Lectio divina sul Vangelo di Luca
Silvano Fausti
Capitoli 19-21
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Testo doc Lectio Luca Cap 19-21 Fausti (10)
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108. OGGI LA SALVEZZA VENNE IN QUESTA CASA (19,1-10)
Insieme alla parabola del samaritano e del Padre misericordioso, questo racconto si può considerare “un Vangelo nel Vangelo”, nel senso che ne esplicita gli elementi fondamentali.
L’incontro tra Gesù e Zaccheo realizza la salvezza, impossibile a tutti, ma non a Dio (18,27), presso il quale nulla è impossibile (1,37). Finalmente il desiderio dell’uomo di vedere il Figlio dell’uomo si incontra con il “dovere” di questi di dimorare e riposare presso di lui. Finalmente Dio e uomo trovano casa l’uno nell’altro e possono cessare dalla loro fatica.
È il faccia a faccia con il suo Salvatore, al quale ciascuno è chiamato. Anticipato ora in uno, si estenderà poi a tutti, fino agli estremi confini della terra. In Zaccheo (= “il puro” o “Dio ricorda”), quel Dio che provvede anche ai piccoli del corvo che gridano a lui (Sal 147,9), si ricorda di ogni uomo, per quanto piccolo e immondo, e lo rende puro perché possa compiere il santo viaggio.
È un episodio chiave, soluzione di quanto precede e preludio di quanto seguirà. In esso si raccapezzano i vari fili del “vangelo di misericordia”. Ne è un compendio. Ogni parola è allusiva del tutto e lascia risuonare ciascuno dei temi cari all’evangelista della salvezza universale, da quelli della mangiatoia di Betlem a quelli dei legno sul Calvario. Le espressioni più cariche di risonanza sono per ordine: passare, arcipubblicano, ricco, affrettarsi, oggi, bisogna, dimorare, accogliere, gioire, borbottare, riposare, peccatore, dare ai poveri, salvezza, cercare, ciò che è perduto. Il centro è il “desiderio di vedere” di Zaccheo e lo sguardo di Gesù verso di lui Da questo incontro di sguardi, scaturisce “oggi” la salvezza: il Salvatore nasce nel cuore dell’uomo per cui è morto.
È l’ultimo episodio del viaggio, in cui si scopre l’uscita dall’aporia: quale è la salvezza, se a tutti è preclusa? Zaccheo, l’insalvabile per eccellenza, trova il Figlio dell’uomo, venuto a cercare ciò che era perduto: “bisogna” che “oggi” e “in fretta” “dimori” nella sua “casa”. L’insalvabile ha l’unica prerogativa richiesta per la salvezza: vede la propria miseria e “cerca di vedere” la misericordia del Signore che passa.. Questo è il principio di ogni illuminazione.
Il racconto fa corpo unico col precedente; e ci mostra come tutti, cominciando dai più impossibilitati, diventiamo discepoli del Signore. Il notabile ricco non poteva seguirlo; non era ancora in grado di “vedere” in che senso Gesù è “buono” (18,18s). Dopo il miracolo del cieco, il suo occhio guarito può incontrare quello del Signore che si alza verso di lui (v. 5).
Zaccheo – figura di Adamo che si è nascosto al volto del suo Signore – è la Gerico inespugnabile. Gesù dapprima si accosta e gli guarisce l’occhio, malato da sempre d’invidia mortale. Può quindi vedere il suo sguardo che seduce tutti. Aperta la finestra del suo cuore, per essa entra e prende possesso di lui. Una volta conquistato, si sforzerà a sua volta di correre per conquistarlo (Fil 3,12).
Dal secondo annuncio della passione Luca tende a renderci “piccoli” (9,48). La parola “Abba” è riservata agli infanti (10,21s) e nel regno dei figli entrano solo quelli che non sono ancora nati (18,15ss).
L’evangelista punge di continuo il suo lettore, per sgonfiarlo dalla idropisia. Una volta guarito dal suo male, che è la presunzione di salvarsi, può accettare il dono della salvezza.
Zaccheo realizza il “che fare per ereditare la vita” (10,25ss; 18,18ss). Ama Dio con tutto il cuore, perché finalmente l’ha incontrato nel Maestro buono del quale ha finalmente visto “chi è” – come amare ciò che non si vede? – e insieme ama il prossimo, donando ai poveri e convertendosi da stolto possidente in amministratore sapiente (cf. 12,13-21; 16,1-9).
Le ultime parole di Gesù: “il Figlio dell’uomo venne per cercare ciò che è perduto”, sono il suo programma, che muove tutta la sua azione finora fatta e la sua passione che ora inizia. La sua missione è donare la salvezza ai perduti – cioè a tutti, cominciando dagli ultimi! Infatti “Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, e di questi il primo sono io”, dirà Paolo (1Tm 1,15). Anche noi, identificandoci come lui con Zaccheo, compiamo la volontà di Dio (cf. Tm 7,29s) e rendiamo giustizia alla sapienza (7,35) di colui che vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano in Gesù alla conoscenza della sua verità di misericordia (1Tm 2,4).
109. LAVORATE FIN CHE VENGO (19,11-28)
Luca parla in più parti e secondo vari aspetti del rapporto tra la vita futura e quella presente. Stanno tra loro come meta e cammino: la prima è il fine e il punto di arrivo, la seconda è il mezzo per giungervi.
In 12,49-59 si considera la morte personale e l’incontro col Signore come criterio di valutazione sul “che fare”. In 17,20-18,8, la “piccola apocalisse”, si dice che il “quando” e il “dove” del Regno è la quotidianità dell’esistenza, in cui si sceglie di vivere per Dio invece che per il mondo. Qui, prima della “grande apocalisse” (21,536), si spiega perché il Signore tarda a tornare, e cosa bisogna fare nel frattempo. Questa parabola delle “mine” ha poco a che vedere con l’etica calvinista: trafficare i talenti e le risorse – e più si guadagna, più siamo benedetti.
Il problema al quale qui si risponde è lo stesso di 2Pt 3,4: “Dov’è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione”.
Prima e dopo la parabola si presenta Gesù che sale a Gerusalemme, per dare “oggi” il suo regno al malfattore confesso (23,40ss): lui, il Giusto, porterà ingiustamente la giusta condanna di noi ingiusti. Precede il racconto di Zaccheo, che “oggi” lo accoglie; segue quello del suo ingresso regale in Gerusalemme. Questa cornice chiarisce il discorso delle mine: il Regno viene “oggi” per chi, come Zaccheo, si converte alla misericordia e accoglie il suo Signore che viene in povertà e umiltà.
Questo significa far fruttare i doni ricevuti. Il rimando del suo ritorno non è dilazione del suo giorno, ma dilatazione del tempo della salvezza. Come si dice nella parabola del fico (13,6-9), la storia continua perché Dio accorda all’uomo ancora un nuovo anno per convertirsi. Il prolungarsi del tempo ha il suo ultimo perché nella pazienza di colui che “vuole che tutti gli uomini siano salvati” (1Tm 2,4). “Signore non ritarda nell’adempiere alla sua promessa, come certuni credono, ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi” (2Pt 3,9).
Il ritardo della sua venuta dipende dalla nostra lentezza a convertirci. L’attesa deve tradursi nell’impegno di una vita che segue la sua stessa via, per andare incontro a lui che per primo è venuto incontro a noi. Questo è il Regno, già presente nella nostra storia (17,21). Il futuro definitivo è già anticipato nella nostra storia di conversione a lui. Egli non viene solo perché è già venuto e attende l’oggi in cui noi ci volgiamo a lui. I termini sono da capovolgere: l’attesa è sua e il ritorno è nostro. Il suo ritorno a noi sarà nel ritorno di noi tutti a lui.
Contro la tentazione di evadere dal presente in nome del futuro, il cristiano sa che “il tempo è compiuto” (Mc 1,15), e conosce bene il valore dell’oggi. È il tempo urgente in cui ci si deve convertire (2Cor 6,1s).
