«Precursore, evangelizzatore, profeta, pioniere, gigante missionario, promotore, liberatore, sacerdote e vescovo dal cuore magnanimo che sa perdonare e specialmente amico dell’Africa, per la quale non esita a sacrificare tutto». Così lo ha definito, con un ritratto fedele, il cardinale Arinze. Nato il 15 marzo 1831 a Limone sul Garda, Daniele Comboni dopo il ginnasio entra nell’istituto di don Nicola Mazza, che accoglie giovani di famiglie povere desiderosi di istruirsi. In quel periodo sorgono un po’ dovunque istituti missionari e arrivano in Africa le prime Suore. Da canto suo, nel 1845 Gregorio XVI, che ha confermato la condanna dello schiavismo, consacra i primi vescovi di colore. Daniele, nel gennaio 1849, giura davanti al superiore di consacrare la sua vita all’apostolato dell’Africa Centrale. Ordinato prete nel 1854, tre anni dopo partecipa a una spedizione missionaria a Khartoum, ma è costretto a rientrare in Italia dopo la morte di tre compagni. Nel 1864, mentre a Roma prega sulla tomba di san Pietro, gli viene l’idea di stendere quello che sarà il suo “Piano per la rigenerazione dell’Africa” per mezzo degli africani, da attuarsi coniugando evangelizzazione e promozione umana. Nel 1867 nasce l’Istituto maschile per le Missioni della Nigrizia, non senza ostacoli a causa di calunnie da parte dei camilliani facenti parte della spedizione. Nel gennaio 1872 spunta anche il ramo femminile, le Pie Madri della Nigrizia. Nel 1877 don Daniele è nominato Vicario Apostolico dell’Africa Centrale, mentre prosegue l’opera di “rigenerazione” da parte degli africani: accanto alle maestre nere si vanno formando famiglie di cristiani autoctoni in grado di trasmettere la fede e di mantenersi coi vari mestieri e con l’agricoltura. Tornato dall’Italia dopo un’altra spedizione, il 2 ottobre 1881 è assalito da violente febbri e spira il 10 ottobre. Giovanni Paolo II lo ha beatificato nel 1996 e canonizzato il 5 ottobre 2003.
Comboni, un’avventura a Parigi
Fa bene “all’anima” leggere e riflettere su questo episodio della vita di San Daniele Comboni che ci riconduce sempre all’infinita misericordia che Dio Padre ha per i suoi figli anche quando sembra non ne siano degni .
Quel soggiorno parigino rimase nella memoria di Comboni anche per un episodio sorprendente, che evoca atmosfere e personaggi di un romanzo d’appendice ottocentesco. Il fatto viene riportato nel Tesoro di racconti istruttivi ed edificanti di don Antonio Zaccana. La sera del 22 dicembre 1868, verso le dieci, una carrozza chiusa si fermò davanti al portone di casa Havelt. Ne scese un signore che chiese del missionario italiano e gli disse: «Un moribondo desidera parlare con lei». Il Comboni d’impulso seguì lo sconosciuto fin sulla carrozza, che ripartì in gran fretta. Un signore molto gentile gli sedeva accanto e altri due uomini gli stavano di fronte. Dissero che dovevano bendargli gli occhi. Il sacerdote si rifiutò e cercò di scendere dalla carrozza, ma uno degli uomini lo afferrò e gli puntò un coltello contro il petto. La carrozza viaggiò nella notte per un paio d’ore. Quando si fermò, Comboni, ancora bendato, fu introdotto in una casa. Gli levarono la benda e si trovò in un salotto ben arredato e illuminato. «Avete un’ora», gli disse il signore che lo aveva accompagnato. Dietro di lui una voce disse: «Sono io il moribondo». Era perfettamente sano, spiegò l’uomo, ma di lì a due ore sarebbe morto. Cattolico, educato dai gesuiti, aveva una figlia Dama del Sacro Cuore in un convento di Parigi, ma da ventotto anni faceva parte della massoneria e aveva sempre servito fedelmente la società segreta raggiungendo il grado 33. Qualche tempo prima, gli era stato ordinato di uccidere un prelato molto stimato, ma egli si era rifiutato di commettere l’omicidio e perciò era stato condannato a morte. Terminata la confessione, i tre uomini tornarono e trascinarono via il penitente. Più tardi i tre ricomparvero con qualche macchia di sangue sulle mani e invitarono il missionario a seguirli in un’altra sala dove c’era una bella tavola imbandita. «Prima di rientrare, fate colazione», gli dissero. Comboni temeva di essere avvelenato e declinò l’invito spiegando che non poteva mangiare perché dopo qualche ora avrebbe dovuto celebrare la messa. Lo bendarono di nuovo e ripartirono di gran carriera in carrozza. Alla fine della corsa lo fecero scendere. Quando Comboni si tolse la benda scoprì di trovarsi nel giardino di una casa. Bussò ma nessuno venne ad aprirgli, uscì in strada e finalmente arrivò in una casa rustica in mezzo ai campi. Lì seppe di trovarsi a tre ore da Parigi. Lo accompagnarono sulla strada maestra, egli montò su una diligenza e rientrò a Parigi a giorno fatto. A casa Havelt erano tutti preoccupati. Pochi giorni più tardi, il nostro sacerdote si recò al convento delle Dame del Sacro Cuore e, secondo le ultime volontà del padre penitente, comunicò alla figlia la sua conversione. Il giorno di Natale lesse su un giornale che all’obitorio c’erano diversi cadaveri che non erano stati identificati. Vi si recò, ma sulle prime non riuscì a identificare il corpo del suo penitente, sinché non scorse per terra una reliquia che egli stesso aveva appeso al collo del condannato. Tornò a guardare meglio e riconobbe il suo uomo. Don Comboni per il momento non parlò a nessuno dell’episodio, come gli era stato chiesto. Dopo i rivolgimenti del 1870, don Comboni narrò la storia per la prima volta a Roma. L’episodio fu poi pubblicato ne «La voce cattolica» e nel «Messaggero del Sacro Cuore» tedesco. Nel 1875 egli ammise davanti ai gesuiti di Bressanone di essere il sacerdote italiano di cui aveva parlato il «Messaggero».
COMBONINSIEME