Formazione Permanente 2023
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OSTACOLI DA SUPERARE NEL CAMMINO SPIRITUALE
DEL DISCEPOLO MISSIONARIO COMBONIANO
P. Carmelo Casile
Introduzione
1. La nostra vita spirituale appare debole e bisognosa di discernimento
- 1.1. Il formalismo pietistico
- 1.2. Il formalismo religioso di stampo ideologico
- 1.3. La spinta della “spiritualità della liberazione” al superamento del formalismo pietistico e ideologico
- 1.4. Il cammino di vita spirituale proposto nel Documento Conclusivo di Aparecida
2. Un malinteso concetto di consacrazione circola anche in mezzo a noi
3. La provocazione dell’assenza e dell’abbondanza delle vocazioni nel nostro Istituto
4. Un errore fatale: identificare il carisma con il progetto apostolico
5. Ripercussione della visione riduttiva del carisma nel cammino formativo
6. Un’attenzione costante: tenere saldi i pilastri della vita di consacrazione missionaria
7. Un rischio da evitare
8. Ruolo della cura della vita interiore dei membri della comunità
Conclusione: La lezione di Hetty Hilesum: la dedizione agli altri come esito della vita spirituale.
Introduzione
“Per fare dell’Evangelizzazione la ragione della nostra vita e vivere la gioia del Vangelo nel mondo di oggi, radicati in Cristo insieme a Comboni”, come ribadiscono gli ultimi Capitoli Generali, abbiamo bisogno di parlare concretamente di vita spirituale o di spiritualità all’interno del nostro Istituto; dobbiamo avere il coraggio di trovare il tempo e il modo per abbordare apertamente alcuni ostacoli da superare o nodi da scogliere o malintesi da chiarire circa il nostro itinerario spirituale. La mancanza di questo coraggio può intralciare duramente la nostra vita di discepoli missionari comboniani, in particolare nell’ambito della promozione vocazionale, della formazione di base e permanente.
È significativo il fatto che tra le priorità e le linee guida degli Atti Capitolari del 2022, al primo posto c’è la “Spiritualità”, seguita da “Identità e vita comunitaria” e “Revisione della formazione”.
P. Amaxsandro Feitosa da Silva, missionario comboniano in Brasile e che ha partecipato allo svolgimento del Capitolo, osserva che “la diagnosi del Capitolo generale è preoccupante: la nostra vita spirituale è debole, fragile e anemica” (cfr. Dossier di Nigrizia, ottobre 2022).
Nel Dibattito che è seguito alla relazione alla Assemblea Provinciale Elettiva da parte del Provinciale d’Italia, viene messa come prima osservazione:
“La fragilità della vita spirituale, della preghiera comunitaria e della qualità della vita comunitaria. In alcuni casi si nota un declino di entusiasmo e passione missionaria. Questo non ci permette di vivere in pienezza i sogni evidenziati dal capitolo generale. Occorre un piano di formazione permanente, ma la cosa più importante e determinante è l’impegno personale”. (-Cfr. Verbale Assemblea Provinciale Elettiva Verona Casa Madre 21-25 Novembre 2022).
Quest’allarme era stato segnalato nelle «Considerazioni per il Segretariato AMEV» del P. Giovanni Munari che, come Superiore Provinciale, affermava nel 2014:
«C’è un aspetto che mi mette in profonda discussione: la prospettiva missionaria dell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium e di papa Francesco in quest’anno e mezzo di pontificato. […] Il papa parla di un cristianesimo che va vissuto in un certo modo, o lo si tradisce. Fa riferimento più agli “atteggiamenti” che agli “ambiti”. La missione non può riprodurre cose vecchie e ammuffite ma deve rispondere in modo sempre più nuovo alle attese e aspirazioni dell’umanità di oggi. E lo si fa non cambiando posto (a volte può essere necessario!) o andando dove non si era mai andati, ma andando diversamente. […] Nella pratica cambiamo pochissimo e sempre con moltissime resistenze. Il papa dice che per rinnovarsi bisogna andare alla fonte della novità che è l’incontro con il Signore. Oso dire che questo sia il nostro grandissimo punto debole. In parte i segni di un “fallimento” (almeno in Italia) ce li abbiamo tutti, basta guardare i numeri delle vocazioni (non è vero che ci sia crisi; per molte realtà ecclesiali le vocazioni ci sono, e come!), l’impatto sempre più scarso che abbiamo tra la gente e – fenomeno per me molto preoccupante – il volume di “patologie” che ci portiamo addosso. […] Papa Francesco parla di un rinnovamento della chiesa che nasca da un rinnovamento delle persone. […] La sfida vera […] è quella di diventare noi in qualche modo portatori del nuovo che il papa chiede alla chiesa. Perché altrimenti finiamo esattamente in quello che lui condanna, che è il guardare dall’esterno come se della chiesa o dell’istituto noi non facessimo parte o non fossimo degli ingranaggi fondamentali che, se non funzionano come si deve, inceppano tutto il sistema» (cfr. Notiziario della Provincia italiana, n. 5/2014, pp. 36-38).