Il presente, con tutte le realtà che contiene, non va né disprezzato come se fosse niente, né sovraestimato come se fosse tutto: è il tempo e il luogo in cui si gioca il tutto, che è la fedeltà al Signore. “Chi è fedele nel poco, lo è nel molto” (16,10). L’aldilà assoluto e infinito, si gioca nell’aldiqua, relativo e finito. Le creature quindi non vanno né idolatrate né demonizzate. Non sono un fine, ma un mezzo da utilizzare tanto quanto servono al fine.
La parabola è un’allegoria della partenza e del ritorno del Signore. Partito con la sua morte e la sua ascensione, tornerà definitivamente a salvarci nel giorno del giudizio. Questi sono i due confini che racchiudono la storia umana. Nel mezzo c’è il tempo del suo, o meglio del nostro viaggio, in cui siamo mandati a ripercorre lo stesso pellegrinaggio del samaritano: “Va’, e fa’ lo stesso” (10,37).
I discepoli, prima dell’ascensione, fanno a Gesù la loro ultima domanda, che è la prima urgenza della chiesa: “E questo il tempo in cui ricostituirai il regno d’Israele?”. Egli risponde di non indagare sui tempi e i momenti, ma d’essere d’ora in poi suoi testimoni fino agli estremi confini della terra (At 1,7s). Ciò significa diventare come lui, misericordioso come il Padre. La mina che ci ha data non serve per arricchire davanti agli uomini, ma davanti a Dio; farla fruttare non vuol dire accumulare con avidità, ma donare con generosità (cf. 12,13ss; 16,1ss).
110. IL SIGNORE DI LUI HA BISOGNO (19,29-40)
È la venuta del messia, l’inizio del suo regno. Si compiono le parole dette da Gesù dopo la sua prima lamentazione su Gerusalemme: “Non mi vedrete più fino al tempo in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore” (13,35). Si compie pure la promessa cantata nel natale: “Gloria a Dio negli altissimi” (2,14). Viene il Signore della pace, l’erede al trono di Davide che regnerà senza fine (1,32s). Viene in umiltà e mitezza. Per questo subirà il rifiuto. Questa momentanea accoglienza gioiosa è prefigurazione della festa finale, quando tutti gli uomini avranno accettato la sua umiltà e mitezza. Allora lui sarà il Signore di tutti; e ci sarà soltanto il Signore, e il suo nome sarà uno (Zc 14,9).
I farisei e i discepoli chiesero “quando” e “dove” viene il Regno (17,20.37; cf. At 1,6). Gesù mostra “come” viene il re. Perché il Regno viene sempre e ovunque è accolto e riconosciuto lui, che viene qui e ora come Figlio dell’uomo sofferente (cf. 18,31ss). Questa sua venuta è il mistero stesso di Dio e del suo regno, oscuro anche ai discepoli (18,34), poiché si rivela nella piccolezza del Pellegrino che va a Gerusalemme per essere preso, gettato e nascosto. È una gloria ben diversa da quella che tutti si aspettavano (v. 11).
Il Signore visita il suo popolo. Ma chi lo benedice come Zaccaria, chi lo attende come Simeone e Anna? Accolto dal peccatore Zaccheo, sarà rifiutato dal suo popolo.
La salvezza, che tutti in fondo desiderano, consiste nell’accogliere questo messia povero, sempre in viaggio e sempre alla porta che bussa. Chi lo accoglie entra nel Regno, accolto da colui che accoglie. Egli viene e verrà sempre allo stesso modo in cui l’abbiamo già visto venire. La sua venuta passata ci serve a riconoscere quella presente e a camminare verso quella futura. La scena si svolge a oriente di Gerusalemme, sul monte degli Olivi, da dove si attendeva la salvezza definitiva (cf. Zc 14,4-9). Richiama la consacrazione di Salomone, re di pace (1Re 1,33-35) e l’ingresso del nuovo re (2Re 9,13). Il Sal 118, gridato dalla folla dei discepoli, richiama la festa delle capanne, ricordo del passaggio dal deserto alla terra promessa, fine della povertà e inizio dell’abbondanza dei frutti.
Seguirà il pianto di Gesù, sua ultima fatica per il fico sterile, e la sua visita al tempio.
Luca non narra l’episodio di Betania (Mc 14,3-9), già anticipato in 7,36ss. L’unzione messianica assume qui una cornice cosmica: è come compiuta dall’ondeggiare degli olivi, che ungono il re mentre viene nel suo regno e lo temprano per la lotta notturna, di cui tra pochi giorni saranno spettatori. Ora lo vedono con gioia, mentre slega l’asinello, sul quale mai nessuno è salito e del quale il Signore ha bisogno per manifestarsi come tale.
L’asinello, immagine del suo messianismo, è il protagonista del brano. La scena del suo reperimento è descritta due volte, prima come previsione poi come evento (vedi anche 22,7-13). La parola del Signore, infatti, precede e crea la realtà. Inoltre il racconto di ciò che lui ha fatto è profezia di quanto poi il discepolo stesso farà.
Gesù sarà rifiutato solo per la sua scelta di essere povero e umile. La fede cristiana consiste nell’accettarlo così com’è.
In questo racconto la chiesa esprime la sua conoscenza di Gesù ormai illuminata dal mistero pasquale. Dopo Gerico, con il cieco e con Zaccheo, anche noi siamo in grado di vedere e accogliere il nostro Salvatore e Signore nel Figlio dell’uomo, ormai al termine del suo cammino di Samaritano.
Per molti aspetti il brano allude al natale, suo ingresso nel mondo. Come ha iniziato, così conclude la sua missione.
111. VISTA LA CITTÀ, PIANSE (19,41-44)
In questo brano il “pittore” Luca dà l’ultimo tocco al ritratto di Gesù, icona perfetta del Padre. Il suo volto di pellegrino, diverso da qualunque altro (19,29), indurito nel suo cammino verso Gerusalemme, giunto alla meta, si scioglie in lacrime. Questo pianto rivela il mistero più grande di Dio: la sua passione per noi.
Gesù, in mezzo alle acclamazioni, si avvicina alla sua città e la vede. Lui è ben più di Giona (11,32). Questi sostò davanti a Ninive convertita, dispiaciuto del male che non le accade fino a desiderare la morte (Gio 4,3.8.9). Gesù invece sosta davanti a Gerusalemme indurita, dispiaciuto del male che le accade fino a morirne realmente. La differenza tra i due è semplicemente quella che c’è tra Dio e l’uomo: la misericordia. “Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te” (Os 11,8s).
Il suo pianto manifesta la sua impotenza davanti al rifiuto. Ma rivela pure la gloria di un amore fedele anche nell’infedeltà. Questo è l’unico modo per creare libertà dove c’è schiavitù, suscitare risposta anche nel cuore più ostinatamente chiuso e offrire una possibilità irrevocabile di conversione, che rimane aperta a tutti e per sempre.
Le parole che Gesù rivolge a Gerusalemme non sono minaccia; né la sua distruzione sarà castigo di Dio. Dio è misericordioso e largamente perdona (Es 34,6s; Sal 86,15; 103,8; Gio 4,2; ecc.). Non minaccia la mamma che dice al bambino: “Guai se attraversi la strada: muori sotto un’automobile!”. Tanto meno è un castigo della mamma se, disobbedendo, viene travolto. Le parole di Gesù sono una costatazione sofferta di ciò che il popolo inconsapevolmente fa a se stesso. Il male, dal quale mette inutilmente in guardia Gerusalemme, ricadrà infatti su di lui. In croce, assediato e angustiato da tutta la cattiveria del mondo, sarà distrutto dall’abbandono di tutti. Il pianto di Gesù non esprime minaccia o condanna, ma quella sua debolezza estrema che portò lui alla croce (2Cor 13,4) e noi alla salvezza. La sua potenza ci ha creati; la sua impotenza ci ha ricreati.
