SanLucaLectio divina sul Vangelo di Luca
Silvano Fausti
Capitoli 16-18


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Testo doc Lectio Luca Cap 16-18 Fausti (9)

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95. CHE FARÒ? (16,1-9)

La parabola del c. 15 dice quanto fa per noi colui che è benevolo con tutti i disgraziati e i cattivi (6,35). Questa risponde alla domanda: “che fare” noi, chiamati a diventare come lui (6,36)?

La risposta è implicita nei due termini usati per indicare Dio e l’uomo, chiamati rispettivamente il Signore (4 volte) e l’amministratore (7 volte). Ma l’uomo è un amministratore ingiusto, perché si è fatto padrone di ciò che non è suo. Però ora conosce Dio: sa che tutto dona e perdona. Di conseguenza sa “che fare” anche lui: condonare ciò che in fondo non è suo.

La scena si svolge ancora a quella mensa dove Gesù con-mangia con i peccatori (15,1). Dopo aver rivelato il cuore del Padre ai “giusti” che lo criticano (15,2ss), ora rivela ai discepoli l’uso corretto dei beni del mondo. Il c. 16, incluso tra le parabole dell’uso sapiente (l’amministratore saggio) e l’uso stolto dei beni (il “ricco epulone”), parla dell’amministrazione concreta della propria vita. Toccandone i vari aspetti, le istruzioni si prolungano fino a 17,10, quando Gesù riprende il suo viaggio.

Il tema di questa sezione è la vita nuova nello Spirito. Chi conosce il giudizio di Dio in Gesù non è più come il possidente “insipiente”, che sbaglia nel sapere “che fare” (12,16ss). Non è neanche come il ricco mangione, che ignora cosa bisognava aver fatto (vv. 19ss). Illuminato dalla sapienza del vangelo, è come l’amministratore fedele e sapiente associato alla gloria del suo Signore (cf. 12,42ss).

Il centro del brano è l’elogio dell’amministratore (v. 8), che sfocia nell’esortazione ad agire come lui (v. 9). La parabola ci insegna Che anche i beni materiali vanno gestiti per quel che sono, secondo la loro natura di dono. Luca sa che ciò che abbiamo accumulato è frutto di ingiustizia; non l’abbiamo fatto propriamente per puro amore di Dio e del prossimo! Sa anche che continuiamo a vivere in un mondo che avanza sullo stesso binario. In tale situazione siamo chiamati a vivere con il criterio opposto a quello dell’egoismo. Abbiamo capito “che fare”: i beni sono un dono del Padre da condividere tra i fratelli.

Questo è il senso dell’anno giubilare, la cui osservanza è condizione per restare nella terra promessa.

L’attività di Gesù, che inizia e finisce di sabato (4,16; 23,56) e si svolge nell’arco di sette sabati, è descritta da Luca come realizzazione dell’anno giubilare. L’ascolto della sua parola ne attualizza “oggi” il compimento (4,21).

La comunità cristiana è l’erede legittimo della terra promessa perché continua il sabato senza fine che ha in Gesù il suo principio (cf. At 2,42-48; 4,32-37; Dt 15).

Questa parabola sconcerta un poco lettori e commentatori. Sembra oscura. In realtà è chiara: il Signore elogiò l’amministratore sapiente che cominciò a donare, come biasimò la stoltezza del padrone insipiente che continuò ad accumulare (12,16ss). Il racconto è probabilmente desunto da un fatto di cronaca: un amministratore, accusato dalla sua avidità eccessiva ormai insostenibile, trova conveniente iniziare un nuovo tipo di rapporto, quello del dono. Gli è necessario per vivere quando sarà finita la sua amministrazione. Tale astuzia di uno dei figli di questo mondo ci svela la vera sapienza che manca ai cosiddetti figli della luce e illustra il tema della misericordia, caro a Luca: a chi perdona, sarà perdonato; a chi dà, sarà dato (6,37s). Sappiamo inoltre che “la carità copre una moltitudine di peccati” (1Pt 4,8), perché chi dona al povero, fa un prestito a Dio (Pro 19,17). Per questo “meglio è praticare l’elemosina che mettere da parte oro” (Tb 12,8). Infatti “salva dalla morte e purifica da ogni peccato” (Tb 12,9).

96. NON POTETE ESSERE SCHIAVI DI DIO E DI MAMMONA (16,10-15)

La parabola precedente ci esortava a passare dall’economia dell’accumulo a quella del dono, per diventare come il Padre (6,36): viviamo nel mondo ma non siamo del mondo (Gv 17,15ss).

Questo brano è uno sviluppo soprattutto del v. 9: “fatevi amici coi Mammona dell’ingiustizia”. I vv. 10-12 mostrano come, amministrando debitamente la realtà terrestre (chiamata “il minimo”, “l’ingiusto Mammona”, “ciò che è altrui”), ci procuriamo quella celeste (chiamata “il molto”, “la cosa vera”, “ciò che è vostro”).

Il v. 13 pone la vera alternativa: o Dio o Mammona. Il fine della vita non può essere che uno solo. I vv. 14-15 parlano del peccato di chi punta sul danaro. È l’abominio della desolazione: l’idolo tiene il posto di Dio.