Il problema non è sorto negli ultimi anni; se facciamo attenzione lo troviamo presente con sottolineature diverse nei Capitoli Generali che si sono realizzati dal 1975 fino ad oggi.
Infatti è presente già nei Documenti Capitolari del 1975 (cfr. La vita comunitaria nell’Istituto Comboniano, p. 47ss) ed è messa in evidenza nei Documenti Capitolari del 1985 nel Cap. II, dedicato alla “Comunità Missionaria Comboniana”, nn 22-30.
Qui viene detto che il Capitolo prende atto del progresso realizzato nella vita comunitaria durante l’ultimo sessennio ma, allo stesso tempo, ritiene che ci sia ancora un lungo cammino da fare per approfondire e vivere l’ideale presentato dalla Regola di Vita. Tra le carenze vengono notate in particolare: individualismo, ritmi di preghiera poco regolari, mancanza di incisività nel ruolo del superiore, scarsa valorizzazione dei membri della comunità e stile di vita lontano dalla gente.
Non molto diversi sono i limiti del cammino spirituale del missionario comboniano segnalati nel Capitolo del 1991 (AC ´91,9-11), che si estendono fino ai nostri giorni.
Infatti, il Capitolo del 2022 segnala questi limiti affermando che la consapevolezza di essere i tralci della vite che è Gesù Cristo e Dio Padre il vignaiolo, deve aiutarci nel nostro quotidiano a maturare una spiritualità forte che ci faccia vivere e gustare un’esperienza di fede e di fiducia nel Signore come linfa vitale della nostra scelta alla vita consacrata e missionaria (cfr. AC ’22, Presentazione del Consiglio Generale).
La spiritualità è la prima delle priorità fondamentali assieme all’identità e vita comunitaria, che “il Capitolo ha sentito il bisogno di aggiungere alle tre priorità che erano già state identificate dalla Commissione Precapitolare (AC ’22, 3). In effetti, nella situazione attuale, in cui siamo sfidati dal cammino di conversione tracciata da Papa Francesco, “vogliamo riappropriarci di una profonda spiritualità per costruire comunità che vivano davvero la fraternità e l’interculturalità superando ogni forma di autoreferenzialità, clericalismo e chiusura” (AC ’22, 8-10).
Perciò, “Sogniamo una spiritualità che ci permetta di continuare a crescere come famiglia fraterna di consacrati radicati in Gesù, nella sua Parola e nel suo Cuore, e di contemplarlo nei volti dei poveri e nell’esperienza vissuta da San Daniele Comboni per essere missione” (AC ’22, 12).
Nelle note che seguono tento di individuare alcune cause che a mio parere ci portano all’indebolimento del nostro incontro con il Signore (RV 20; 20.1; 46), e quindi a situazioni di debolezza, di “fallimento” e di perdita della “gioia del vangelo”, che ci impediscono di vivere “radicati in Cristo, insieme a San Daniele Comboni (AC ’22, 11).
Sono cosciente che si tratta di note che possono risultare non del tutto precise e condivisibili…
Comunque sono frutto della mia esperienza di missionario impegnato prevalentemente nel campo della formazione di base e permanente non per mia scelta, ma per volontà della Provvidenza, che mi ha messo su questa strada.
Nello stesso tempo a prendere coscienza degli ostacoli che indico, mi ha giovato soprattutto la testimonianza e l’aiuto di confratelli autenticamente “spirituali”, “pietre nascoste” ma preziose per l’Avvento del Regno di Dio, che ho incontrato nel mio cammino come missionario comboniano da quando sono entrato nell’Istituto fino ad oggi.
Mi è rimasto impresso nella memoria ciò che scrisse P. Salvatore Calvia, Superiore Generale dal 1979-1985, in una sua “Lettera ai confratelli” sulla vita comunitaria. Pur notando delle negatività in seno alle nostre comunità, ha messo in evidenza: «… quel pensiero di Dag Hammarskjöld che ha in sé tanta verità: “Fa più rumore un albero che cade, che un’immensa foresta cresce”». E ha aggiunto: «A me piace vedere le nostre comunità proprio come una grande foresta che cresce nel silenzio, nella preghiera e nel sacrificio…».
Per tanto, in mezzo alle comunità che crescono, non mancano ostacoli che intralciano la crescita… Ma in queste stesse comunità non sono mai mancati e non mancano i mezzi che ci mantengano in formazione permanente, così che possiamo essere aiutati a superare gli eventuali ostacoli e progredire nel cammino personale e comunitario di discepoli missionari comboniani.