Gesù disse: “Beati voi che ora piangete” (6,21). Ora è lui stesso, il re, che piange. Realizza in sé il mistero del Regno su questa terra: un seme gettato nel pianto. Ma chi semina nelle lacrime, mieterà con giubilo. “Nell’andare se ne va e piange, portando la semente da gettare; ma nel tornare viene con giubilo, portando i suoi covoni” (Sal 126,5s).
Il motivo del lamento, ripetuto all’inizio e alla fine, è il fatto che non sia stata riconosciuta “in questo giorno” la sua venuta. Per questo, invece di iniziare il giorno di pace senza fine, continuano i giorni di guerra, fino alla distruzione.
Anche noi, con Gerusalemme, siamo chiamati a discernere “oggi” la visita di Dio nel suo messia. Ha ormai il volto del povero e del piccolo umiliato: è il Samaritano in viaggio che si fa carico del male dei fratelli, il Pellegrino alla porta di tutti, che mendica accoglienza e offre salvezza (cf. 9,46ss; Mt 25,31-46). Ora è piangente. Sorriderà quando sarà accolto.
Le note di questo brano hanno il loro preludio in 13,34s e si svolgeranno nel racconto della passione. Qui dobbiamo chiedere al Signore di contemplare il suo volto e conoscere perché piange non il suo, ma il nostro male.
Il destino di Gerusalemme e di Israele è misteriosamente lo stesso di Gesù.
112. LA MIA CASA SARÀ CASA DI PREGHIERA (19,45-48)
Il Signore ha compiuto il suo giudizio con l’acqua e con il fuoco – con l’acqua delle sue lacrime e con il fuoco della sua passione. La distruzione che tocca alla nostra casa si abbatte sulla sua.
La sua venuta al tempio, termine del vangelo dell’infanzia e della vita pubblica, è l’avverarsi della promessa ultima dell’AT (Ml 3,1ss): la visita di Dio al luogo della sua dimora. L’aveva abbandonata perché ripiena di ogni abominio, ridotta a spelonca di ladri (Ger 12,7; 7,1ss); il culto di Mammona aveva sostituito quello dell’unico Signore. Ora Gesù entra per purificarla e riempirla della Gloria: spazza via l’idolo immondo, e al suo posto mette se stesso e la sua parola. Le persone che lo ascoltano saranno le pietre vive del nuovo tempio. Così si adempie la profezia che lo vuole casa di preghiera (Is 56,7); e l’uomo entra in comunione con Dio, ormai presente in Gesù e nella sua parola.
Il vecchio tempio sarebbe dovuto finire comunque, essendo figura transitoria del nuovo. Finirà male a causa della falsa sicurezza che si ripone in esso. Infatti vi si entra dicendo: “Tempio del Signore è questo”, e si presume da esso salvezza, mentre lo si profana con ogni sorta di ingiustizia (Ger 7,1-14). Una religiosità formale non serve a nulla, perché Dio non può “sopportare delitto e solennità” (Is 1,13). La sua grazia non si presta a far da copertura alla nostra dissolutezza (Gd 4). A differenza dei suoi sacerdoti, Dio non vende i suoi favori a chi cerca di ingraziarselo con prestazioni religiose o addirittura con denaro. Il più grave peccato contro di lui è quello di volersi comperare il suo amore: è come trattarlo da prostituta venale! Egli è Padre, pieno di grazia e di misericordia. La salvezza è suo dono gratuito, al quale da parte nostra risponde una vita filiale, a immagine della sua. Questo è il vero culto spirituale, gradito a Dio (Rm 12,1).
La realtà del tempio è determinata dal Dio che vi abita. Per questo, dopo la menzogna del serpente, in esso si concentra la sostanza del peccato: la cattiva immagine di Dio, origine di tutti i mali dell’uomo.
Il corpo di Gesù, fatto peccato per noi (2Cor 5,21), porterà su di sé la maledizione del vecchio tempio. Come di questo non resterà pietra sopra pietra, così anche lui sarà distrutto e riedificato in tre giorni non da mano d’uomo. Da pietra scartata diventerà testata d’angolo del nuovo tempio, dove finalmente abita la verità di Dio. La sua croce sarà la distanza infinita che Dio ha posto tra sé e l’idolo. In Gesù, icona visibile del Dio invisibile (Col 1,15), abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9). La sua carne crocifissa è l’unica rivelazione di Dio; la sua passione per l’uomo manifesta all’esterno la Gloria: Dio è amore infinito, pieno di grazia e misericordia.
113. CON QUALE AUTORITÀ FAI QUESTE COSE? (20,1-8)
Gesù nel tempio ammaestra ed evangelizza; è il Signore della chiesa, il popolo che si raccoglie in ascolto attorno a lui. Questo è il nuovo tempio, fondato sull’autorità della sua parola, la cui pietra angolare è l’annuncio di lui morto e risorto pietra scartata dai costruttori ma preziosa agli occhi di Dio.
Qui Gesù rivela che la sua parola ha la stessa autorità di quella di Dio: ci mette in questione e ci chiama a convertirci. Questa autorità della sua parola è il centro della fede cristiana. Le dispute successive, che culminano nella rivelazione del Cristo figlio e Signore di Davide (vv. 41-43), spiegheranno in che cosa consiste. Gli stessi nemici, che contrastano la sua signoria, saranno strumento della sua realizzazione: lo faranno sedere sul suo trono, la croce.
Vediamo da una parte Gesù e il popolo che lo ascolta; dall’altra i capi che gli si oppongono. Nessuno dei dominatori di questo mondo può conoscere la Gloria.
Nel brano ci sono una quindicina di verbi imparentati tra loro, che indicano vari modi di parlare: il Signore insegna ed evangelizza, i suoi avversari interrogano e questionano, lui dice e risponde o meno secondo la loro disponibilità. Questo è il problema: di che tipo è l’autorità di Gesù e da dove gli viene? Egli risponde che bisogna prima riconoscere l’autorità del Battista, venuto a preparargli la via (1,76). Chi accetta la voce che chiama al lutto della conversione, partecipa alla danza del perdono che egli offre.
Il grande peccato di Israele fu quello di tentare Dio chiedendogli che rispondesse con un segno incontrovertibile alla sua domanda: “II Signore è in mezzo a noi, sì o no?” (Es 17,7). Lo stesso si ripete nei confronti di Gesù e della sua parola. L’uomo religioso chiede che Dio obbedisca a lui, invece di obbedire lui a Dio (cf. la terza tentazione di Gesù). La sua parola ci è stata data per impegnare non lui con noi – non ne ha bisogno! – ma noi con lui. Dobbiamo quindi smettere di irritarlo, mettendolo in questione. È meglio mettere in questione noi stessi! Rispondimi e ti risponderò, dice Gesù. Anche se non l’ascoltiamo, la sua parola resta sempre efficace: smaschera il male di chi non cerca la verità.
Accettare il battesimo di Giovanni significa riconoscere l’autorità di Dio, che con la legge di Mosè ci convince di peccato e col vangelo di Gesù ci dona la salvezza.
114. UN UOMO PIANTÒ UNA VIGNA (20,9-19)
Queste parole del Signore sono il compendio della storia di salvezza, con la descrizione e l’interpretazione dei fatti dal suo punto di vista. Il rapporto tra Dio e uomo ci viene presentato come un dramma senza via di uscita: da una parte la libertà di chi non può non amare ed è fedele; dall’altra la schiavitù di chi non sa amare ed è infedele. Sembrano due binari paralleli, senza possibilità d’incontro. Un amore veramente infelice! Qui vediamo il punto d’arrivo sia della crescente bontà del Signore, sia della crescente cattiveria nostra nei suoi confronti.
