espressa come fede in Cristo che ha operato la nostra salvezza per mezzo di una serie di eventi, che ricevono la pienezza della loro efficacia dal Mistero Pasquale, che è il compimento dei precedenti misteri. Non ci sarebbe stata la morte-risurrezione senza l’incarnazione, la vita nascosta, la scelta messianica del Servo sofferente; ma tutto ciò riceve pienezza di luce e di significato nell’evento pasquale.

Questi eventi scandiscono il ritmo della vita della Chiesa con la celebrazione delle feste cristiane e l’elaborazione dell’anno liturgico col suo ciclo di Natale (Epifania), Pasqua e Pentecoste, e con la fissazione del “giorno del Signore” quale ricorrenza della Pasqua.

L’anno liturgico è in tal modo lo stesso mistero di Cristo attuato e celebrato sacramentalmente per farlo nostro e viverlo, è l’esplicitazione e la sintesi dell’unico Mistero Pasquale. La celebrazione liturgica è un modo «sacramentale» di incontrarci con i «misteri di Cristo», cioè con le sue azioni storiche che rivelano e attuano il piano della salvezza.

Il Triduo è denso di celebrazioni che, per il loro svolgimento comunitario e per la loro preparazione ministeriale, assorbono molto tempo in ogni comunità, sottraendolo al servizio e alla missione. Ma non è tempo perso. Infatti, proprio per evangelizzare e servire, la Chiesa ha bisogno di ritrovarsi in famiglia, di attingere alle sorgenti, di riannodare i legami, di rinnovare i motivi della sua azione. Qui la Chiesa si scopre comunità di discepoli intorno al Risorto, si pone con decisione sulla via della sequela del Maestro, sino alla Croce, si fa umile e servizievole con Lui che si è fatto Servo, e di nuovo gioisce per le sue nozze con lo Sposo.

Contemplare il Mistero

La celebrazione liturgica è un modo «sacramentale» di incontrarci con i «misteri di Cristo», cioè con le sue azioni storiche che rivelano e attuano il piano della salvezza. Quando celebriamo il Mistero di Cristo noi riceviamo la vita, veniamo coinvolti nelle grandi realtà della salvezza che esso contiene, attraverso Cristo-uomo giungiamo a Cristo-Dio.

Questo modo «sacramentale» di incontrarci con i «misteri di Cristo», si prolunga nel nostro mondo interiore, e così ha origine un modo spirituale di prendere contatto con i fatti della vita di Cristo, considerandoli sotto l’aspetto della dimensione storica umana e simbolica. Allora la celebrazione liturgica coinvolge tutta la persona, fede e ragione, affettività e attività, e può diventare luogo d’incontro con se stessi, con gli altri e con Dio.

La via per coinvolgerci in modo vitale nel Mistero celebrato, è il cuore aperto alla contemplazione. Per celebrare e far nostro il Mistero, abbiamo bisogno di “un prima” e di “un dopo”, per contemplarlo, per farlo passare nel nostro cuore, nella nostra vita affettiva e quindi viverlo nella nostra vita quotidiana. Quanto più i nostri occhi e il nostro cuore si soffermano a guardare con attenzione amorosa l’opera di Dio raccontata nella storia della salvezza, tanto più entriamo in sintonia con le vie di Dio e con i suoi pensieri, spesso così lontani dai nostri modi di vedere e di ragionare (Is 55, 8-9). La nostra interiorità è come un pozzo; essa, perciò raccoglie; è accoglienza; è sete; è attesa, speranza; è povera, essenzialmente povera. In essa si va lentamente riversando la grazia del Mistero celebrato, che poi come acqua viva è diffusa sulla terra circostante.

Annunziare il Mistero

Con il Mistero Pasquale celebrato poniamo nella storia un segno di speranza oltre la morte e quindi un dinamismo di rinnovamento per l’esistenza.

A sua volta il Mistero contemplato ci apre le labbra per proclamare la lode di Dio e per annunziare il Mistero di Cristo (cf. Sal 50/51, 17; Col 4, 3).

Contemplando i misteri celebrati nella Liturgia, non solo ci incontriamo in un modo «sacramentale» con i «misteri di Cristo», ma allo stesso tempo ci rendiamo presenti in certo modo all’evento storico, e ne scopriamo progressivamente il messaggio di fede ivi nascosto, MESSAGGIO CHE interpellandoci, è in grado di trasformare oggi la nostra vita, di rendere più autentico il nostro annuncio evangelico e di accrescere e purificare il nostro zelo missionario. Allora la nostra vita missionaria diviene un commento pratico al Vangelo che annunciamo in continuità con l’esperienza degli stessi Apostoli (Cf 1Gv 1, 1-4).

5. Nucleo del Mistero Pasquale

Il nucleo del Mistero Pasquale celebrato, contemplato e annunciato, è l’incontro nell’alleanza tra due cuori.

Dio ha voluto parlarci da uomo a uomo in Gesù, Suo Verbo eterno fatto uomo, per mostrarci il suo vero volto: volto d’amore di un Dio Padre che è più grande del nostro cuore, di un Padre di perdono e di misericordia, che nel suo Figlio Gesù si china sull’uomo fino ad assumere su di sé l’esperienza del dolore e della morte per riportarci nella sua casa paterna.

