VII Domenica del Tempo ordinario – Anno A
Matteo 5,38-48
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle. Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani?…».
(Letture: Levitico 19,1-2.17-18; Salmo 102; 1 Corinzi 3,16-23; Matteo 5,38-48).

Amare i nemici, la (difficile) concretezza della santità
Ermes Ronchi
Avete inteso che fu detto: occhio per occhio – ed era già un progresso enorme rispetto al grido selvaggio di Lamec, figlio di Caino: ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido (Gen 4,23) – , ma io vi dico se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra. Porgi l’altra guancia, che vuol dire: sii disarmato, non incutere paura. Gesù non propone la passività morbosa del debole, ma una iniziativa decisa e coraggiosa: riallaccia tu la relazione, fa’ tu il primo passo, perdonando, ricominciando, rattoppando coraggiosamente il tessuto della vita, continuamente lacerato dalla violenza.
Il cristianesimo non è una religione di schiavi che abbassano la testa e non reagiscono; non è la morale dei deboli, che nega la gioia di vivere, ma la religione degli uomini totalmente liberi, come re, padroni delle proprie scelte anche davanti al male, capaci di disinnescare la spirale della vendetta e di inventare reazioni nuove, attraverso la creatività dell’amore, che fa saltare i piani, non ripaga con la stessa moneta, scombina le regole ma poi rende felici.
È scritto: Amerai il prossimo e odierai il nemico, ma io vi dico: amate i vostri nemici. Tutto il Vangelo è qui: amatevi, altrimenti vi distruggerete. Altrimenti la vittoria sarà sempre del più violento, del più armato, del più crudele. Gesù intende eliminare il concetto stesso di nemico. Violenza produce violenza come una catena infinita. Io scelgo di spezzarla. Di non replicare su altri ciò che ho subito. Ed è così che mi libero.
Il Vangelo mette in fila una serie di verbi che chiedono cose difficili: amate, pregate, porgete, benedite, prestate, fate: per primi, ad amici e nemici. La concretezza della santità, niente di astratto e lontano, santità terrestre che profuma di casa, di pane, di incontri. Non sono precetti, ma offerta di un potere, trasmissione da Dio all’uomo di una forza, di una energia divina.
Infatti dove sta il centro da cui scaturisce tutto? Sta nelle parole: perché siate figli del Padre vostro che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi. Da Padre a figli: c’è come una trasmissione di eredità, una eredità di comportamenti, di affetti, di valori, di forza, di solarità.
Perché ogni volta che noi chiediamo al Signore: “Donaci un cuore nuovo” , noi stiamo invocando di poter avere un giorno il cuore di Dio, e gli stessi suoi sentimenti, la sua perfezione.
È straordinario, verrà il giorno in cui il nostro cuore che ha fatto tanta fatica a imparare l’amore, sarà il cuore stesso di Dio e allora saremo capaci di un amore che rimane in eterno, che sarà la nostra anima, per sempre, e che sarà l’anima del mondo.
Avvenire
Umanità radicale
Clarisse Sant’Agata
Oggi la Parola del Vangelo scende a tale profondità da rivelare la radice di ogni altra parola pronunciata da Gesù nel discorso della montagna. Gesù manifesta la misura “eccedente” dell’amore di Dio, “Padre nostro” e chiama ciascun discepolo a misurarsi con questo amore perché si faccia visibile il nostro volto di figli di quel Padre: “affinché diventiate figli del Padre vostro che è nei cieli”. Infatti anche se fin d’ora siamo figli di Dio (1Gv 2,2), ancora non si è manifestata pienamente la nostra identità filiale. S. Paolo dirà che la creazione stessa è protesa verso la nostra rivelazione come figli di Dio (cfr. Rm 8,19-23) e noi diveniamo “conformi all’immagine del Figlio” così come il Padre ci ha predestinati e chiamati ad essere, “fratelli del Primogenito” (cfr. Rm 8,29-30).