L’autorità della parola di Gesù, di cui si parla nel brano precedente, è quella della pietra scartata: è il potere di uno che ama senza limiti, anche chi gli resiste con ostinazione estrema. La parola della croce è il punto “cruciale” della nostra relazione con Dio, dove il culmine della nostra malvagità si trova con l’abisso della sua bontà. Nella morte del Figlio dell’uomo l’infedeltà dell’uomo e la fedeltà di Dio stanno finalmente faccia a faccia. E Dio vince perdendo. Il suo fallimento realizza la sua verità nella nostra storia: un amore più forte di ogni rifiuto e della morte stessa. La risurrezione lo rende noto e lo garantisce agli occhi di tutti. La pietra scartata è fatta testata d’angolo, il sommo male è riempito dal sommo bene: Dio dà la vita del Figlio a chi gli toglie la vita! Questa è l’eredità che ci aveva riservata fin dall’eternità. L’uguaglianza con lui, che il serpente ci suggerì di rapire, è il dono che fin dal principio voleva farci.
La malvagità umana non vanifica il suo disegno di salvezza. Ne diviene anzi strumento inconsapevole (cf. At 4,28). Non perché lui approvi il male, ma perché nulla può resistere al Signore di tutto e di tutti. Il suo amore lo rende rispettoso e impotente, ma non inefficace. Nella sua sapienza lascia il male, perché sa che alla fine compie il bene: “là dove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia” (Rm 5,20). Per realizzare i suoi piani, come desidera la libera collaborazione di chi lo ama, così si serve della libera opposizione di chi gli resiste.
La parabola, con tratti allegorici, manifesta il mistero, quasi il travaglio, di un Dio che cerca e trova il modo più bello per salvare l’uomo dal male, senza violentarne la libertà. Il suo amore di fronte al rifiuto, non si ritrae; anzi si espone in un’offerta incondizionata. Così si fa conoscere per quello che è: amore senza limiti.
Mentre l’uomo dice: “Uccidiamo il Figlio e diventeremo eredi”, il Figlio dice: “Mi lascio prendere, e vi do’ in eredità la mia vita”. Se il peccato è rapire ciò che è donato, la salvezza è donare ciò che è rubato.
Tutto, anche il male che Dio non vuole – il bene non fa problema! – concorre al bene che lui vuole per noi (Rm 8,28). Chi ama Dio, lo sa. Chi non lo ama, non lo sa e vive ancora nelle sue paure. Ma in realtà lui ama tutti i suoi figli e agisce con tutti alle stesso modo. Se fa dei favoritismo, è solo per i più svantaggiati.
In questa parabola si spiega anche un grande mistero: come il fallimento di tutto l’AT ne sia la realizzazione. Israele, il popolo eletto, rifiutando e uccidendo il Figlio, fece, a nome di tutti i popoli suoi fratelli, il più grande delitto che sia possibile e impossibile perpetrare: il deicidio. Ma Dio fa dell’uccisione del Promesso il compimento della promessa: la croce suggella l’alleanza eterna, offerta a tutti e per sempre, ai giudei prima, e ai gentili poi (Rm 1,16).
In Luca il rifiuto di Gesù non è compiuto dal popolo, ma dai capi. Ciò significa che tutte le persone possono essere salvate. Basta che si dissocino dal male e cambino “i capi”, cioè i valori che guidano le loro azioni. Il nuovo popolo infatti è guidato da colui che è in mezzo a noi come colui che serve (22,27).
Comunque il rifiuto degli israeliti ha portato la salvezza ai pagani. Se il loro fallimento è già ricchezza per tutti, cosa sarà la loro riuscita (Rm 11,11s)? La loro disobbedienza è momentanea, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili. Se ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, è per usare a tutti misericordia (Rm 11,29.31s). “O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!” (Rm 11,33).
Certa è questa parola: anche se noi manchiamo di fede, egli rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso, che è fedeltà che non si rinnega mai. Solo se rinneghiamo che lui è fedele, siamo rinnegati. Però non perché lui ci rinneghi – il suo amore e la sua fedeltà durano in eterno (Sal 117,2) – ma perché noi, rifiutando la sua fedeltà, rinneghiamo la sua essenza (cf. 2Tm 2,11-13).
La salvezza è aprirsi alla sua fedeltà nella propria infedeltà.
115. RENDETE Ciò CHE È DI CESARE A CESARE E Ciò CHE È DI DIO A DIO (20,20-26)
Luca non si aspetta un imminente ritorno del Signore. Sa che il credente deve testimoniarlo qui e ora, facendo i conti con una storia che continua come prima. Per questo gli sta a cuore sapere quale rapporto deve avere col mondo uno che vive in esso senza appartenere ad esso. Trova i criteri di discernimento in ciò che Gesù ha fatto e insegnato (At 1,1).
I nemici, che provocano questa discussione, hanno già architettato l’accusa che gli faranno: “Abbiamo trovato costui che sobillava la nostra gente e impediva di dare il tributo a Cesare e diceva di essere il Cristo re” (23,2). Il motivo della sua condanna, affisso alla croce sarà: “Re dei giudei è questi” (23,38).
Luca ci tiene a scagionare Gesù dall’accusa di sobillatore politico, e fa constatare la sua innocenza dai due capi politici, Pilato ed Erode (23,14s). Ciò è importante, sia per non esporre la comunità a inutili persecuzioni, sia per non fraintendere il senso della sua missione.
Per capire la domanda di questi infiltrati, occorre tener presenti due fatti. Primo: nell’attesa di tutti il Messia avrebbe inaugurato il regno di Dio e posto fine a ogni dominazione umana. Secondo: pagare il tributo significava accettare l’oppressione straniera. Il potere di un re si estende fin dove vale la sua moneta: chi la usa, ne riconosce l’autorità. Quindi, se Gesù avesse detto di pagare il tributo, avrebbe rinnegato di essere il messia, perdendo il favore del popolo. Se avesse detto di non pagarlo – ipotesi desiderata! – avrebbe rifiutato apertamente il potere romano, che certo non era tenero con i ribelli! La trappola è dunque perfetta: o la sua eliminazione morale davanti a tutti, o la sua eliminazione fisica da parte dei romani.
La risposta di Gesù, in apparenza, soddisfa tutti. I romani non potevano obiettare nulla, perché dice: “Date a Cesare ciò che è di Cesare”. I loro nemici neppure, perché aggiunge: “Date a Dio ciò che è di Dio”. Infatti se tutto è di Dio, che cosa resta da dare a Cesare, se non il rifiuto alle sue pretese di essere padrone del mondo?
In realtà Gesù scontenta tutti. Il suo regno è in questo mondo, ma non di questo mondo. La regalità di Cesare è iscritta sulla moneta, strumento sovrano di dominio; la sua è iscritta sulla croce, strumento di supplizio per lo schiavo. Se il mondo cerca l’avere, il potere e l’apparire, il suo Signore ama la povertà, il servizio e l’umiltà. Qui è il criterio di discernimento tra i due regni: “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non è così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve io sto in mezzo a voi come colui che serve” (22,24-27).
La domanda di questi infiltrati ha lo stesso contenuto, anche se con diverso tono e intento, dell’interrogativo del Battista: Gesù è il messia, o bisogna aspettare uno che sia “più forte” e faccia piazza pulita di tutti gli empi (7,19; 3,16s)? In realtà bisogna attenderne non un “altro”, ma uno “diverso” da quello che ci si aspetta. Lui viene nella debolezza del samaritano che usa misericordia verso tutti. Non liquida la storia mondana, né se ne ritaglia per sé una fetta da gestire in modo migliore; si fa invece carico di questa storia di male facendo solo il bene.
Regno di Dio e regno di Cesare: sono due grandezze non omogenee, anche se in relazione strettissima. Tra i due non c’è un rapporto di avallo reciproco (alleanza trono-altare o altare-trono), né di semplice opposizione (lotta tra due che si contendono la stessa torta), né di pura separazione (libera chiesa in libero stato, senza interferenze spiacevoli), né di compromesso concordatario (ricerca di impossibili equilibri o di assurdi privilegi). Le varie posizioni erano già tutte presenti ai tempi di Gesù: erodiani, zeloti, sommi sacerdoti e capi del popolo. Gesù non si identifica con nessuna di queste. Hanno in comune il presupposto di quel messianismo allettante, già vinto nelle tentazioni, che usa gli stessi mezzi della controparte: avidità di avere, di potere e di apparire. La posizione di Gesù invece, scomoda a tutti, è profetica: chiama a convertirsi alla via di Dio, che va esattamente in senso contrario a quella di ogni uomo. Solo così è salvo “questo” mondo, perduto dietro la propria stupidità.