Perciò possiamo animarci nel nostro cammino di discepoli missionari comboniani nel mondo di oggi verso nuovi orizzonti (AC ’22, 44.2), continuando a ricordare le figure “di quei missionari la cui vita ha offerto la migliore esemplificazione del carisma originario” (RV 1.4)….; a cantare il nostro Hallel per i frutti che la misericordia del Signore fa nascere e crescere nel mondo per mezzo della “vita donata di tutti i missionari – giovani ed anziani – che formano l’Istituto (AC ’22, 44.2) …; a purificare la nostra memoria e il nostro cuore per mantenerci in un continuo “atteggiamento di conversione e rilancio” (AC ’22, 4), “una conversione che parte dalla coscienza di ciascuno, coinvolge ogni comunità e arriva così a rinnovare l’intero Istituto” (Discorso di Papa Francesco).
In questa prospettiva riflettere su ciò che può appesantire il nostro cammino di consacrati a Dio per la missione, ci aiuta a trovare quei percorsi formativi adeguati a superare quegli ostacoli che ci impediscono di “fare dell’Evangelizzazione la ragione della nostra vita e vivere la gioia del Vangelo nel mondo di oggi, radicati in Cristo insieme a Comboni”.
1. La nostra vita spirituale appare debole e bisognosa di discernimento
Ho l’impressione che questa debolezza nasca dal fatto che le risposte alle sfide della missione scaturiscano da un annuncio del Vangelo inteso più come un manuale di morale che porti all’impegno sociale che dall’incontro personale con il Signore Gesù, per portare il suo Nome alle nazioni con tutte le conseguenze che nascono da questo annuncio nei vari versanti dell’esistenza umana, incluso quindi anche quello sociale, che ha dato origine alla dottrina sociale della Chiesa.
Intesa prevalentemente in chiave morale, la missione è vissuta come un esserci nel mondo per la storia, sancito dalle necessità del mondo attuale, più che dall’annuncio del «Mistero di Gesù di Nazaret, figlio di Dio» (cfr. RV 59); appare come un ministero sociale da scoprire sempre e nuovamente, dove il messaggio evangelico fa da cassa di risonanza a un sistema di valori “sostenibili”: dalla cooperazione alla solidarietà, dalla sobrietà alla salvaguardia del creato; dove il messaggio evangelico è ridotto a fare da veicolo di un’etica globale ripulita di qualsiasi riferimento alla Trascendenza, cioè da quella forza interiore che spinge da sempre l’uomo ad andare al di là di ciò che gli offre il presente per costruire un mondo secondo il progetto missionario di Dio, che risplende nell’annuncio chiaro e umile di Gesù Cristo, che è venuto in questo mondo per offrire all’uomo “la liberazione integrale”, che “trova il suo compimento e consolidamento nella piena comunione con Dio Padre e tra gli uomini” (cfr. RV 61; Gv 10,10).
In questa visione riduttiva della missione, si elude il difficile e costoso viaggio verso la propria interiorità per trascendersi in Dio per Cristo (Cfr RV 46); la Chiesa come istituzione e in essa lo stesso Istituto Comboniano con il “suo patrimonio spirituale” (RV 1.4) possono diventare ingombranti; del carisma comboniano si selezionano gli elementi che più corrispondono alle proprie idee, il contenuto e il dinamismo del carisma ce li mettiamo noi, man mano che ci inoltriamo nella missione incalzati dalle sfide del mondo attuale globalizzato; la spiritualità diventa così un sistema di pensiero forte, “intelligente”, forgiato con la lettura dei segni dei tempi per cambiare il mondo.
Per dare forza a queste posizioni, si stigmatizzano i pericoli del devozionismo, dello spiritualismo, del ritualismo. Certo questi pericoli sono reali e possono portare la vita spirituale alla deriva fino a farla diventare un insieme di pratiche religiose spente, ma non per questo si possono sottovalutare in un sano cammino spirituale senza gravi conseguenze per la vita spirituale personale e comunitaria. In questo campo non serve procedere con ragionamenti a scudisciate o a suon di scure, ma c’è bisogno di un impegno personale e comunitario, sistematico e paziente, rimanendo fedeli alla scuola della Liturgia della Chiesa, della pietà polare, e aperti a tante scuole di preghiera e movimenti di vita spirituale esistenti oggi nella Chiesa, nei quali la dimensione missionaria è una conseguenza logica dell’incontro con il Signore, che non trascura la lettura di quei “segni dei tempi” che il missionario incontra nel suo cammino di fede nel mondo e per il mondo (cfr. RV 16).