Nel vangelo di oggi Gesù pone di fronte ai suoi discepoli la loro verità di figli di Dio e mostra loro cosa comporti vivere da figli. Tuttavia si tratta di una identità ancora tutta da vivere, che ancora deve raggiungere il suo compimento. È la nostra verità ed è ciò che il nostro cuore desidera più di ogni altra cosa, ma ancora non siamo figli che vivono la “perfezione” dell’amore, amando i nostri nemici e pregando per i nostri persecutori”, a immagine del Figlio.
Per questo la Parola di oggi è una Parola per noi più di ogni altra parola di Gesù: perché ci chiama a conformarci al Figlio entrando nel Suo rapporto con il Padre e percorrendo le vie per le quali la Sua umanità ha risposto all’amore del Padre.
Questo vangelo, quindi, prima di presentarci una serie di imperativi per noi, ci manifesta i “luoghi” dove Gesù stesso ha portato a compimento la Sua umanità, rivelando la “perfezione” dell’amore (“siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”). Ci sono infatti occasioni in cui la vita ha offerto a Gesù la possibilità di vivere l’amore più grande, l’amore fino alla fine (Gv 13,1) e Gesù è passato per queste “strettoie” rivelando che l’amore può vincere il male con il bene (Rm 12,21) e arrivare a estendersi all’altro, ad ogni altro, perfino al nemico.
L’amore non ha limiti.
Il male che compie il malvagio, al contrario, ha come limite il bene di chi osa interrompere la catena di violenza innescata dal male.
E Gesù, lungo la sua esistenza terrena e soprattutto nella sua pasqua, è proprio colui che oppone al male subito la risposta più inaspettata: a chi lo rifiuta, continua a donarsi (cfr. Rm 5,8); a chi lo insulta risponde offrendo la sua vita (cfr. Mt 27,39-41); a chi lo percuote oppone un silenzio mite e paziente (cfr. Mt 27,30); a chi lo spoglia delle sue vesti, lasca anche il mantello; a chi lo costringe a portare la croce fino al Golgota, risponde salendo sulla croce che da salvezza all’uomo (cfr. Mt 27,28).
Il male dell’uomo è disarmato dal dono che il Figlio fa di sé all’uomo.
Con la sua umanità, Gesù ci apre la via inesplorata del dono senza ritorno perché anche noi la possiamo percorrere. Questo dono è, propriamente, l’“amore al nemico”.
Ed è lungo questa via di dono che anche la nostra umanità può trovare compimento, raggiungere la piena statura di Cristo in noi, conoscere la “perfezione” dell’amore.
Mi sembra importante a questo punto attardarci sull’ultima frase del vangelo: “siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”. Infatti la “perfezione” che Gesù indica come vocazione dell’uomo non è lo stato di chi non compie errori. La “perfezione” di cui ci sta parlando Matteo corrisponde alla “misericordia” di cui parla l’evangelista Luca nel passo parallelo a questo: “siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro celeste” (Lc 6,36). Sì, solo l’amore, la misericordia (cioè il cuore donato al misero) porta a compimento la nostra umanità. La “perfezione” non è una condizione che si raggiunge attraverso l’osservanza di qualche norma in modo integerrimo, ma che riceviamo come “conseguenza” della nostra relazione con Gesù, il Figlio. È Lui che, con “l’unica offerta di se stesso ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati” (Eb 10,14); è rimanendo quindi in relazione con Lui nella sua sequela, che veniamo trasformati a Sua immagine, che diveniamo “perfetti” nell’amore, come Lui è perfetto, che la nostra capacità di amare si dilata secondo la Sua misura.
Se la misura della vita la riceviamo dall’orizzonte naturale delle cose, la via per rispondere al male non sarà che altro male, opponendo criteri di presunta “giustizia” per giustificare un’escalation di violenza o per innescare atteggiamenti di pretesa nei rapporti con gli altri.
Ma se la misura del vivere è l’Amore che immeritatamente riceviamo dal Padre che continua a farci dono di sé sia quando presumiamo di essere “giusti”, sia quando non lo siamo, allora scopriamo gli orizzonti dilatati del Figlio, quelli dell’“amore più grande” (cfr. Gv 15,13). E, seguendo Lui, scopriremo che anche la nostra umanità è fatta per questa misura.