Il cristiano ama il mondo: per questo si oppone ai criteri “,mondani” che lo distruggono. Ama il malvagio come fratello, e per questo resiste al male che gli nuoce. Quando detesta il malvagio, è perché ancora ama il male! Obbedisce all’autorità “anche per motivi di coscienza”, quando questa è “al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male” (Rm 13,4s). Disobbedisce quando essa gli chiede qualcosa contro la solidarietà e la fraternità con “tutti” gli uomini, in cui si esprime la vera sua libertà di Figlio di Dio. Non tollera di collaborare contro la dignità dell’uomo. Quando poi uno stato si pone come valore assoluto e divino, conosce il martirio, unica arma efficace contro la schiavitù degli idoli: “Chi ha orecchi, ascolti: colui che andrà in prigione, andrà in prigione; colui che deve essere ucciso di spada, di spada sia ucciso. In questo sta la costanza e la fede dei santi” (Ap 13,9s).
Il cristiano si prende a caro prezzo la sua libertà di cercare il regno del Padre, che è la fraternità tra i suoi figli: la cerca in modo concreto e a tutti i livelli storicamente realizzabili. Il resto, compreso lo stato, lo prende o lo rifiuta tanto quanto serve a questo fine, nel rispetto della libertà e dei diritti altrui, disposto a subire violenza da tutti piuttosto che farne ad alcuno. Il suo rapporto con lo stato è quindi leale e realistico, senza però delegare mai a nessuno la coscienza e la libertà. Non è quindi né per l’avallo né per il ribellismo, né per la semplice separazione né per il facile concordismo. Il discorso programmatico del Regno (cf. 6,20-38; cf. 4,17ss), che propone un amore capace di vincere il male col bene (Rm 12,21), è da prendere come criterio ispiratore anche dell’azione politica. Il discernimento è l’intelligenza per capire come realizzarlo storicamente qui e ora.
Luca per sé non sembra avere un gran concetto dei potenti e dei governanti in specie (cf. 22,25s). Il meglio che riescono a fare è andare d’accordo nel condannare un giusto dichiarandolo innocente (23,12-15)! Satana stesso dice a Gesù che la gloria di tutti i regni della terra è nelle sue mani, e la dà a chi vuole (4,6). Esattamente a chi lo adora, cercando la ricchezza, il potere e la superbia. Il Figlio dell’uomo cadrà vittima di questo, che è il male vero dell’uomo.
Il Signore, con la sua risposta, ci chiama a vedere cosa vogliamo nella nostra vita: arricchire davanti a Dio o davanti agli uomini (12,21), servire Dio o Mammona (16,13)? “Non sapete che amare il mondo è odiare Dio?” (Gc 4,4). Qui sta la decisione per la vita o per la morte, che salva il mondo o lo conferma nella sua perdizione.
La scena è ambientata nel tempio. L’apparizione di Mammona e dell’effigie di Cesare nel luogo della gloria di Dio richiama l’“abominio della desolazione” che sta “là dove non conviene” (Mc 13,14). A questo livello si pone la scelta di campo: o Dio o Cesare, o il Regno o il mondo. L’uomo perde la propria essenza se cede ad altri la propria libertà di figlio, effigie del Padre. Questo brano ci fa chiedere a Dio di dare a lui ciò che è suo, cioè noi stessi. In lui ritroviamo la nostra verità di figli, da vivere poi correttamente coi fratelli.
“Cristo non ha l’immagine di Cesare, perché egli è l’immagine di Dio. E neppure Pietro porta l’immagine di Cesare, perché egli ha detto: “Abbiamo abbandonato ogni cosa e ti abbiamo seguito”. Non si trova l’immagine di Cesare né in Giacomo né in Giovanni, poiché essi sono figli del tuono; ma la si trova nel mare, dove i mostri hanno la testa schiacciata sotto le acque, mentre il mostro più grande con la testa sfracellata è dato in pasto ai popoli d’Etiopia. Ebbene se il Signore non portava l’effigie di Cesare perché ha pagato l’imposta? Ma egli non ha pagato il suo; ha restituito al mondo ciò che era del mondo. E tu, se non vuoi essere debitore di Cesare, cerca di non possedere ciò che appartiene al mondo. Ma tu hai delle ricchezze quindi sei debitore a Cesare. Se non vuoi aver niente da dare al re della terra, abbandona tutti i tuoi beni e segui Cristo” (s. Ambrogio, Commento a Luca).
116. DIO NON È DI MORTI, MA DI VIVENTI (20,27-40)
Sullo sfondo del vecchio si profila il nuovo tempio: il popolo di Dio in ascolto di Gesù. I suoi tratti fondamentali sono: la conversione all’autorità dell’evangelo (vv. 1ss), la conoscenza della fedeltà di quel Dio che realizza la sua promessa in modo sorprendente (vv. 9ss), la fine del dominio di Cesare (vv. 20ss) e l’inizio del mondo della risurrezione (vv. 27ss). All’origine di tutto sta l’accettazione di Gesù come Signore (vv. 41ss). A lui, che ha dato se stesso per lei, la chiesa, raffigurati dalla vedova, risponde con uguale amore (21,1ss).
Marco, nel brano parallelo, dichiara che il mistero della risurrezione è accessibile solo a chi conosce le Scritture e la potenza di Dio (Mc 12,24). Invece Luca sottolinea la nuova qualità di vita che la risurrezione comporta: siamo come angeli, figli di Dio che vivono per lui.
In Israele la fede nella risurrezione si formula esplicitamente piuttosto tardi. Non parte dal presupposto filosofico dell’immortalità dell’anima, ma dall’esperienza della promessa e della potenza di Dio. Il suo amore dura in eterno, e non può venir meno neanche davanti alla morte; deve vincerla e farci risorgere per mantenere la sua fedeltà a noi. Questa rivelazione, fondata nel Pentateuco, si sviluppa attraverso i profeti, e raggiunge la sua formulazione più alta in Sap 3-5 e 2Mac 7. In Ez 37,13s la risurrezione è vista come quell’azione che ci fa riconoscere Dio: “Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nel vostro paese; saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò”.
La fede cristiana ha il suo inizio nella risurrezione di Gesù. La gioia che ne scaturisce è la forza per seguirlo fino alla croce, in modo da partecipare noi stessi alla risurrezione dei morti (Fil 3,11). Questa è principio e fine del dinamismo della vita cristiana. Infatti “se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati” (1Cor 15,17). La risurrezione consiste nello stare “sempre con il Signore” (1Ts 4,17), per il quale già ora viviamo nel dono del suo Spirito. Dice Paolo: “Per me vivere è Cristo” (Fil 1,21), perché “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). “Testimone della risurrezione” (At 1,22) è la più bella definizione dell’apostolo.
La risurrezione corporea incontrava poco favore nella cultura ellenistica, che disprezzava la materia (cf. At 17,18-32). Per questo sia Luca sia Paolo sentono il bisogno di sottolinearla (24,39s; 1Cor 15).
I sadducei, a differenza dei farisei (cf. At 23,6s), non credono nella risurrezione dei morti. La loro obiezione tende a metterla in ridicolo anche come semplice prospettiva. Gesù risponde innanzitutto dicendo che non è assurda: è una vita nuova, senza più bisogno di matrimonio e generazione, perché non dominerà più la morte. Fa poi vedere, con un ragionamento rabbinico, come e già implicitamente affermata dalla Torah.