Il centro del brano è il v. 13, che va contro la tentazione di tenere il piede in due scarpe. Mentre i vv. 10-12 dicono di non demonizzare i beni, e i vv. 14-15 di non assolutizzarli, il v. 13 ricorda che Dio è l’unico Signore e deve esserlo in realtà. La parola ricorrente, soprattutto nei primi versetti, è “fedele/affidare”, che ha la stessa radice di “fede”. La fede in Dio si gioca nella fedeltà in ciò che egli ci ha affidato. C’è una falsa astuzia che fa porre la fiducia, invece che nel Creatore, nelle creature. È una perversione che fa dei mezzi il fine, e ci riduce a servire ad essi invece di servircene.

Questa falsa astuzia fa ritenere il benessere e il progresso materiale come fine dell’uomo e del suo vivere sociale. Ma è una vista miope, che non tiene conto della verità, porta a operare l’ingiustizia e a sacrificare il vero bene dell’uomo, compreso quello materiale.

La vera astuzia è di chi sa che tutto ciò che c’è è dono di Dio, ed è un mezzo per entrare in comunione con il Padre e con i fratelli. Per questo vive in rendimento di grazie e in spirito di condivisione.

I beni, che l’uomo stima di tanto valore, sono una cosa minima rispetto al vero bene. D’altra parte sono necessari per conseguirlo: il nostro futuro si decide qui e ora nell’uso corretto che ne facciamo. In questo, più che nei pii sentimenti, si esprime la nostra fedeltà a Dio. Il fallimento dell’uomo consiste nell’amare ciò che non è l’oggetto del suo cuore.

97. L’ADULTERIO (16,16-18)

Alla domanda: “che fare per ereditare la vita eterna?” (10,25), Gesù aveva già risposto con la parabola del samaritano, concludendo: “Va’ e fa’ lo stesso” (10,37). La nuova Legge è la misericordia. Illustrata nel c. 15 come il volto del Padre che il Figlio rispecchia sul suo, essa pervade la vita dell’uomo, toccandone tutti gli aspetti, compreso quello economico (vv. 1-15). Ora si mostra il suo rapporto con l’antica Legge. Insieme transitoria e permanente, essa sta alla nuova in continuità e discontinuità, come la promessa al compimento.

Fino a Giovanni durò la Legge e lo sforzo, lodevole ma inefficace, di osservarla per entrare nel Regno. Dopo di lui inizia il vangelo che forza con dolcezza tutti a entrarci (v. 16). Ma la misericordia non annulla la Legge: è la forza per compierla pienamente (v. 17). Il v. 18 applica questa nuova Legge al matrimonio. Essa infatti abbraccia tutta la vita umana, introducendo la benedizione del dono là dove era entrata la maledizione del possesso. È la guarigione dal peccato originale: il nuovo rapporto con il Padre ne produce uno nuovo con sé, con le cose e le persone.

La misericordia, compimento perfetto della Legge, riporta dalla terra di sudore all’Eden, in armonia con Dio e con se stessi, con tutto e con tutti.

L’indissolubilità del matrimonio sembra andar oltre e radicalizzare la Legge. In realtà è “vangelo”, buona notizia che ci è donato ciò che ci era impossibile.

98. ORA QUI LUI È CONSOLATO, TU INVECE TRAVAGLIATO (16,19-31)

È un dittico che si riflette capovolto su uno specchio: sotto l’immagine di un ricco gaudente e di un povero sofferente; sopra la realtà di un ricco in pena e di un povero nella gioia. La scena, parallela a quella del ricco stolto (12,16-21), è in contrappunto con quella dell’amministratore saggio (vv. 1-8). Illustra in negativo il v. 9: “Fatevi amici col mammona”. Non si tratta di una condanna dei ricchi e un’esaltazione dei poveri di stampo manicheo. È piuttosto un ammonimento ad aprire gli occhi e usare giustamente dell’ingiusto mammona: il possidente stolto si converta nell’amministratore saggio.

Si mostra per immagini quel rovesciamento di criteri già cantato nel Magnificat e proclamato nelle beatitudini-lamentazioni (1,46ss; 6,20ss). Ha torto il buon senso dei farisei che se la ridono di Gesù (v. 14): ride bene chi ride ultimo (cf. Sal 73)!

L’esistenza terrena è un ponte gettato sull’abisso tra l’inferno e il seno di Abramo. È lungo l’arco di una vita, poi crolla. Lo si attraversa esercitando quella misericordia che allora sarà invocata anche da chi l’ha derisa. Per prendere decisioni corrette è utile porsi dal punto di vista della fine, e fare ora ciò che allora si vorrebbe aver fatto. Dopo è inutile pianger sul latte versato. Bisogna convertirsi oggi alla Legge e ai profeti, che dicono “che fare”.

Da sempre l’alleanza col Signore passa attraverso l’amore del fratello povero (cf. Es 22,20-26; 23,6-11; Lv 25,1-17; Dt 15,1-15; 24,10-15; Am 2,6-8; Is 5,8; 10,12; 58,6-10; Ger 22,13-17; 34,8-22; Tb 4,7-11.14-17; Sir 3,30-4,6 … ). Sintetizza Giacomo 1,27: “una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo”, che si regge sull’amore del denaro.

Questo racconto pone l’aldilà come orizzonte dell’aldiqua. Se è sbagliato eliminare il secondo in nome del primo – è l’alienazione religiosa – è ben più sbagliato il contrario: è l’alienazione materialista, che, togliendo l’aldilà, leva all’aldiqua il suo senso. Presente e futuro non si negano. Stanno tra loro in contrapposizione e in continuità, come la semina e il raccolto.