Il nostro cuore è più grande della nostra attuale capacità di amare.
Ma, seguendo il Figlio, conoscerà altri orizzonti, inesplorati, impossibili all’uomo…
http://www.clarissesantagata.it

L’amore per il nemico
Enzo Bianchi
Dopo le prime quattro antitesi annunciate da Gesù nel “discorso della montagna”, ecco le ultime due, nelle quali appare ancora la “differenza” richiesta da Gesù ai suoi discepoli rispetto alla Legge di Mosè, confermata ma approfondita e reinterpretata.
In questo caso viene messa a fuoco la violenza: come arginarla? Come rispondere a essa? Certo, nella Torah si trova scritta la “legge del taglione”, della reciprocità tra chi ha offeso e chi è stato offeso (cf. Es 21,24; Lv 24,20; Dt 19,21), legge data per impedire il deflagrare degli eccessi della violenza, che facilmente viene moltiplicata per ripagare l’aggressore. Si ricorda, ai primordi dell’umanità, il canto selvaggio e barbaro di Lamek, che si vantava di vendicarsi non sette volte, come Caino, ma settanta volte sette (cf. Gen 4,24). Dunque la legge del taglione è un limite, un argine alla violenza: “Occhio per occhio e dente per dente”. Non scandalizziamoci di fronte a questa ingiunzione, perché ancora oggi siamo testimoni di fenomeni di vendetta moltiplicata, come la “faida” o la rappresaglia nelle guerre, nelle lotte razziali, nella violenza terroristica.
Ebbene, con la sua autorità Gesù può dire anche in questo caso: “Ma io vi dico di non resistere al malvagio”, proponendo una pratica di non-violenza che è un nuovo modo di resistenza attiva, una resistenza inaudita perché mite, umile, misericordiosa. Solo così si può arrestare la reazione a catena della violenza. È in questa logica di non-violenza che Gesù propone dei casi, degli esempi di violenza subita, indicando come rispondervi. “Se uno ti percuote con uno schiaffo”, fatto quotidiano anche nella vita famigliare, “se tu vuoi essere discepolo porgi l’altra guancia”. Linguaggio semitico, per noi forse eccessivo, che non vuole suggerire un’esecuzione materiale del comando, ma piuttosto indica lo “spirito” che deve ispirare l’atteggiamento verso l’aggressore. Non a caso, secondo il quarto vangelo, dopo aver ricevuto uno schiaffo da una delle guardie del sommo sacerdote, Gesù non gli porge l’altra guancia (cf. Gv 18,22), ma replica con assoluta mitezza: “Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gv 18,23). Questo comando rivolto personalmente a ogni discepolo non esige ingenuità né passività di fronte alla violenza, ma richiede di essere sempre “artefici di pace” (Mt 5,9). E nel caso di un pignoramento, se viene tolta la tunica, Gesù chiede di dare anche il mantello, che la Legge vieta di togliere al povero (cf. Es 22,25-26; Dt 24,10-13).
Ma ripeto: Gesù non predica rassegnazione, non chiede di lasciare che l’ingiustizia trionfi, ma chiede un atteggiamento creativo, sempre capace di toccare l’aggressore, di fargli ascoltare una domanda che egli non si pone. In ogni caso, davanti all’ingiustizia patita, occorre non tacere mai, non fuggire, ma intervenire, pur rinunciando sempre all’offesa e alla violenza. Sempre si tratta di “vincere il male con il bene” (cf. Rm 12,21). Ciò è richiesto al discepolo anche quando è costretto a fare strada da qualcuno, a quei tempi spesso l’occupante romano: accetti di camminare più di quanto gli è richiesto… Perché la logica evangelica è rispondere al male facendo il bene, rispondere positivamente a chi ha bisogno.
