Lectio divina sull’Apocalisse – Pino Stancari sj
L’Apocalisse: il Mistero Pasquale luce della storia
Capitolo 21
Il Signore fa nuove tutte le cose
Dobbiamo affrontare adesso le pagine conclusive del nostro libro, pagine che non possiamo trattare con eccessiva disinvoltura perché siamo di fronte alle visioni finali nelle quali si ricapitola veramente tutto. Con pazienza, con molta umiltà e confidando nella vostra comprensione per tutte le semplificazioni a cui io ridurrò il nostro lavoro, noi leggeremo il cap. 21.
Le tre grandi visioni finali: cap. 21, vv.1-8; poi vv. 9-27; quindi, nel cap. 22, dal v. 1 al v. 5. I versetti che seguono nel cap. 22 costituiscono un epilogo.
Sono tre, in sequenza fra loro e coordinate secondo uno schematismo che è tipico di tutto il libro, per cui ogni visione si sviluppa a partire dalla precedente; sboccia come un’ulteriore manifestazione, come ripresa cromatica, come originalità espressiva all’interno della visione precedente. E tutte si innestano in quella che è stata la visione introduttiva.
A questo punto affrontiamo la lettura di queste tre visioni conclusive. Ecco come, in una prospettiva sempre più ampia, sempre più profonda e ricapitolativa di tutto, Giovanni è in grado adesso di contemplare lo svolgimento integrale della storia umana, così come è possibile a partire dalla fine.
La storia di un fidanzamento
Cap. 21, vv. 1-8. Un affaccio (così possiamo intitolare anche le due visioni che seguiranno); affacci, come è possibile da una balconata che consente, per l’appunto con un solo colpo d’occhio, di osservare un panorama amplissimo a cui non sfugge più niente; dopo tutto il percorso compiuto da apprendista (in questo Giovanni, il profeta, ci ha fatto da battistrada) ecco come appare la scena del mondo.
V. 1: “Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più”. Una novità totale, cielo e terra, è tutta la creazione che qui è instaurata in un contesto di novità che è esauriente, che è davvero ecumenico. Cielo e terra e, vedete, il cielo e la terra di prima sono scomparsi. Un nuovo cielo e una nuova terra. Ricordate che proprio così si apre il primo racconto della creazione, cap. 1 del Genesi: “In principio Dio creò il cielo e la terra”. Ma non si tratta soltanto di una novità di ordine cosmologico. Qui è instaurata quella novità che riguarda essenzialmente la vocazione alla vita di quella creatura che, nel contesto della creazione, detiene un ruolo di spicco, di presidenza, che esercita una necessaria responsabilità verso l’insieme della creazione. Un nuovo modo di vita.
La scenografia qui è ridottissima. Appunto: cielo – terra e usando questi due termini il nostro Giovanni dice tutto. Il fatto è che si tratta di una scenografia interiore: “il mare non c’era più”, ossia non c’è più la presenza del negativo. Il mare qui è da intendere come la minaccia, l’aggressione, lo strumento del disordine (ricordate fin da quell’abisso primigenio dal quale viene estratto il materiale che poi diventa il contenuto di cui il Creatore si serve per ordinare il mondo; ricordate le acque del diluvio, e così via). “Il mare non c’era più”.
V. 2: “Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo”. Qui adesso c’è la nuova Gerusalemme che appare sulla scena come una presenza che possiamo sovrapporre all’immagine che Giovanni ci presentava immediatamente prima: “nuovo cielo e nuova terra, nuova Gerusalemme” (questa nuova Gerusalemme coestensiva al mondo).
Naturalmente qui l’immagine passa attraverso tutta la rivelazione antico-testamentaria, tutta la storia della salvezza: nei fatti della storia contemporanea a Giovanni Gerusalemme è stata distrutta nell’anno ’70 d.C. e quindi, quando Giovanni scrive queste pagine, Gerusalemme è un ammasso di rovine. Quella Gerusalemme viene rievocata in quanto è stata, è e rimane segno sacramentale che anticipa lo svolgimento della storia intera che ormai si presenta a noi dotata della sua fisionomia matura: la storia umana è la storia dell’umanità fidanzata. E qui, vedete, con un unico colpo d’occhio, Giovanni è in grado di ricapitolare tutto lo svolgimento della storia umana al modo di quella fidanzata che esce dalla casa paterna per andare incontro al suo sposo. Questa figura sta in diretta contrapposizione a quella della “grande prostituta” di cui Giovanni ci parlava precedentemente, nei capp. 17-18.