Personalmente sono convinto che in questa prospettiva la nostra Regola di Vita non è affatto obsoleta e ci offre le motivazioni e i mezzi necessari per mantenerci “in crescita per tutta la vita” (cfr. RV 80-85), così che possiamo vivere il nostro presente con efficacia a servizio del Regno di Dio.
In effetti, nel cammino della vita spirituale, se manca un impegno guidato da una visione completa ed equilibrata nei suoi vari elementi, si può cadere nel formalismo spirituale pietistico o nel formalismo di stampo ideologico. Si tratta di due posizioni antitetiche e ambedue mortifere, che confluiscono però nella autoreferenzialità.
1.1. Il formalismo pietistico
Il formalismo spirituale pietistico è quel modo di andare verso Dio, in cui il credente vive la vocazione in prevalenza come ricerca di sistemarsi nel mondo e rifiuta quindi di distaccarsi da se stesso e di abbandonarsi in Dio; non mette in gioco la propria interiorità, trincerandosi in un egoismo, che cerca in Dio la propria soddisfazione; invece di servire Dio e quindi i fratelli nella Chiesa, vive la vocazione come frutto di un progetto umano, si serve così di Dio e della sua Chiesa e mette i fratelli a suo servizio…; anche i poveri corrono questo rischio…
La vita spirituale è sempre vocazione e risposta all’Amore, ricevuto e donato in Cristo. La vocazione non è una scelta, è l’essere scelti: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv15, 16).
Per realizzare l’abbandono di se stessi a questo “Amore”, ricevuto e donato in Cristo, bisogna andare a Lui portando se stessi integralmente, cioè «con tutto ciò che si è, la propria carcassa, il proprio spirito, la propria anima, … le grandezze e le debolezze, il passato di peccato e le grandi speranze per il futuro, le tendenze più basse e più violente… tutto, tutto, poiché tutto deve passare attraverso il fuoco. Tutto deve essere insomma integrato per fare di sé un essere umano capace di entrare anima e corpo nella conoscenza di Dio.
Dio vuole davanti a sé un essere reale che sappia piangere e gridare sotto l’effetto della sua grazia purificatrice. Vuole un essere che conosca il prezzo dell’amore umano e l’attrazione dell’altro sesso. Vuole un essere che senta anche il desiderio violento di resistergli, perché no?.. È un essere umano reale che Dio vuole vedere davanti a lui, senza di che la sua grazia non avrà niente da trasformare. Ora il male sta qui: troppi, tra coloro che si donano a Dio, hanno semplicemente offerto alla sua azione una personalità presa a prestito… Non bisogna stupirsi se un giorno si accorgono di essere fatti per altre cose».
Essere completamente presenti, nella piena integrità della propria persona, non è ancora sufficiente per cominciare il cammino verso Dio: «ènecessario mettersi in un accordo totale, anima e corpo, con il grande corpo di Cristo che è la Chiesa, vivere con essa, ascoltare in essa le pulsazioni gigantesche che scandisce la sua vita liturgica, nei suoi insegnamenti, nei suoi sacramenti, nella sua costante attenzione… Vivendo al ritmo della Chiesa è facile orientare tutto il nostro essere verso il Signore e vivere nella speranza di sentire presto la mano di Dio posarsi su di noi.
E poiché il fine a cui conduce il cammino si perde in Dio e nessuno lo conosce se non colui che viene da Dio, Gesù Cristo, occorre, pur ascoltando i maestri che incontriamo, fissare gli occhi su Cristo solo. Egli è la via, la verità e la vita. Lui solo d’altronde ha percorso il cammino nei due sensi. Dobbiamo mettere la nostra mano nella sua e partire…. ». Allora saremo veramente discepoli missionari.
1.2. Il formalismo religioso di stampo ideologico
È importante notare che accanto al “formalismo pietistico”, può esistere anche un “formalismo ideologico”. Questo si ha quando la ricerca di Dio è intesa come ricerca di sistemare il mondo in nome di Dio, come capacità di prendere distanza da noi stessi, dalle nostre idee, dalle nostre stesse aspirazioni e ruoli…, di saper convivere con il differente, in virtù di un imperativo etico-morale che può anche nascere da un contatto con il Vangelo, senza però entrare con tutto il proprio essere nella dinamica del Mistero Pasquale, crogiuolo del cammino spirituale col suo percorso di passione, morte e risurrezione. Si vuole vivere da risorti, o si vuol vivere lo spirito di Pentecoste, senza sperimentare con Cristo il mistero della vita che nasce dalla morte (cfr. RV 35.3) e che culmina nell’esperienza del Cenacolo (cfr. RV 36.3).
Il “formalismo ideologico” ha l’aspetto di un cammino di liberazione, ma è micidiale per la vita spirituale tanto quanto il “formalismo pietistico”.