Allora vivere è un camminare in compagnia con Dio che ci ama, sentirlo al nostro fianco, ascoltare le ragioni del suo amore, entrare in dialogo con Lui e dargli la nostra risposta. La nostra storia diventa così Storia di Salvezza, perché è il risultato dell’incontro, dell’alleanza tra due cuori: il Cuore di Dio che si apre a noi per accoglierci e il nostro cuore che trova ed accoglie da Lui ed in Lui la salvezza cercata.

Nella Sacra Scrittura, questo modo di rapportarci con Dio è indicato con il termine di “Alleanza”, cioè dell’incontro cercato e realizzato tra Dio e l’uomo, tra l’uomo e Dio. È un movimento proprio di coloro che si cercano reciprocamente. Dio e l’uomo sono due cercatori, si muovono l’uno verso l’atro, per realizzare l’ ”Alleanza”, la comunione. L’uomo è creato come cercatore, e Dio si manifesta come cercatore dell’uomo. L’incontro definitivo avviene sul Calvario ai piedi della Croce.

L’Alleanza è uno dei grandi simboli usati dalla Bibbia per esprimere il modo con il quale Dio viene in mezzo a noi. Per mezzo dell’Alleanza Dio si fa “vicino” dell’uomo, gli manifesta la sua benevolenza e il suo amore, che s’intensifica ed assume tonalità sempre nuove, fino ad arrivare al vertice nella persona di Gesù di Nazaret, crocifisso-trafitto sul Calvario e risorto.

L’AT. ci introduce nella storia di questa Alleanza d’Amore per mezzo di immagini luminosissime sul modo di amare di Dio. Concretamente per Israele Dio è Liberatore, perché è Creatore, Sposo, Padre-Madre e Pastore, che si china sull’uomo peccatore, sollevandolo come bimbo alla sua guancia (Os 11, 4) e carezzandolo come una madre accarezza la sua creatura.

Queste immagini trovano il loro perfetto compimento nella persona di Gesù di Nazaret, nel suo cuore di Figlio prediletto del Padre, che consegna la sua vita fino alla morte di Croce per l’umanità sbandata come gregge senza pastore.

I Profeti avevano presagito questo avvenimento, annunziando che la Gloria di Dio si sarebbe rivelata nella dolcezza inenarrabile di un Salvatore misterioso e che la sua potenza si sarebbe trasfusa in un amore invincibile. I loro vaticini scoprono questa Gloria sul volto di un povero Bambino (Is 9, 2-27), e poi nell’Uomo crocifisso (Zc 12, 10), segni e capolavori della Misericordia eterna.

L’immensità dell’amore di Dio, la sua sapienza, si manifesta in tutto il suo splendore, quando la sua Parola sussistente ed eterna si fa Uomo per salvare il genere umano. Non sono più nobili promesse, ma un corpo “preparato per la Parola e dato alla Parola, affinché essa possa compiere tutta la volontà di Dio. La Parola compirà la volontà di Dio precisamente per mezzo delle consegna di questo corpo, una volta per tute” (cf. Eb 10, 5-10).

Ecco l’opera maestra e la gloria dell’amore, della sapienza del nostro Dio: il Cuore Nuovo promesso, “cuore secondo il cuore di Dio”, pieno dello Spirito di Dio…

In questo Cuore Dio viene a visitarci con tutti i gesti e con tutte le presenze corporali dell’amore e della misericordia, con sovranità benefica di liberatore, con amore e tenerezza di Sposo, di Padre e di Madre, e infine con sollecitudine di Pastore, che dà la sua vita morendo in Croce….

Dio nessuno l’ha mai visto” (Gv 1, 18), ma questa Parola-fatta-carne-crocifissa possiamo ascoltarla, toccarla con le nostre mani, vederla con i nostri occhi e contemplarla (cf 1Gv 1, 1-4), e così possiamo “vedere la sua gloria, gloria che riceve dal Padre come Figlio unico” (Gv 1, 14).

P. Carmelo Casile

Casavatore, Marzo 2010

1

Da: T. Beck e altri, Una comunità legge il Vangelo di Marco II, EDB 1987, pp. 281-288

2

Riti = atti e testi con i quali compiamo un’azione sacra davanti a Dio e alla comunità. La liturgia è caratterizzata da una intensa ritualità, con un linguaggio di gesti e azioni, che ci aiuta ad esprimere ciò che sentiamo e celebriamo.

3 L. della Torre, Liturgia del Triduo Pasquale, Queriniana, p. 10

4 Sant’Ambrogio, in A. Bergamini, L’Anno Liturgico, Ed. San Paolo, p. 245

5 OGMR = Ordinamento Generale del Messale Romano

6 Cf L. Bouyer: O Mistério Pascal, p. 25; cfr. Ap. 3,20-21; 22,17; Le mystère pascal, p. 27s

7 Messale Romano: Ordo della Veglia pasquale nella notte santa, n. 1

8 Norme Generali sull’anno liturgico e il calendario, nº 21.

9 Odo Casel, Il mistero dell’Ecclesia, Città Nuova 1965, p. 348