117. DAVIDE DUNQUE LO CHIAMA SIGNORE; E COME È SUO FIGLIO? (20,41-44)
È l’unica volta che Gesù provoca di sua iniziativa con una discussione di tipo rabbinico. In essa fa la domanda decisiva. Chi risponde, trova risposta a tutte le sue domande su di lui. La questione riprende a un altro livello il problema della sua messianicità: suggerisce che il messia è il Signore stesso, e invita a riflettere “come” il Signore sia figlio di Davide, cioè realizzi il Regno. È quanto i discepoli scopriranno dopo Pasqua: Gesù – figlio di Davide secondo la carne e Figlio di Dio secondo lo Spirito (Rm 1,4) – ha realizzato il Regno proprio in quanto “figlio unico”, gettato fuori dalla vigna e ucciso (vv. 14s) dai fratelli, e per questo risuscitato dal Padre.
Mentre noi non osiamo più interrogarlo, egli ci interpella direttamente, perché lo riconosciamo come il Signore (= Kyrios = Adonai = JHWH) e il Cristo (= figlio di Davide, messia, liberatore) proprio in quanto pietra scartata.
Nessuno può dire: “Gesù è il Signore”, se non sotto l’azione dello Spirito di Dio (1Cor 12,3). Solo il dono del Padre può dare la conoscenza del Figlio; solo la luce della Pentecoste farà capire come l’uccisione del Giusto, fallimento di ogni messianismo umano, sia il modo divino di realizzare il Regno.
Quando diciamo: “Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio”, dobbiamo stare attenti a non farne l’attaccapanni delle nostre opinioni religiose. È più esatto dire: “Il Cristo, il Figlio di Dio – che nessuno conosce o sospetta – è l’uomo Gesù”. Lui, il Crocifisso, ci rivela chi è il nostro Salvatore e nostro Signore.
La risposta che Gesù sollecita da noi non può venire dalla carne e dal sangue Il silenzio che segue o è adorazione del Signore o sua condanna a morte.
La vedova del brano seguente mostra come rispondere: con la vita. Ma prima devo avere la “sublimità della conoscenza di Gesù, mio Signore”, per essere conquistato da lui e correre a mia volta per conquistarlo (Fil 3,8.12). Faccio mia la preghiera del cieco al figlio di Davide: “Signore, che io alzi gli occhi” (18,41), e veda te, il mio Signore, per poterti lodare e seguire nel cammino.
118. VIDE UNA VEDOVA (20,45-21,4)
La risposta sull’identità di Gesù, lasciata in sospeso dalla sua domanda precedente, viene da questa vedova. Il suo gesto conclude le dispute precedenti, dandone l’interpretazione autentica. Fa capire l’autorità di Gesù e della sua parola, ultimo appello della fedeltà di Dio; impedisce di fraintendere il potere di Cesare con quello di Dio; dà inizio al mondo della risurrezione di chi vive per Dio, e riconosce il Signore da amare con tutto il cuore. Queste sono le verità fondamentali del nuovo popolo, il viatico della chiesa nel suo cammino per il mondo.
Il maestro se ne va, ma non ci abbandona. Ci lascia una povera donna, che continua a tenerci la lezione fondamentale del Figlio dell’uomo. La sapienza del vangelo è diversa da quella degli scribi. Il loro sapere è funzionale all’avere e al potere per apparire “primi” davanti a Dio e agli uomini: affermano la propria signoria. La vedova invece afferma la signoria di Dio: nelle due monete che getta, rende a Dio ciò che è di Dio, tutta la sua vita. Essa è il vangelo vivo, il buon profumo di Cristo, per mezzo del quale si diffonde la sua conoscenza nel mondo intero (2Cor 2,14). È la sua presenza invisibile ma continua nella storia.
Prima del discorso sulla fine del mondo il maestro fa testamento e ci lascia questa maestra. Iniziò la sua attività con la suocera di Pietro, che serviva (4,39); ora la chiude chiamandoci a osservare questa vedova, miracolo compiuto del vangelo. Queste due donne, che non contano, rappresentano il principio e il fine del suo ministero: ne raccolgono l’eredità, riconoscendo, con il servizio e il dono della vita, il loro Signore che per primo ha servito e dato la vita.
Il brano è costruito sul duplice contrappunto: scriba/ricchi-vedova/povera. La potenza del Verbo di Dio si sposa con la povertà della vedova, e non ha nulla a che fare con la sapienza dei ricchi. I discepoli prenderanno come guida della loro vita ciò che vale agli occhi degli uomini o ciò che vale agli occhi di Dio?
Gli scribi, contro i quali Gesù parla, hanno i foro naturali successori in coloro che nella chiesa si dedicano alla preghiera e al servizio della Parola (At 6,4). Luca stesso appartiene a questi. Avverte il pericolo di diventare padroni della fede altrui, invece che collaboratori della loro gioia (2Cor 1,24). Mette in guardia dal peccato di disporre della Parola invece di rispondere ad essa.
Gesù propone a tutti questa vedova silenziosa come scriba definitivo del NT: è l’icona vivente dell’unico maestro, da lui stesso autenticata.
Alla scuola dei poveri e degli ultimi, frequentati con assiduità e devozione da discepolo, la chiesa impara come conoscere e riconoscere il maestro buono, l’unico Signore della propria vita.
119. NON RESTERÀ PIETRA SU PIETRA CHE NON SARÀ DISTRUTTA (21,5-24)
La piccola apocalisse (17,20-18,8) riguardava il destino personale, la “mia” storia, che si conclude con la morte. Questa grande apocalisse (21,5-36) riguarda il destino cosmico, la “nostra” storia, che si concluderà con la fine del mondo. Apocalisse non significa “disastro”, ma “rivelazione” di una cosa ignota. Queste parole di Gesù rivelano non qualcosa di strano e occulto, ma il senso profondo della nostra realtà presente: ci tolgono il velo che le nostre paure e i nostri errori ci hanno messo davanti agli occhi, e ci permettono di vedere quella verità che è la parola definitiva di Dio sul mondo (escatologico = che dice la parola ultima e definitiva).
Il linguaggio apocalittico è colorito, a tinte forti e paradossali. Ma la verità non è forse paradossale, al di là di ogni opinione?
L’intento primo degli evangelisti è mostrare che non si sta andando verso “la fine”, ma verso “il fine”. Il dissolversi del mondo vecchio è insieme il nascere di quello nuovo. Luca è particolarmente preoccupato di mostrare il rapporto che la meta finale ha con il nostro cammino attuale. Dio realizza il suo disegno in questa storia con le sue contraddizioni: il mistero di morte e risurrezione di Gesù, pienezza del Regno, continua nella vita dei discepoli. La sua croce è già il giudizio sul mondo vecchio; il discepolo è chiamato a viverla al presente come seme della gloria futura, in attesa del suo ritorno. Gesù non soddisfa il prurito di curiosità circa il futuro. Noi gli chiediamo “quando” sarà la fine del mondo e quali sono “i segni”. Ma lui si è rifiutato e si rifiuterà sempre di rispondere. È venuto a insegnarci che il mondo ha nel Padre il suo inizio e il suo termine, e ci chiama a vivere il presente in quest’ottica, l’unica che dà senso alla vita.
Gesù vuole anche togliere quelle ansie e allarmismi sulla fine del mondo, che prosperano ovunque e non fanno che danno. L’uomo, unico animale cosciente del proprio limite, dopo il peccato si lascia guidare dalla paura della morte. Ma essa trionfa proprio nella volontà di salvarsi a tutti i costi, origine dell’egoismo e di ogni male. Gesù offre l’alternativa di una vita che si lascia guidare dalla fiducia nel Padre, in un atteggiamento di dono e di amore che ha già vinto la morte.
Il Figlio di Dio, fattosi carne, ci ha rivelato il destino di ogni carne: il suo cammino di Figlio dell’uomo è quello di ogni uomo e del mondo intero, il suo mistero di morte e risurrezione è la verità del presente nel suo futuro.
Per comodità dividiamo questo discorso in tre parti. La prima (vv. 5-24) contiene quelle parole del Signore che ai tempi di Luca già si sono avverate. La situazione della sua chiesa è in questo identica alla nostra. L’intento dell’evangelista è quello di insegnare a leggere la storia alla luce del mistero di morte e risurrezione di Gesù. La seconda (vv. 25-28) parla di ciò che il cristiano attende: la venuta del Figlio dell’uomo e la sua liberazione, fine di tutta la storia. La terza, che suddivideremo in due parti (vv. 29-33 e vv. 34-36), contiene le disposizioni con cui vivere l’attesa presente.