San Paolo ci avverte: «Anche satana si maschera di angelo di luce» (2Cor 11, 14). Perciò, ci esorta: «Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1Tess 5, 21).
Il rischio del “formalismo ideologico” è quello di essere attaccati alla propria missione, al successo e al protagonismo, all’appagamento che proviene dall’opera che si svolge; è quello ancora di presumere di dovere sapere e fare tutto per gli altri, di poter dire a tutti che cosa debbono pensare e come debbono vivere. Ma resta vero che «chi cerca di fare ed agire in favore degli altri, o del mondo, senza approfondire la conoscenza di sé, la propria libertà, integrità e capacità di amare, non avrà niente da dare agli altri. Comunicherà loro nient’altro che il contagio delle proprie ossessioni, aggressività, delusioni riguardanti fine e mezzi e ambizioni, egocentriche». Abbiamo tutti bisogno, per tanto, di lasciarci sloggiare dalla corazza in cui è prigioniero il nostro io, e andare verso gli altri non perché noi sappiamo tutto e meglio, ma perché abbiamo gustato la vita, perché abbiamo nelle narici l’odore dello Spirito e adesso questa vita la vorremmo scoprire e fomentare anche negli altri, convinti che il combattimento per conquistare la propria libertà interiore e l’impegno in favore degli altri non solo non si oppongono, ma sono l’una il volto dell’altro.
Un altro rischio inerente al “formalismo ideologico” è il ricorso alla fuga in avanti.
Dall’attaccamento alla propria missione e dal protagonismo missionario può nascere la paura di essere omologati. Ci sono allora missionari che si sentono sempre uno o due passi avanti a tutti e dissentono dalla Chiesa o dalle direttive dell’Istituto, quando dicono o scelgono cose che a loro non piacciono.
Sta di fatto che l’Istituto si muove fin dall’inizio sulla via del connubio fede-civiltà, che comporta l’intreccio della fede con le dinamiche sociali.
Col trascorrere del tempo alla luce dei segni dei tempi e del magistero della Chiesa, tale binomio viene aggiornato mediante termini desunti dal cammino di fede della Chiesa e del missionario nel mondo e per il mondo (RV16).
Il Capitolo del 1975 prepone il binomio:
- Evangelizzazione e Promozione Umana: DC ’75, nn. 25-29:
Si tratta di riconoscere che una coraggiosa proclamazione del Vangelo è vera promozione della giustizia poiché colpisce il male alla radice e che noi stessi abbiamo bisogno di una conversione profonda: cioè di aprirci all’accettazione della pienezza del mistero dell’uomo che si rivela a noi in Cristo: della sua dignità, dei suoi diritti, dei suoi doveri (cfr. n. 26).
Nel Capitolo del 1985 il precedente binomio viene ribadito mediante il binomio:
- “Valori del Regno e Liberazione integrale dell’uomo”: AC ’85, Cap. III, nn. 35- 68
- Si tratta di far emergere i valori del Regno di Dio in ordine alla liberazione integrale dell’uomo, partendo dalla realtà del Mistero del Regno di Dio, che è la stessa persona di Cristo, nel quale tutto l’universo è chiamato ad essere ricapitolato per diventare il Regno di salvezza piena voluta dal Padre (EF 1,10). Far emergere i valori del Regno vuol dire mettere in evidenza e favorire i segni di questa lenta, a volte sofferta, ma decisa e progressiva trasformazione di tutto in Cristo (Rom 8,19) (cfr. nn. 35-36).
I precedenti binomi nell’edizione definitiva Regola di Vita del 1988 vengono ricapitolati nell’espressione: => “Liberazione integrale”: RV 61
- Si tratta di una liberazione integrale, perché comporta l’impegno del missionario comboniano nella “liberazione dell’uomo dal peccato, dalla violenza, dall’ingiustizia, dall’egoismo, dal bisogno e dalle strutture oppressive” (RV 61).
Partendo da quest’impegno, i successivi Capitoli Generali hanno continuato a promuovere l’opzione per la liberazione integrale dell’uomo, sottolineando vari aspetti di quest’ attività mediante l’impegno per la “Giustizia, Pace e Salvaguardia del Creato” (cfr. AC ’91, 2.5; AC 97, 107-118; AC ’03, 40; AC ’09, 66; AC ’15, 11) fino al Capitolo del 2022, in cui la liberazione integrale dell’uomo viene espressa mediante l’impegno alla “Conversione tracciata da Papa Francesco”, cioè la Conversione all’Ecologia Integrale:
- “Dentro il vento impetuoso del cambiamento la barca della Chiesa rema, sostenuta dallo Spirito, verso la conversione tracciata da Papa Francesco: l’ecologia integrale (LS), la fratellanza universale e l’amicizia sociale (FT), il dialogo interreligioso (Dichiarazione di Abu Dhabi) e il cammino sinodale” (AC ’22, 8).