Degli antichi commentari considerano questo brano a metà strada tra la storia e la parabola: fino al v. 23 viene narrata la “vera storia” dell’uomo vista dalla sua fine. Ciò che segue è una parabola: un serrato dialogo che si alza a sei riprese attraverso il caos invalicabile, e serve a illustrare quanto detto prima. Gesù non compie un giudizio, ma un atto di correzione fraterna verso i ricchi. Non è venuto per giudicare, ma per salvare. E salva accogliendo senza riserve e illuminando con sincerità.

Nel ricco c’è chi intravede Erode: ciò che è elevato tra gli uomini, è abominio agli occhi di Dio (cf. At 12,20-23).

Guai a chi disprezza il povero e non agisce come uno che deve essere giudicato secondo la Legge nuova: “II giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio” (Gc 2,13). “L’elemosina salva dalla morte” (Tb 12,9). Per questo “è meglio praticare l’elemosina che mettere da parte oro” (Tb 12,8). Per essa ci viene affidata la nostra vera ricchezza (vv. 11s): l’eredità dei figli di Abramo.

99. AGGIUNGICI FEDE (17,1-10)

Siamo ancora alla mensa, dove Gesù ha rivelato ai farisei e agli scribi la misericordia del Padre (15,1ss) e ha spiegato ai suoi discepoli come viverla in concreto (c. 16). Ora, prima di iniziare l’ultima tappa del cammino, mostra come essa è l’anima della comunità, nei suoi rapporti sia interni sia esterni. A questo scopo dice quattro parole, indirizzate due ai discepoli (v. 1) e due agli apostoli (v. 5).

La prima è sullo scandalo (vv. 1-2). Dio non può non permetterlo, perché deve rispettare la nostra libertà. Infatti ci ama. Questo male, molto grave perché induce il fratello al male, è il luogo della massima misericordia.

La seconda è sulla correzione fraterna (vv. 3-4), che aiuta il fratello a uscire dal peccato. La comunità dei discepoli non è una setta di puri, chiusa ai peccatori. Può peccare e di fatto pecca. È quindi necessario vivere reciprocamente quel perdono che il Padre ci dona perché siamo in grado di perdonare gli altri (11,4), graziandoci a vicenda come lui ha graziato noi in Cristo (Ef 4,32). L’accoglienza incondizionata, illustrata al c. 15 (cf. 6,36-38), non vieta la correzione fraterna. Ne è anzi la madre, ed essa la figlia più bella. Concilia infatti carità piena con verità sincera, e raggiunge la sua efficacia nella conversione del fratello.

La terza parola è una risposta agli “apostoli” che chiedono un supplemento di fede (vv. 5-6). Questa consiste nell’esperienza della misericordia di Dio, che porta ad amare il fratello peccatore come noi per primi siamo stati amati. Come è la sorgente della vita nuova, così è l’origine della missione ai lontani.

La quarta riguarda la gratuità del ministero apostolico (vv. 7-10) che prolunga nel tempo ed estende a tutti il mistero di misericordia del Signore. La gratuità, segno essenziale dell’amore, è sigillo di appartenenza a lui. Ci fa come lui, schiavi per amore. È la massima libertà, che rende simili a Dio.

Concludendo: la misericordia, necessaria al discepolo per superare lo scandalo e perdonare efficacemente (vv. 1-4), è quell’esperienza profonda di fede da cui scaturisce la missione al mondo, come testimonianza dell’amore gratuito di Dio (vv. 5-10).

100. GESÙ, SIGNORE, ABBI PIETÀ DI NOI (17,11-19)

Il viaggio di Gesù a Gerusalemme delinea l’itinerario spirituale del discepolo. Ora inizia la terza e ultima tappa, che introduce a Gerico, porta della terra promessa. Ma chi ha mani innocenti e cuore puro per salire il monte del Signore (Sal 24,3s)? Solo il Giusto ha la forza di compiere il santo viaggio (Sal 84,6). Per noi è impercorribile! Ma la sua misericordia ordina a noi, peccatori e fuggitivi, di andare a Gerusalemme; la sua parola ci invia a compiere ciò che ci è vietato. Lui, l’unico pellegrino che vi sale, ce lo rende possibile: è il samaritano che viene incontro a noi, esuli dal volto ed esclusi dalla gloria, per farsi carico della nostra lebbra.

L’invocazione: “Gesù, abbi pietà” (v. 13), ripresa in prima persona dal cieco (18,38), è il punto al quale Luca vuol portare il suo lettore: è la preghiera del Nome che ci associa a lui, nel suo stesso viaggio, all’interno del quale veniamo mondati.

Questo racconto, che cambia di continuo scena ogni versetto e contiene una decina di verbi di moto, parla non della possibilità, ma della realtà dell’impossibile. La salvezza, che nessuno può raggiungere, è già stata donata a tutti e dieci gli uomini: si trovano di fatto nello stesso cammino di colui che è venuto per cercare tutti. Ma uno solo per ora ha la fede e incontra il Salvatore. Questi è responsabile degli altri nove, perché anch’essi si scoprano guariti e tornino al Signore facendo eucaristia. La salvezza infatti non è guarire dalla lebbra, ma incontrare chi ci ha guarito. La sete non si placa con un bicchiere d’acqua; bisogna trovare la sorgente. Al dono deve corrispondere il nostro grazie al donatore. Solo il rapporto con lui ci salva: i suoi doni sono semplici mezzi per metterci in comunione con lui. Per questo la salvezza è tra il “già” e il “non ancora”: già offerta a tutti, non ancora tutti l’hanno accolta. Ancora nove su dieci non sanno che la loro vita è stata condonata della morte, vivono e muoiono ancora da lebbrosi. Sono come un uccello in gabbia, che non sa che è aperta la porta.