Questa prima parte inizia chiedendo “quando e quali sono i segni” della distruzione del tempio, che i discepoli intendono come la fine del mondo. In realtà non si tratta della fine del mondo; è un avvenimento storico esemplare, figura di ogni momento di crisi, che costituisce una sfida per il credente, chiamato a testimoniare il suo Signore. Bando alle false attese di una fine imminente (vv. 8-9): i pretesi segni della fine sono tutte cose che avvengono “prima”, sono cioè gli ingredienti normali della nostra esistenza prima della fine. Né le guerre, le rivolte e i grandi segni, né l’assedio e la distruzione di Gerusalemme preludono alla fine: sono solo l’inizio del “tempo dei pagani”, una nuova pagina nella storia della salvezza, aperta ora a tutti. Il vero indizio che il Regno è vicino e che la vicenda umana va verso il suo compimento è invece la “testimonianza” dei discepoli, che seguono e annunciano il loro Signore in questo mondo di male, facendone il luogo della salvezza.
L’universo finirà, perché ciò che ha inizio ha fine. E finirà anche male, perché non accetta il suo fine. Se sono da evitare allarmismi, non c’è posto neanche per i millenarismi trionfalistici. Tuttavia la vittoria non sarà del male, bensì della fedeltà di Dio al suo amore per noi. La risurrezione del Crocifisso ce ne dà la certezza: la pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo. Ma il Regno qui in terra sarà sempre come un seme: fruttifica perché piccolo, preso, gettato e nascosto. Porterà sempre i tratti del volto del Figlio dell’uomo, consegnato per noi alla morte di croce. Ma non bisogna scoraggiarsi: questa è la sua vittoria! Il disegno di salvezza si realizza proprio attraverso la croce: “è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio” (At 14,22). Queste ci associano a Gesù. La sua storia non è passata: rivive nel presente del discepolo, che compie in sé quello che ancora manca alla sua passione (Col 1,24), in modo da aver parte alla sua risurrezione (Fil 3,10s).
Questo discorso di Gesù precede immediatamente la sua morte e risurrezione. Lì infatti si realizzano tutte queste parole. Ma il mistero del Figlio dell’uomo è lo stesso di ogni uomo: ciò che capita al maestro, toccherà anche al discepolo.
Ai primi cristiani che chiedevano con ansia “quando verrà il Regno”, Marco risponde “come” attenderlo. A quelli della generazione successiva che, come noi, rischiavano di non attenderlo più, Luca spiega che senso ha attenderlo ancora: l’attesa incammina la nostra storia presente verso la sua vera speranza, che non può deludere.
120. ALLORA VEDRANNO IL FIGLIO DELL’UOMO (21,25-27)
La venuta del Figlio dell’uomo è il centro del discorso escatologico. Posto prima del racconto della passione di Gesù, trova in essa la sua realizzazione. Il segno della croce illumina tutta la storia. Essa è un cammino che ha come termine la manifestazione piena della misericordia di Dio che ci viene incontro. È molto importante sapere qual è il fine della vicenda umana. Perché l’uomo non è ciò che è ma ciò che diviene. E diviene ciò verso cui va; e va verso ciò che ama. Di natura “eccentrica”, egli è viator: ha il suo centro fuori di sé, verso cui necessariamente tende. Per questo, insoddisfatto di tutto, è sempre in ricerca e in attesa di qualcosa di nuovo. Alla fine sarà ciò che attende, perché attende ciò che ama. Spegnerne i desideri e le attese profonde significa uccidere la sua umanità, privarlo di ciò che lo distingue dalle bestie. La stessa angoscia di chi non si aspetta nulla – oggi così diffusa – è il posto vuoto di Dio. Nessun idolo può occuparla. Si frantuma, come Dagon davanti alla Presenza (1Sam 5,1ss).
All’attesa dell’uomo corrisponde l’avvento di Dio. Egli colma il nostro desiderio col dono della sua realtà. La storia umana è un tendere inquieto a lui, nostro luogo naturale; si placa solo nell’incontro con lui. Siamo fatti per lui, perché lui si è fatto per noi.
Ma quando e come viene a noi? Il Vangelo ce lo rivela, insegnandoci innanzitutto che viene e verrà allo stesso modo in cui è venuto nella carne del Figlio dell’uomo. Tre sono le sue venute: quella passata, che si compie nel suo cammino di morte e risurrezione; quella presente, che si attua nel nostro essere associati al suo mistero; quella futura, anticipata per ciascuno nella morte ed estesa a tutti alla fine del mondo. Se a noi preme soprattutto quest’ultima, il Signore ci ricorda che essa si realizza al presente, vivendo qui e ora la sua stessa storia. La sua prima venuta, che il Vangelo ci racconta, è il “modulo” di ogni storia personale e collettiva, presente e futura. In lui si è già compiuto il tempo: il suo destino di Figlio dell’uomo è quello di ogni uomo e dell’umanità intera, che in lui si ricapitola (Ef 1,10).
Il suo avvento quindi non è da restringere al tempo finale: dà invece ad ogni tempo il suo valore definitivo, associandolo al mistero del Figlio dell’uomo. La sua morte e risurrezione, cuore del presente e del futuro, ci dà la chiave di lettura della storia. La sua venuta passata determina la nostra fede; quella futura la nostra speranza, quella presente la nostra carità. Il passato e il futuro stanno al presente come la memoria e il progetto all’azione. Il presente, come è spinto dal passato verso il suo futuro, così è da questo attirato secondo una memoria amata che si è fatta progetto desiderato. Per l’intelligenza è più importante il passato; per la volontà il futuro. Ma ambedue hanno la loro realtà nel presente, in cui si congiungono e danno significato e senso all’azione umana.
Questo brano è costruito su un contrappunto. Da una parte i grandi sconvolgimenti cosmici e gli uomini che muoiono della loro paura di morire; dall’altra la parola del Signore che dà fiducia e garantisce che proprio qui avviene la nostra liberazione.
La venuta del Figlio dell’uomo non è qualcosa di tremendo. È il compimento di ogni desiderio: l’incontro con il Signore. Per questo Paolo sogna di essere rapito sulle nubi del cielo per andargli incontro e stare per sempre con lui; o almeno di essere sciolto dal corpo per essere con lui (1Ts 4,17; Fil 1,23). La nostra vita infatti è ormai nascosta con Cristo in Dio; e quando apparirà Cristo, la nostra vita, anche noi saremo manifestati con lui nella gloria (Col 3,3s). Colui che “ama il Signore”, grida: “Maranà tha: vieni, o Signore” (1Cor 16,22). Tutta la Scrittura termina con l’invocazione dello Spirito e della sposa: “Vieni!”. E lo sposo dice il suo sì: “Sì, verrò presto” (Ap 22,17.20). Ciò che l’uomo teme e da cui fugge, è in realtà il rumore dei passi dello sposo.
Gli sconvolgimento cosmici – e la nostra stessa morte – sono eventi naturali. Il loro carattere tragico è dovuto al nostro peccato, che ce li fa leggere con gli occhiali della nostra paura e agire di conseguenza. “La” fine nostra e del mondo, l’attesa del nulla, è la consumazione di un “inganno”. In realtà andiamo incontro a colui che viene a darci il Regno, ed è “il” fine stesso della creazione. È quanto scoprirà ed esorterà tutti a scoprire il malfattore in croce. Il credente, libero dalla paura di chi può uccidere il corpo, vive con serenità la sequela del suo Signore. Ambrogio interpreta i segni del sole, della luna e degli astri e tutti gli sconvolgimento cosmici come il cedimento della testimonianza dei discepoli. Questo lo impressiona come la vera catastrofe!