- In questa prospettiva viene sottolineata la necessità di “prestare attenzione e approfondire l’appello della Chiesa ad una conversione all’ecologia integrale e ai suoi effetti sul nostro stile missionario” (AC ’22, 25.6).
È interessante notare come il connubio fede-civiltà, vissuto e proposto da san Daniele Comboni per la rigenerazione dell’Africa con l’Africa, è andato ampliando l’orizzonte del patrimonio spirituale dell’Istituto mediante la partecipazione attiva dei suoi membri alla missione della Chiesa al mondo attraverso il servizio all’uomo e la testimonianza della loro consacrazione e vita comunitaria, fino a divenire impegno alla Conversione all’Ecologia Integrale per la rigenerazione dell’umo e la salvaguardia del creato per mezzo dell’uomo, radicato in Cristo.
Si va realizzando così la volontà salvifica di Dio che, già operante nella storia dei popoli, si è rivelata in modo pieno in Cristo, nel quale tutte nazioni sono chiamate a formare un solo popolo (cfr. RV, Preambolo).
A questo punto appare logico utilizzare la ricchezza che il passato ci offre, per affrontare le sfide del contesto in cui viviamo e proiettarci nel futuro.
Piuttosto che fuggire in vanti, la strada da seguire è mettersi in ascolto di Cristo nella Chiesa e con la Chiesae con l’Istituto per affrontare le sfide di oggi; dobbiamo mettere la nostra mano nella mano di Gesù e camminare con Lui ascoltando, imparando, testimoniando, annunciando e operando….
Per la paura di essere omologati, alcuni sono sempre alla ricerca di novità senza mai accettare di rinnovarsi, e quindi di mettere in gioco se stessi e ripartire sempre di nuovo da Cristo per andare incontro al mondo di oggi.
«Io sono fermo ed irremovibile nel mio principio di fare, e poi di parlare: caepit Jesus facere et docere; e mai imiterò quelli che progettano e chiacchierano, e pubblicano dieci prima di aver fatto tre» (S. D. Comboni, S 6449).
In effetti, al di fuori dell’incontro personale con Cristo, vissuto e approfondito continuamente (cfr. RV 21.1), Gesù può essere cercato con mentalità secolarizzante come un esempio, o un grande leader dell’umanità capace di stimolare la crescita della persona nella dimensione della solidarietà e di offrire anche all’uomo di oggi idee eccezionali che stanno alla base di movimenti politici, culturali, filantropici, religiosi, ecc. C’è quindi il rischio che il Vangelo diventi solo un messaggio sociale, che promuova solo una liberazione umana, senza l’incontro con il Liberatore, Gesù di Nazaret, il Messia Crocifisso-Risorto per la liberazione integrale dell’uomo (RV 61).
1.3. La spinta della “spiritualità della liberazione” al superamento del formalismo pietistico e ideologico
Del rischio del formalismo pietistico o ideologico se n’era accorto P. Segundo Galilea, sacerdote cileno, morto il 27 maggio 2010 e commemorato da Nigrizia nel numero di maggio 2011, p. 63. È uno dei pionieri della teologia della liberazione e uno dei primi ad affermare la necessità di motivare l’impegno per le librazioni sociali con una profonda vita spirituale, aprendo così la strada alla “spiritualità della liberazione”.
Di lui Mariangela Mammi traccia un interessante profilo nel libro “Luci di speranza”, (Ed. EMI, 2011, pp. 65-82), con l’intento di rispondere alla domanda: “Quale missione nel nostro tempo di crisi?”
Prima di lei, Maria Barbagallo aveva pubblicato un articolo nel “L’Osservatore Romano” (26-27 luglio 2010) dal titolo: “In mano una valigia e nel cuore Gesù”, in cui emergono i tratti fondamentali della vita spirituale missionaria vissuta dal P. Segundo Galilea.
Padre Galilea appartiene a quel periodo storico in cui la teologia della liberazione era la grande protagonista in America Latina e si diffondeva nella mentalità teologica della Chiesa e nel mondo. Come teologo della teologia della liberazione, non fu mai un estremista, ma visse il suo impegno nell’adesione fedele a Gesù Cristo e alla Chiesa e la sua predicazione instancabile aveva al suo centro Gesù di Nazaret, la Chiesa, la missione, l’evangelizzazione. Fu uno dei primi che ebbe subito la lucidità necessaria per rendersi conto che l’impegno socio-politico dei cristiani per la liberazione aveva bisogno di un solido fondamento spirituale.