L’uno solo che torna a fare eucaristia è inviato per dare a tutti la buona notizia: si aprano gli occhi dei ciechi e vedano la luce! L’annuncio porta a scoprire e accettare il dono. Questo è tale solo quando trova mani per prenderlo e cuore per gioirne.

È la prima volta che Gesù è chiamato per nome. “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12). L’invocazione ci unisce a lui, via che conduce al Padre.

In quest’ultima tappa siamo chiamati a identificarci coi lebbrosi che diventano bambini (18,15ss; cf. 2Re 5,14) e col ricco che si converte in Zaccheo (18,18ss; 19,1ss). Al centro c’è l’illuminazione del cieco di Gerico (18,35ss).

101. QUANDO VIENE IL REGNO DI DIO? DOVE? (17,20-37)

È la parte principale della “piccola apocalisse” (= rivelazione) di Luca (17,20-18,8). È inclusa tra due parole di Gesù sulla fede: “la tua fede ti ha salvato” (17,19) e: “il Figlio dell’uomo, venendo, troverà forse la fede sulla terra?” (18,8).

Questo brano inizia e termina rispettivamente con le domande: “quando” e “dove” il Regno, ossia quale è il suo tempo e quale è il suo luogo? Gesù risponderà dicendo “come” viene il Regno, o, piuttosto, chi è il Re. Ci dà così i criteri per leggere la storia presente in termini di fede.

Mentre la “grande apocalisse” (21,5-36), comune ai sinottici, ha un colore più cosmico, questa ha un carattere più individuale. Parla del senso della mia vita e della presenza del Regno nel mio decidere per Gesù. Si tratta di un discorso “escatologico (= ultima parola)”. È infatti l’ultima parola che si è riservata di dire colui che ha detto anche la prima. In essa manifesta dove va a parare tutta la vicenda dell’uomo e dell’universo, e rivela il senso del presente partendo dal suo punto di arrivo. Anche se il male è forte, colui che tiene in un otre gli abissi del mare (Sal 33,7) non ha perso il controllo della storia umana. Anzi, si serve di tutto perché alla fine si compia ciò che la sua mano e il suo cuore hanno preordinato che avvenga (At 4,28): il bene dell’uomo (cf. Rm 8,28).

Il fine di tutto non è il trionfo della morte, bensì della vita. È il regno di Dio. Esso è già presente in mezzo a noi sotto il segno della croce. Per questo sembra che vinca il male, ma è in realtà l’astuzia del bene, che vince perdendo. Tutto sarà chiaro nel giorno del Figlio dell’uomo (vv. 22.24.26.30), la cui venuta riempie di speranza il credente e illumina ogni sua decisione attuale. Egli conosce la parola di Dio sul futuro, si fida e su di essa orienta la propria vita. È come Noè e Lot, che si preparano attivamente alla salvezza, mentre i loro contemporanei, come tutti i contemporanei di sempre, non si accorgono di nulla: dimentichi di Dio e incurvati sulla terra, sono intenti a mangiare e bere, sposarsi e maritarsi, comprare e vendere, piantare ed edificare (vv. 26-29).

Anche il discepolo si occupa di queste stesse cose. Ma senza preoccuparsene, e con spirito diverso. Cerca innanzitutto il Regno, e sa che il resto è donato in aggiunta a chi conosce il Padre (12,30s).

Il giudizio finale è anticipato nel presente quotidiano, in cui si mangia e si beve, ecc. La storia profana è il luogo della salvezza di Dio; basta viverla col lievito del Regno, invece che con quello dei farisei. All’inizio i farisei domandano “quando”, alla fine i discepoli “dove” è il Regno (vv. 20.37). E Gesù risponde ai primi: “ora, ma in modo nascosto”; ai secondi: “ovunque, e in modo manifesto”. Il tempo e lo spazio sono le coordinate che delimitano e definiscono l’esistenza umana. Ma il Regno non si situa in un dove e un quando puntuali; abbraccia invece ogni momento e ogni luogo. Avviene dove e quando l’uomo orienta la propria vita secondo il giudizio di Dio.

Gesù chiede ai discepoli di abbandonare ogni nostalgia del passato e ansia del futuro, per vivere il presente con vigilanza attenta e fedeltà responsabile.

La memoria di quanto lui ha fatto e insegnato (At 1,1) diventa progetto che spinge a testimoniarlo fino agli estremi confini della terra. La fede si fa speranza che urge alla carità: il suo passato muove il nostro presente verso il suo futuro. Questo è il Regno.

Ora è necessariamente velato sotto il mistero dell’umiltà e della povertà di chi dona e si dona fino alla croce.

La sua manifestazione, che i discepoli desiderano, ma che riguarda tutti e ciascuno, si pone alla fine della storia perché ne è il fine. Avviene necessariamente, ma richiede la libera decisione di passare attraverso le sofferenze e le contraddizioni del quotidiano.

In questo brano la manifestazione futura cosmica scivola in secondo piano ed è anticipata in quella personale, che avviene al momento della morte. Per questo ciò che conta è la vita attuale: il destino del singolo e di tutta la creazione si gioca nel momento presente, senza il quale futuro e passato sono vuoti. Questo e non un altro è il momento favorevole della salvezza (2Cor 6,2): qui e ora siamo chiamati a incarnare la parola di Gesù, oggi eterno di Dio.