Segue la sesta e ultima antitesi: “Avete inteso che fu detto: ‘Amerai il tuo prossimo’ (Lv 19,18) e odierai il tuo nemico, ma io vi dico…”. Nella Torah non sta scritto materialmente da nessuna parte di odiare il nemico, ma resta vero che nelle Scritture vi sono testi che non solo giustificano l’odio per il nemico, ma lo richiedono, soprattutto se il nemico personale è sentito anche come nemico di Dio. Al riguardo, va denunciato un vizio tipico delle persone religiose: quando hanno un nemico personale, facilmente, pensando che Dio sta dalla loro parte, si sentono autorizzate a odiarlo a nome di Dio, pregando addirittura contro di lui salmi di imprecazione. Emblematico è il caso del salmo 139: “Non devo forse odiare chi ti odia, detestare i tuoi avversari, Signore? Li odio con odio implacabile, li ritengo miei propri nemici!” (vv. 21-22). Sì, le persone religiose odiano più intensamente delle altre, ritenendosi giustificate e appoggiate da Dio!
Ecco perché Gesù toglie ogni possibilità a questa deriva e non asseconda neppure il linguaggio immaginifico di cui vi sono tracce negli scritti di Qumran: “Amerai i figli della luce e odierai i figli delle tenebre”. Al contrario, egli comanda: “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano”. Parole scandalose, inaudite, che sembrano trascendere le nostre capacità umane. Eppure questa è per Gesù nient’altro che l’interpretazione del comandamento: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Ovvero, lo amerai sempre, in ogni situazione, anche quando ti è nemico, anche quando ti fa del male; anzi, simultaneamente all’offesa ricevuta, continuerai ad amare di un amore che si spinge fino a pregare, a chiedere a Dio il bene per il persecutore. Può forse un cristiano classificare come nemiche e odiare quelle persone alle quali Dio, Padre di tutti, concede senza alcuna discriminazione il sole (la vita) e la pioggia (la fecondità), i beni della creazione?
Il discepolo di Gesù capovolge la logica delle Scritture dell’Antico Testamento. Se nei salmi è richiesto di pregare contro i nemici (cf. Sal 16,13; 27,4; 68,23-29, ecc.), Gesù invece chiede di pregare per il loro bene, di benedire chi maledice (cf. Lc 6,28). Se egli lo chiede, è perché questo è l’atteggiamento di Dio, come l’Apostolo attesta nella Lettera ai Romani: “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi … Quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio” (Rm 5,8.10). Questa è la “differenza cristiana”, la differenza del discepolo di Gesù rispetto a giudei o pagani, indifferenti o non credenti. Amare l’altro nella sua irriducibile alterità, al di fuori di ogni logica di reciprocità, che richiede il contraccambio e il riconoscimento reciproco dei diritti. Spetta dunque al cristiano vincere la paura del diverso, avere il coraggio di opporre il bene al male, assumere un comportamento pieno di amore gratuito verso i nemici, chiedere a Dio il bene, la felicità, la vita dell’aggressore. David Flusser, un grande studioso ebreo che pure era affascinato e in attento ascolto di Gesù, diceva che questo suo comando era l’unico che non poteva trovare realizzazione, ma era destinato a restare utopia. Eppure la storia testimonia di discepoli e discepole che, come Stefano, il primo martire cristiano, hanno vissuto questo comando fino alla morte, invocando il perdono (cf. At 7,60), come Gesù aveva fatto sulla croce (cf. Lc 23,34).
Chi pratica questo comandamento di Gesù sperimenta il compimento della promessa di “essere figlio del Padre che è nei cieli”, il quale ama tutti di un amore che non va meritato e che non dipende dall’essere buoni o malvagi, giusti o ingiusti. Così si può essere téleioi, completi, nella pienezza dell’amore, come “Dio è amore” (1Gv 4,8.16). Se nella Torah il comando era: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo” (Lv 19,2; cf. 1P 1,16), nelle parole di Gesù esso è interpretato come “Siate perfetti, capaci di una giustizia superiore, come Dio, il Padre”. E significativamente in Luca diventerà: “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso” (Lc 6,36), come già interpretava la parafrasi aramaica del Targum (su Lv 22,28): “Dice il Signore: ‘Come io sono misericordioso nei cieli, così voi sarete misericordiosi sulla terra”.