Perciò desiderava che la teologia della liberazione avesse un’anima ben fondata nella sequela a Gesù Cristo, unico e vero salvatore e liberatore, e che il popolo cristiano si mantenesse strettamente unito a Gesù Cristo con la preghiera e la contemplazione. La sua proposta per una vita spirituale cristiana è riassunta in questi termini: “Se vogliamo una Chiesa più missionaria, più coerente e testimoniale, più partecipativa nella comunione, significa che vogliamo una Chiesa più spirituale, più orante e più contemplativa, cioè più bella, che, come Gesù, sia il Vangelo del Padre per la forza dello Spirito”.
Questa era la sua mistica: l’adesione al Dio della vita rivelatosi in Gesù di Nazaret. Per questo suo impegno più d’uno lo definì il “padre spirituale dell’America Latina”.
In un’intervista dove esplicitamente gli chiedevano se lui poteva dirsi un teologo della liberazione, rispose: “La teologia della liberazione è stata caricata di politica e ideologia, ma ha mancato di mistica, e questo è stato il mio contributo”. Nella stessa intervista, alla domanda se il messaggio spirituale possa trovare seguaci in un mondo così materialista, ha risposto: “La spiritualità è uno degli argomenti sopra i quali io porto la mia riflessione in quello che scrivo. Credo che a ogni cristiano questo interessi molto”.
L’epicentro della sua mistica missionaria era l’adesione a Gesù, povero e obbediente, nel tentativo di portare la gente di Chiesa a riflettere che non esiste dinamismo missionario senza una radicale adesione a Gesù Cristo. Per Secondo Galilea «il paradigma della missione, ovvero della vita di ogni credente che non può non essere missionario, è la persona di Gesù: il cristiano è colui che pensa e agisce come Cristo, anzi, è inserito in Lui: “La missione è sequela, Cristo è il modello unico della missione”».
Il suo tema preferito era la “misericordia di Dio” che si china su noi, sulla nostra miseria per elevarci a lui. Da qui la sua insistenza nella sequeladi Gesù in obbedienza alla Chiesa che ne spiega, secondo i tempi, una modalità sempre più profonda.
Una di queste modalità è l’”inserimento” (o inserzione) della comunità missionaria tra la gente, e lo spiegava così:
«L’ “inserimento” è un tema che va acquistando sempre più importanza sia nella teologia che nella pastorale, nella vita religiosa e nella spiritualità del cristianesimo contemporaneo. Esso è stato motivato dal rinnovamento missionario degli ultimi quarant’anni, e dalle sfide della crescente secolarizzazione e scristianizzazione delle società, oltre che dalle emergenti maggioranze di poveri ed emarginati. Di fronte a questa situazione, la missione ha dato maggior accento alla dimensione del dialogo, della testimonianza, del servizio solidale e della ricerca dei più poveri e diseredati, “le pecore senza pastore” (Mc 6, 34). Tutto questo esige l’inserimento della comunità apostolica nei diversi contesti, perché non si evangelizza né si redime quello che non viene assunto in Cristo e non si condivide come condizione umana: “Quello che non è assunto non è redento”, secondo un antico principio di sant’Ireneo sulla incarnazione».
Era anche convinto che: «Non c’è carità integra e universale senza fede. Certo, c’è l’amore e l’umanitarismo in molte persone che non hanno fede, perché questo fa parte della natura umana che è immagine di Dio, e lo Spirito Santo, d’altra parte, in qualche modo agisce in tutti. Però questo amore sarà sempre parziale e precario, avrà sempre orizzonti limitati. L’apertura alla fede per queste persone, da una parte può significare la necessità di mantenere l’autenticità del loro umanitarismo e del loro amore, e d’altra parte la possibilità di slanciarsi verso la pienezza e la potenzialità della carità che esiste nel cuore umano e che attende, per potersi accendere, la scintilla che produce la conversione alla fede».
Un tratto che distingue Segundo Galilea è il suo grande senso ecclesiale e il suo grande rispetto per la tradizione: egli raccoglie tutto ciò che è valido della spiritualità del passato e lo incorpora alle acquisizioni della teologia e della cultura attuali. È cosciente che gli strappi violenti quasi mai sono vantaggiosi. La vita, infatti, è sintesi e questa, alla fine, quasi sempre finisce per imporsi. Da questa convinzione nasceva in lui la passione per i mistici spagnoli, che hanno segnato la vita cristiana dell’America Latina.
Ho avuto la grazia di ascoltare P. Segundo Galilea in Messico in due Assemblee per formatori comboniani; sono stati due incontri che hanno segnato il mio cammino come missionario e formatore fino ad oggi.