L’umanità, lo sappia o no, volente o nolente, è in cammino verso il giorno del Figlio dell’uomo. Egli si rivelerà alla fine, quando ogni storia scoprirà il proprio non senso senza di lui. Il vuoto della sua assenza porterà tutti a desiderarlo. L’incapacità di salvarsi farà incontrare a ognuno il Salvatore. Allora sarà accolto colui che è già venuto per salvare tutti. E saremo tutti accolti nel Padre.

102. BISOGNA PREGARE SEMPRE (18,1-8)

La “piccola apocalisse”, iniziata dopo le parole di Gesù: “la tua fede ti ha salvata” (17,19), termina ora con il suo interrogativo sulla fede (v. 8). Questo brano risponde alla domanda della chiesa: “Perché il Signore non viene ancora?”. La fede infatti vive del desiderio di incontrarlo, e invoca: “Maranà tha: vieni, o Signore” (1Cor 16,22). Senza di lui il discepolo è come la vedova: priva dello sposo. Ma lui sembra insensibile anche all’insistenza più importuna; pare che ceda solo a fatica e per non essere disturbato oltre, come il giudice ingiusto.

In realtà il Signore si comporta da sordo, solo perché vuole che gridiamo a lui; desidera udire la nostra voce: “fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave!”, dice lo sposo a colei che si sente vedova (Ct 2,14).

Il v. 1 è la didascalia dell’evangelista: bisogna pregare sempre. I vv. 2-5 contengono la parabola dell’insistenza esaudita. I vv. 6-8 sono l’applicazione di Gesù: l’esaudimento è sicuro, bisogna però aver fede. Se la sua venuta è certa, bisogna nel frattempo “importunarlo”. In questo consiste la fede: una richiesta insistente del suo ritorno, che tiene desto il nostro desiderio di lui e ci preserva dal cadere nella tentazione radicale di non attenderlo più.

La salvezza non viene perché non è invocata. Il Salvatore tarda a venire solo perché non è desiderato. Pazienta con noi e rinvia il suo ritorno, solo perché noi siamo indifferenti a lui. Per questo bisogna pregare senza stancarsi. L’invocazione: “Venga il tuo regno” (11,2) è il cuore della preghiera che Gesù ci ha insegnato. L’uomo non può produrre il Regno. È dono di Dio! Può soltanto accoglierlo. E lo accoglie solo se lo attende. E lo attende solo se lo desidera. L’invocazione dell’uomo permette a Dio di venire, e di venire accolto.

Tutto il viaggio a Gerusalemme è una catechesi che sviluppa le richieste del Padre nostro: sia santificato il tuo nome (c. 11), venga il tuo regno (cc. 12, 13), dacci il pane (c. 14), perdonaci (c. 15), perché perdoniamo (c. 16). Luca non contiene la domanda: “Sia fatta la tua volontà” (Mt 6,10b). Gesù è l’unico a compierla (22,42), soddisfacendo tutte le altre richieste, anche a nome nostro.

Quest’apocalisse lucana termina con la necessità della preghiera per non perdere la fede nel suo ritorno. La preghiera infatti ci apre gli occhi sul Regno, già venuto nel nascondimento e nella sofferenza. Solo alla fine si rivelerà nella gloria. Ma è già in mezzo a noi qui e ora, nella lotta per la fedeltà al Signore.

La preghiera non ha bisogno di essere esaudita circa ciò che chiede. Il più grande dono che essa ottiene è il fatto stesso di pregare, cioè di entrare in comunione con Dio. Questo è il frutto che essa porta sempre con sé, superiore a ogni nostra attesa.

103. O DIO, SII PROPIZIO A ME, IL PECCATORE (18,9-14)

“Quando il Figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?” ha appena chiesto Gesù (v. 8b). La fede è l’architrave della porta d’ingresso nel Regno. Gli stipiti che la sostengono sono la preghiera e l’umiltà. Senza la prima muore di asfissia, senza la seconda cresce in presunzione.

Per questo, dopo aver dichiarato la necessità della preghiera, si parla ora sulla sua qualità di fondo: l’umiltà.

Quest’ultima parte del viaggio, prima dell’ingresso a Gerusalemme, vuole convincerci di un’evidenza: siamo tutti sufficientemente presuntuosi e ricchi da escluderci dal Regno. La nostra umiltà allora sarà riconoscerci nel fariseo; la nostra povertà riconoscerci nel ricco.

In questo dittico abbiamo due modelli di fede e di preghiera. Da una parte il fariseo, che prega davanti al proprio io. Sicuro nella propria bontà, giustifica sé e condanna gli altri. Dall’altra il pubblicano, che, sentendosi lontano da Dio e non potendo confidare in sé, si accusa e invoca perdono.

Tutti i personaggi del Vangelo di Luca sono riconducibili a queste due figure, che rappresentano rispettivamente l’impossibilità e la possibilità della salvezza. Anzi più esattamente: noi cristiani seri siamo tutti fratelli gemelli del fariseo, il presunto giusto, che Gesù vuol convertire in reo confesso, perché accolga la grazia. In ogni sogno ci sono tre personaggi che contano: io che osservo, un altro che riconosco, e un terzo che non ricordo mai. Questi è proprio il più importante, il medio termine tra me e l’altro. Gesù svela al fariseo questo personaggio inafferrabile, mettendogli davanti uno specchio: il pubblicano, nel quale non vuol riconoscersi, è la parte profonda del suo io che non accetta.

Il Vangelo di Luca incoraggia questo riconoscimento in modo scandaloso, condannando il giusto e giustificando il peccatore.