121. VEDETE IL FICO (21,28-33)
La venuta del Figlio dell’uomo è nel tessuto concreto delle vicende umane, dentro la nostra storia di male e in continuità con essa. Il discepolo vive la propria testimonianza in mezzo alle contraddizioni del mondo, e in essa vede il luogo della sua liberazione e del Regno.
Questo brano contiene una parabola sul discernimento (vv. 29-31) necessario per vedere la sua venuta gloriosa nella nube della croce. Precede un’affermazione sul suo significato di salvezza per l’uomo (v. 28) e seguono due sentenze, una sulla contemporaneità e l’altra sulla certezza di tale venuta (vv. 32.33).
Luca insegna al suo lettore a leggere con fede ciò che avviene. Alla luce della storia di Gesù, anche la nostra storia diventa trasparente, e lascia vedere in filigrana i lineamenti del Figlio dell’uomo nel suo mistero di morte e risurrezione. Al di là delle apparenze, il credente scorge nel travaglio della vicenda umana il destino stesso del seme gettato che muore e porta frutto.
Impariamo la lezione dal fico e da tutti gli altri alberi. Soprattutto dall’“arbor una nobilis”, quel legno verde che è la croce di Gesù. Gli sconvolgimento e tutte “queste cose” di cui si è parlato, sono da vivere non con angoscia mortale, ma come le doglie del parto (Mc 13,8; Rm 8,22). La parabola fa luce su molte questioni dei discepoli circa il quando, il che cosa e il come è la fine del mondo. Il “quando” è l’accadere di tutte queste cose, che corrisponde al germogliare del fico (vv. 28.31.30). Il “che cosa” consiste nella venuta del Figlio dell’uomo nella sua gloria, cioè in croce: egli è la nostra liberazione, il Regno che corrisponde all’estate, la stagione dei frutti (vv. 27.28.31). Il “come” è l’essere “vicino”: come il frutto è nella gemma, così il Regno e la salvezza sono nelle contrarietà del presente. Il regno di Dio infatti è in mezzo a noi in modo da non attirare l’attenzione (17,21). Per questo dobbiamo guardare bene, per discernere la venuta del Figlio dell’uomo: egli sulla croce si è fatto vicino ad ogni uomo e proprio lì lo salva, dandogli il suo regno.
Il contadino guarda il fico che germoglia; l’esperienza gli fa capire che l’estate è vicina. Noi dobbiamo guardare l’albero del maestro che germoglia nelle croci quotidiane del discepolo; se, come Paolo, abbiamo la sapienza di Dio, l’esperienza ci fa capire la vicinanza del suo regno.
L’albero della croce non è solo indizio: è la realtà del giudizio di Dio che salva il mondo. Da lì impariamo a discernere il Regno e a vivere “con giudizio”, cioè secondo il pensiero di Dio.
La prima comunità chiedeva con ansia: “quando sarà la fine?”. Marco, il primo evangelista, dice di lasciar perdere (cf. 13,32; cf. At 1,7): il problema è come vivere il presente.
La nostra comunità, come quella di Luca, si chiede con delusione: “Ci sarà una fine? che senso ha il futuro?”. Luca risponde che ciò che attendiamo è dato qui e ora nella nostra testimonianza: il Regno nella storia è sotto il segno dell’albero della croce. Come per il maestro, così per il discepolo.
Se Marco indirizza e corregge l’attesa di chi spera ancora, Luca dà animo a chi sperava e non spera più (“speravamo”: 24,21). Per questo sottolinea il valore salvifico della nostra storia. In essa si attua il “dei” di Gesù, il passaggio necessario dalla vecchia alla nuova creazione. In Luca l’escatologia ha un carattere di quotidianità, come la croce (9,23). Questa contiene la risurrezione come la gemma del fico contiene il frutto. E senza fiori in mezzo!
In tutto questo discorso del c. 21 non è corretto chiedersi se l’evangelista intende parlare del futuro – personale e collettivo – o del passato o del presente. Luca, da buon cattolico, preferisce congiungere con “e” invece che dividere con “o”. Parla infatti del nostro presente, da vivere nella “memoria” del passato di Gesù, che ci apre “oggi” la novità del suo futuro.
Queste parole precedono il racconto della sua morte e risurrezione, che celebriamo nell’eucaristia. Essa rapisce il discepolo in Dio, e gli dà forza per vivere al presente il passato del suo Signore, nell’attesa del suo ritorno.
La promessa di Dio è contemporanea a ogni generazione e dura in eterno (vv. 32-33). Con il malfattore, siamo chiamati a riconoscerla “oggi”, realizzata nella vicinanza della sua alla nostra croce.
Il discernimento ci impedisce di cadere in facili deviazioni. Ci sono e ci sono sempre state molte sette che, promettendo una salvezza futura, alienano dal presente. Il cristiano non è ansioso della salvezza: sa che è il dono gratuito che Gesù, vero uomo e vero Dio, gli ha fatto, dandogli il suo Spirito. Questo ci permette di vivere già ora la vita eterna, come figli del Padre, fratelli del Signore e di tutti. Questa nostra vita, con le sue piccole cose quotidiane, è come un mercato. Il mercante avveduto ci guadagna il suo patrimonio; lo sprovveduto perde tutti i suoi averi.
122. ATTENTI A VOI STESSI (21,34-38)
La fine dell’ultimo discorso sulle “cose ultime” richiama l’inizio del c. 12, dove Gesù insegna a vivere il presente senza quell’ansia di vita che si alimenta con la paura della morte.
La nostra esistenza non sia ipnotizzata dal terrore, né si dissolva nello stordimento. I falsi obiettivi di vita, disperati e inutili esorcismi di ciò che temiamo, non sono che l’esca del suo laccio. Questo si abbatterà senza risparmiare alcuno, mostrando l’infinita vanità di tutto ciò a cui abbiamo attaccato il cuore (vv. 34-35). Ma noi conosciamo il dono del Padre e abbiamo la speranza dei Figlio, che non delude mai.
Alla sobrietà lucida e attenta bisogna aggiungere la vigilanza e la preghiera (v. 36). Il credente veglia nella notte del mondo. La paura non gli chiude gli occhi. In queste tenebre viene colui che l’uomo terrestre teme come un ladro e l’uomo spirituale desidera come lo sposo. La vigilanza è nutrita da una supplica costante, per non cadere nella tentazione finale di perdere la fede nella fedeltà del Signore. Tutto passerà, ma la sua parola resta in eterno.
Cerchiamo di vivere giudiziosamente il tempo che ci è dato, conoscendo il volere di Dio: “Diventate misericordiosi, non giudicate, non condannate, perdonate e date” (6,36-38). Il giudizio futuro è operato qui e ora da noi, secondo il metro che usiamo per misurare gli altri.
La conclusione di tutto il discorso sul futuro ci rimanda quindi a vivere il presente da “amministratori fedeli e saggi”, con responsabilità attiva e vigilante (12,42), per guadagnarci la nostra vera ricchezza (16,9-12).
“Voi, fratelli, non siete nelle tenebre, così che quel giorno possa sorprendervi come un ladro: voi tutti infatti siete figli della luce e figli del giorno; noi non siamo della notte né delle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma restiamo svegli e siamo sobri (… ). Dio non ci ha destinati alla sua collera, ma all’acquisto della salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi” (1Ts 5,4-6.9s).
L’atteggiamento del credente è di discernimento, nella certezza che il Signore è vicino qui e ora (vv. 28-33). Per questo conduce una vita sobria, cosciente, vigilante e orante. Così può levare il capo e stare ritto davanti al Figlio dell’uomo. L’attesa del Signore non è un’alienazione, ma l’unico modo per essere presenti alla vita.
Il v. 37 ci presenta una sintesi degli ultimi giorni di Gesù. Nel momento finale della sua vita fa quanto ha appena detto a noi: il giorno compie la sua missione di annuncio ai fratelli, la notte veglia in comunione con il Padre (v. 37). Il popolo, raccolto intorno a lui, impara (v. 38).
Estratti da:
Silvano Fausti, “Una Comunità legge il Vangelo di Luca”
Edizioni Dehoniane Bologna 1991