È una figura che ha influito nella vita, nel pensiero e nell’opera di Mons. Franco Masserdotti. Questa influenza si può facilmente costatare nel suo libro “Spiritualità missionaria. Meditazioni” (EMI 1989), dove non è difficile notare i punti di contatto con il libro di Galilea che ha per titolo “El camino de la espiritualidad” (Bogotà 1982). Da questo libro riporta la definizione di spiritualità che si trova a p. 18 e che Segundo Galilea dice che gli è stata suggerita da un operaio:
«Segundo Galilea afferma che la vita spirituale è simile ad un prato verde costituito dalle nostre attività, idee, visioni, progetti… cioè dal nostro impegno di vita: La spiritualità cristiana è come l’acqua che mantiene il prato umido, sempre verde e in crescita. Non vediamo l’acqua (vediamo solo il verde), ma senza di essa il prato diventerebbe secco» (p. 11).
A questo punto, alla luce della testimonianza di Segundo Galilea e dello stesso Mons. Masserdotti, è chiaro che il Cristo storico è il Signore Gesù che professiamo nel Credo; è il Crocifisso-Risorto, Spirito datore di vita, che ci incontra con il Battesimo e ci fa membri della sua Chiesa e partecipi del mandato missionario che ad essa affida, dotandoci di un carisma particolare nella Chiesa per il mondo.
Per tanto, il momento decisivo della vocazione del missionario è il suo incontro con il Signore Risorto (cfr. RV 21.1-2).
Il cammino per realizzare questo incontro è la preghiera o meglio la contemplazione dei Misteri della vita di Cristocosì come sono presentati dal Vangelo.
Siamo, infatti, chiamati a essere con Cristo, prima che a fare qualcosa per Cristo. La chiamata dei Dodici è chiara: Gesù li chiamò a seguirlo, cioè a rimanere con Lui e a essere mandati da Lui nel mondo, condividendone il destino (RV 21). Essi, prima di fare qualcosa per Cristo, furono con Cristo. A Giovanni e Andrea che gli chiedevano: “Maestro, dove abiti”, Gesù rispose: “Venite e vedrete”, cioè propose loro di “essere” con Lui, prima che di “fare” qualcosa con Lui.
Quanto a noi rimaniamo in Cristo attraverso la contemplazione dei misteri della sua vita. Allora il Cantico del prologo della 1ª Lettera di Giovanni è destinato a divenire il Cantico del discepolo missionario:
“La Vita si è fatta visibile,
io l’ho vista e ne sono testimone e vi annuncio la Vita eterna.
Era presso il Padre e si è resa visibile a me.
Quello che ho visto e udito, io lo annunzio anche a voi
perché anche voi siate in comunione con me,
col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo.
E vi annuncio queste cose perché siate nella gioia perfetta
e la mia propria gioia sia perfetta” (1Gv 1, 1-4).
1.4. Il cammino di vita spirituale proposto nel Documento Conclusivo di Aparecida
Il superamento del formalismo spirituale pietistico o di stampo ideologico possiamo coglierlo nel cammino di vita spirituale proposto dal Documento di Aparecida (2007):
Chiamati all’incontro con Gesù Cammino, Verità e Vita,
che ci fa discepoli missionari, in comunità, per annunciare il Vangelo.
I diversi elementi che compongono la tematica del Documento, si sviluppano in tre coordinate fondamentali e articolate tra esse: chiamata alla santità e configurazione a Cristo (conversione), comunione nella Chiesa, missione a servizio della vita piena. Si tratta di tre atteggiamenti basici, che sono ordinati direttamente e intrinsecamente al gran tema dell’incontro con Gesù Cristo, come alla sua fonte e radice. Come lo dimostra chiaramente la parola di Dio, i tre atteggiamenti basilari enunciati nascono dall’incontro personale col Figlio di Dio fatto uomo. È Gesù che invita gli uomini e le donne di tutti i tempi a quel cambiamento di vita (metanoia: cf. Mc 1, 15), che è il primo passo per entrare in comunione (koinonia) con lo stesso Signore Gesù e con i suoi discepoli (cf. At 2,42). La comunione dei credenti in Cristo si orienta, finalmente, seguendo le orme del Servo di Dio, a vivere in solidarietà e servizio (diaconia) con tutti e specialmente coi più piccoli (cf. Mt 25,40).
Dato che l’incontro con Gesù Cristo è l’origine della conversione, della comunione e della missione, ognuna delle rispettive parti del testo dà particolare importanza agli effetti di questo incontro nella vita personale e comunitaria dei credenti:
- solo attraverso la configurazione a Cristo per mezzo della conversione al Vangelo sono possibili la vera comunione e l’autentica missione;
- la comunione con Cristo e con la sua Chiesa è, contemporaneamente, la base per una continua conversione personale ed il fondamento sul quale si realizza la missione;
- la missione, in quanto annuncio del Vangelo a servizio della vita piena, evidenzia quale è il fine verso il quale convergono la conversione e la comunione.
P. Carmelo Casile
Casavatore, Gennaio 2015 / Marzo 2023