Il giusto è condannato perché, nello sforzo di osservare le prescrizioni della Legge, trascura il comandamento da cui scaturiscono: l’amore di Dio e dei prossimo. Il peccatore invece è giustificato. Questo è il vero scandalo del vangelo, che ci permette di accettare la nostra realtà di peccatori in quella di Dio che ci ama senza condizioni – non per i nostri meriti, ma per il suo amore di Padre.

La fede e la preghiera che introducono nel Regno si fondano su questa umiltà fiduciosa, frutto della nuova conoscenza di sé e di Dio.

Dopo aver esortato alla preghiera, Gesù dubita se troverà “la” fede. Infatti, senza umiltà, la preghiera è dell’io e non di Dio; la fiducia è in sé e non in lui. La prima è autoglorificazione, la seconda presunzione.

Questo racconto ci aiuta a discernere sulla nostra preghiera. Questa è vera quando, riconoscendoci nel fariseo, facciamo nostra la preghiera del pubblicano.

Qui Luca dà il colpo di grazia al fariseo che è nel discepolo, proprio nella sua roccaforte: la fede, la giustizia e la preghiera.

L’unica differenza tra i peccatori e i giusti sta nel fatto che i primi accettano di essere salvati; i secondi non lo vogliono.

Questo pubblicano richiama misteriosamente Zaccheo, il pubblicano. Gesù, il nuovo tempio, alza lo sguardo su chi non osa levare gli occhi nel tempio, e fa di lui la sua dimora: “Oggi nella tua casa bisogna che io dimori” (19,5).

104. CHI NON AVRÀ ACCOLTO IL REGNO DI DIO COME UN BAMBINO, NON ENTRERÀ IN ESSO (18,15-17)

Gesù aveva esultato nello Spirito e lodato il Padre per la conoscenza di sé rivelata ai piccoli (10,21s). Ora questi gli si accostano liberamente: al contatto con lui, il Figlio, attingono direttamente la paternità di Dio, il mistero del Regno.

Dopo il c. 10, il viaggio di Gesù a Gerusalemme è tutta una catechesi sulla vita filiale, quasi un commento alle varie domande del Padre nostro. Qui si giunge al nocciolo: a quale condizione l’uomo può dire “Abbà”.

Non gli si chiede che accettare la sua realtà di figlio e diventare ciò che è: di Dio, da lui e per lui che gli è Padre. Bisogna che torni bambino, ancora non nato. Anche se vecchio, deve ritornare nell’utero materno. Solo così può essere rigenerato a vita nuova (Gv 3,4ss): “Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18,3). I piccoli non posseggono nulla, neanche se stessi. Quanto hanno e sono, è dono altrui. Non possono procurarsi niente: si attendono tutto. Non sono capaci di fare alcunché; anzi, loro stessi diventano ciò che gli altri ne fanno. È una situazione di dipendenza totale. Il loro stesso essere è “essere di” qualcuno. Se sono di nessuno, muoiono. Ma questa loro debolezza estrema è vissuta con fiducia, come unica forza: è il bisogno stesso di essere figli, che tutto ricevono. Essi sono davanti ai loro genitori ciò che ogni uomo è davanti a Dio: sua creatura, suo figlio, che da lui riceve quanto ha ed è. Rappresentano quella povertà assoluta che ci fa accettare di essere totalmente da lui. Così lui diviene per noi ciò che già è in sé: nostro Padre. I piccoli entrano nel Regno, che è il Figlio, appunto perché accettano la paternità di Dio. Essi hanno la qualità della vedova e del pubblicano: sono invocazione del dono altrui in quanto bisogno, e sono fiducia nella pietà altrui in quanto privi di meriti.

Il Sal 131 ci descrive il credente come un bimbo svezzato, tranquillo e sereno in braccio a sua madre: non desidera più il latte, ma l’abbraccio che l’avvolge. Come il latte è la vita del piccolo, così l’abbandono fidente in Dio è la vita dell’adulto. Senza questa fiducia in colui che gli è più madre di sua madre – sei tu che mi hai tessuto nel ventre di mia madre (Sal 139,13)! – l’uomo non può vivere. Ne ha bisogno come il piccolo del latte. Diversamente sprofonda nel nulla. Si può parafrasare il Sal 131, capovolgendolo come segue: “Il mio cuore si gonfia di vacuità e il mio sguardo si alza in una sfida continua: vado in cerca di cose grandi, sempre superiori alle mie forze. Sono inquieto e angosciato, come un vecchio voglioso in braccio alla morte, come un vecchio insaziato è l’anima mia. Dispera, nella tua impotenza, ora e sempre”. È uno specchio dell’uomo contemporaneo, “fatto da sé”, che ignora la paternità materna di Dio, e non sa da dove viene e per dove andare.

Nella scena analoga di 9,46ss Gesù si identifica con il bambino. Qui vuol portare noi a fare altrettanto, per accogliere il Regno e aver parte con lui.

Questo brano spiega la fede che Gesù vuol trovare per il suo ritorno (v. 8): quando la trova, egli viene ed è già in mezzo a noi (17,21). Il “che fare” per ereditare la vita (v. 18; cf. 10,25.28.37), è innanzitutto un lasciarsi fare, anzi il saper ricevere. In questo si realizza la più grande potenzialità dell’uomo: diventare figlio di Dio. È una passività che ci costruisce più di ogni altra attività.

105. ANCORA UNA SOLA COSA TI MANCA (18,18-30)

Il brano riguarda il “che fare” per ereditare “la vita eterna”, nominata all’inizio e alla fine (vv. 18.30). Tratta del problema fondamentale dell’uomo: la salvezza in rapporto alla sua libera azione. È la domanda delle folle al Battista, che sarà fatta anche a Pietro il giorno della pentecoste (3,10.12.14; At 2,37). Due risposte sono possibili, l’una dettata dalla falsa, l’altra dalla vera sapienza. La prima è quella del ricco possidente (12,17s), la seconda quella dell’amministratore che sa di dover rendere conto (16,3.4).

La stessa domanda fu già posta dal legista (10,25), dopo la rivelazione della paternità di Dio nel Figlio. Da 10,25 a qui è una grande inclusione che fa di tutto il cammino di Gesù una spiegazione sul “che fare” per ereditare la vita eterna: bisogna diventare ciò che siamo, poveri e umili come bambini, per tornare a essere figli e poter dire: “Abbà”. Ma noi siamo troppo ricchi e grandi.

Il racconto vuole immedesimarci con il ricco, per farci costatare che ci è impossibile salvarci. Egli è il contrario dei piccoli del brano precedente. Questi non hanno e non sono nulla, e ricevono tutto ciò che hanno e sono dal Padre; sono appunto suoi figli. Lui invece ha tanto ed è tanto: è ricco e notabile, e riceve da Mammona quanto ha ed è.

In questo brano Gesù parla solo del secondo comandamento, l’amore del prossimo, tralasciando il primo, l’amore di Dio. Questo ormai si realizza nel lasciare tutto per seguire lui. A chi osserva il secondo, manca ancora una cosa, la principale, per avere la vita: amare Gesù, ed essere con lui e come lui. Solo così eredita la vita (cf. 10,27ss; Dt 6,5). Questo ricco notabile è simile a chi lavora e suda nel campo, senza avere la gioia di trovare il tesoro (cf. Mt 13,44s). Gesù vuole illuminarlo perché si accorga di avere davanti il tesoro che sta cercando.

Il brano si divide in tre parti. La prima (vv. 18-23) è sulla necessità della povertà: per ereditare la vita del Padre, bisogna essere come Gesù, il Figlio, povero e misericordioso. Il regno di Dio è del povero (6,20), appunto perché è quello del Figlio, che tutto riceve dal Padre. La seconda (vv. 24-27) è sull’impossibilità della povertà: la ricchezza ci impedisce l’ingresso nel Regno. La terza (vv. 28-30) è su ciò che rende possibile questa povertà: la scoperta del tesoro vero – ricchezza presente e futura – per la gioia del quale si lascia tutto.

106. ESSI NIENTE COMPRESERO (18,31-34)

È l’ultima tappa del pellegrinaggio di Gesù (18,31-19,27). La morte del Figlio dell’uomo, già annunziata due volte (9,22.44), viene ora ripetuta e spiegata nel suo significato profondo: è il compimento delle Scritture.

La sua vita ha un principio e un fine: il Padre (2,49; 23,46). Egli è il Figlio unigenito, l’unico che, non volendo restare solo, andò incontro a tutti i fratelli fuggitivi per ricondurli a casa. La sua via è la nostra stessa, ma percorsa in senso opposto. Per questo ci è incomprensibile.

Nove lunghi capitoli separano questa dalla seconda predizione (9,44). In essi è inserito il grande viaggio dalla Samaria a Gerusalemme, in cui la croce fa da sfondo costante alle sue decisioni (12,50; 13,31ss; 17,25) e alle sue istruzioni ai discepoli. Il suo stesso cammino di samaritano, al quale ci invita (10,37), è la sua “croce quotidiana”, preludio di quella definitiva che ormai si staglia netta all’orizzonte.

Questo terzo annuncio segue la costatazione che i discepoli fanno di aver lasciato tutto e precede l’illuminazione del cieco. Se hanno lasciato tutto, certamente hanno capito “che” il maestro è l’unico buono: il tesoro nascosto, la perla preziosa, il Regno in mezzo a noi. Ma certamente ancora non sanno quanto è buono! Egli è buono della bontà stessa di quel Dio che si rivela nella povertà, umiliazione e umiltà del Figlio dell’uomo consegnato per noi. Proprio così ci salva dal male che, allignando nell’ignoranza di Dio, ha la sua radice nell’egoismo e i suoi frutti velenosi nella brama di avere, potere e apparire.

Qui Gesù toglie il velo delle Scritture, dicendo che la sua morte/risurrezione ne è il compimento. Dovrà poi guarire la nostra cecità, perché possiamo vederlo. Porterà l’opera a buon esito solo dopo pasqua, quando, oltre che aprire il significato della Legge e della promessa, aprirà la mente dei discepoli ad accoglierlo (24,27.45). L’amore di un Dio crocifisso nella sua passione per l’uomo, già incredibile in sé per la sua smisurata grandezza, trova resistenza in noi per la menzogna antica. Veramente siamo stolti e “bradicardici” (= lenti di cuore) nel credere alla Parola (24,25).

Questa salita di Gesù a Gerusalemme sarà rivissuta negli Atti dal discepolo Paolo, che dirà: “Ed ecco: ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme, senza sapere ciò che là mi accadrà: so soltanto che lo Spirito santo in ogni città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni” (At 20,22s). Sente le resistenze sue e degli altri – c’è anche Luca! – che si oppongono al viaggio; e dice loro: “Perché fate così, continuando a piangere e a spezzarmi il cuore? Sono pronto non solo a essere legato, ma a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù”. Allora tutti dicono: “Sia fatta la volontà del Signore” (At 21,13s). Hanno finalmente capito che “è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio” (At 14,22).

Tutta la catechesi di Gesù ai discepoli – il lungo viaggio! – è inclusa quindi tra due predizioni della croce e della risurrezione, mistero della vita sua e nostra. È l’unico punto da spiegare, che spiega a sua volta tutto. La lunga istruzione ha un risultato deludente: i discepoli – consolante per noi che vogliamo essere come loro! – non capiscono niente. Sanno però bene ciò che non vogliono e non possono capire: l’umiliazione del Figlio dell’uomo come via alla salvezza.

Fine di ogni catechesi è riconoscere questa cecità davanti a lui, in modo da chiedere l’illuminazione. L’istruzione religiosa non porta alla conoscenza: apre alla rivelazione, proprio mostrando la nostra incomprensione dell’essenziale alla salvezza e facendoci invocare la luce.

107. CHE VUOI CHE IO TI FACCIA? (18,35-43)

Gerico è la porta di ingresso alla terra promessa, termine del lungo esodo dalla schiavitù alla libertà. Ma i discepoli sono ancora in Egitto, incapaci di compiere, addirittura di comprendere il cammino di Gesù (v. 34).

Ora il Signore passa nelle loro tenebre. È la notte pasquale, in cui usa misericordia a chi invoca il suo nome. Questo cieco è il prototipo dell’illuminato. Sa di non vedere, ascolta bene, grida, entra in dialogo con Gesù, lo riconosce Messia e Signore, sa cosa chiedere e l’ottiene: alzare gli occhi su di lui, vedere la luce che salva e seguirlo.

Il racconto trova la sua continuazione nel gesto di Zaccheo e va letto dopo i due brani precedenti che mostrano l’accecamento dell’uomo davanti al mistero del Figlio dell’uomo. Parla dell’illuminazione battesimale che fa riconoscere in Gesù, il Nazareno che passa, il figlio di Davide (messia), anzi, il Signore stesso che ha pietà di me. Gli occhi devono aprirsi per vedere la perla preziosa e ottenere la sublimità della conoscenza di lui come Signore (Fil 3,8).

Solo così è vinta la tristezza e l’oscurità che tiene lontano da lui, e nasce la gioia di chi, scoperto il tesoro (Mt 13,44), ne è conquistato e corre per conquistarlo (Fil 3,12). È l’ingresso nel Regno, che consiste nell’amare con tutto il cuore (10,27) colui che per primo mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20).

In Luca questa è l’unica guarigione di un cieco. At 9 ci presenterà Paolo fariseo illuminato mediante il suo accecamento. Egli infatti è venuto in questo mondo “per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi” (Gv 9,39). Così guarisce tutti. Nel discorso inaugurale e nella sua risposta a Giovanni (4,18; 7,22), Gesù pone la vista ai ciechi come primo segno messianico. È il sole che sorge per illuminare chi siede nelle tenebre e nell’ombra di morte (1,78s). Il primo miracolo annunciato è l’ultimo compiuto. È infatti quello definitivo, che permette di vedere la salvezza che già ci ha donata (cf. commento a 13,12). Dopo ci sarà solo il miracolo dell’orecchio di Malco (22,51), perché anche il nemico possa ascoltare la sua parola.

Il cieco viene guarito per vedere il Volto. Dalla trasfigurazione in poi è il tema dominante di tutto il Vangelo che culmina nella visione (= theoría: 23,48) del Crocifisso offerta a tutti. Questa è la salvezza dell’uomo, che torna a essere se stesso, riflesso di quella Gloria di cui è immagine e somiglianza. Dove giunge la luce, figlia primigenia di Dio, cessa il caos e inizia il mondo nuovo. Il centro di questo brano è il nome di Gesù, luce del mondo (Gv 8,12), la cui invocazione mette in comunione con lui. Vedere lui è il dono della “sublimità della conoscenza” del Maestro buono come l’unico buono. Ciò rende possibile l’impossibile: trasforma il notabile ricco in Zaccheo, vero figlio di Abramo, che ospita la benedizione promessa.

Il cieco chiama Gesù per nome. Chiamare per nome significa avere un rapporto personale di conoscenza e di amore, da amico ad amico. È quanto avviene nel battesimo, che ci unisce a lui. Chiamando lui per nome, abbiamo il nostro vero nome di creature nuove. In lui la nostra miseria trova il volto di Dio che è misericordia di Padre verso il Figlio. Accogliamo così la rivelazione del Nome.

Un cieco non può scorgere neanche il lampo di una folgore. Come può l’uomo vedere la Gloria nell’umiliazione del Figlio dell’uomo, compimento delle Scritture? I nostri occhi, tre volte ciechi davanti ad essa (v. 34), devono essere guariti. La cecità è l’estremo rifugio del peccato come fuga da Dio. Il bimbo chiude gli occhi e crede di non essere visto! È vero che cessa di vedere, ma non di essere visto. Colui che ha creato la luce, che anzi è la Luce, ora apre l’occhio perché possa contemplarla. Il battesimo ci dà un’illuminazione reale su Dio, che rimane però nel centro del cuore, come un fuoco sepolto sotto la cenere della menzogna antica. Viene ravvivato dallo Spirito, mediante il ricordo costante della Parola, la liturgia e la preghiera del Nome.

Estratti da:
Silvano Fausti, “Una Comunità legge il Vangelo di Luca”
Edizioni Dehoniane Bologna 1991