Un mondo nuovo, perché è nuovo il modo di stare al mondo dell’umanità; ed ecco un mondo nuovo, perché ormai la storia dell’umanità assume inconfondibilmente il proprio significato definitivo. Questa è la storia di un fidanzamento. E un fidanzamento che non comporta tergiversazioni, incertezze, rinvii, problematiche di ordine contrattuale, approssimazioni di ordine affettivo: “pronta come una sposa adorna per il suo sposo”. E’ pronta.
Dio prende dimora tra gli uomini
Vv. 3-4: “Udii allora una voce potente che usciva dal trono (una voce angelica, questa, che riecheggia le profezie antico-testamentarie; le riecheggia in modo sintetico ma molto sapiente, magistrale: spiega che cosa sta succedendo, qual è la realtà che Giovanni sta contemplando nella sua visione):
“«Ecco la dimora di Dio con gli uomini!
Egli dimorerà tra di loroed essi saranno suo popoloed egli sarà il “Dio-con-loro”»
Qui si potrebbero citare numerosi testi dell’Antico Testamento (vi rimando alle note a bordo e a piè di pagina che qualsiasi edizione della Bibbia contiene). E’ un modo per ricapitolare tutta la storia della salvezza che la voce angelica dichiara sostenuta, strutturata da quella promessa riguardante “la dimora di Dio presso gli uomini”. E’ qui rievocata inconfondibilmente la famosa promessa dell’Emmanuele, nel libro di Isaia, nel cap. 7 (v. 14) “Dio-con-loro”. Tutta la storia della salvezza è protesa verso l’incarnazione, verso quel prender dimora nella carne umana del “logos”, della parola di Dio di cui parla il prologo del Vangelo di Giovanni. Tenete presente che qui, dove dice “dimora di Dio con gli uomini” in greco è il termine skenè che vuol dire “tenda” e dove dice “Egli dimorerà”: “skenosi”, “si attenderà, si accamperà”. E voi sapete bene che questo è il linguaggio usato dall’evangelista Giovanni quando, nel prologo del suo Vangelo, dice che il “logos” si fece “carne e venne ad abitare in mezzo a noi”, “venne ad accamparsi, ad attendarsi in mezzo a noi” (Gv.1,14). L’incarnazione, dunque, si configura qui come il riempimento del mondo che è dimora nella quale Dio viene ad abitare e la storia umana è esattamente condensata, concentrata, identificata nel compiersi del disegno là dove il Dio vivente ha voluto prendere dimora.
Il v. 4 aggiunge: “e tergerà ogni lacrima dai loro occhi, non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno perché le cose di prima sono passate”. Qui pure possiamo individuare testi antico-testamentari: Isaia 25, 35, e altri testi ancora. Il fatto è che qui l’accenno alle lacrime ci rimanda, in modo evidentissimo, a quella che è stata nella storia della salvezza l’esperienza dell’esilio, che si è riproposta in diversi contesti e con diverse specificazioni; un’esperienza che in una certa epoca ha un suo risvolto macroscopico, ma è una storia d’esilio che viene da lontano, dall’inizio, fin dal tempo del giardino, da quando i progenitori debbono abbandonare il giardino della vita: ecco l’esilio, un esilio irrorato di lacrime. Ebbene, vedete, questa storia umana, la storia dell’esilio, ormai assume, sotto lo sguardo di Giovanni, il significato di un accampamento che consente riposo, ristoro, consolazione all’umanità esperta nel pianto. Là dove il Dio vivente viene ad abitare, là il cuore umano, esperto nel dolore, trova dimora nel cuore di Dio.
Gli assetati berranno dalla fonte della vita
Dal v. 5 al v. 8 si fa udire la voce stessa di Dio. Dopo la voce di quella magistrale guida angelica che ci ha fornito gli elementi essenziali per renderci conto di quello che è successo, adesso è proprio Lui che prende la parola: “E colui che sedeva sul trono disse: «ecco, io faccio nuove tutte le cose e soggiunse: scrivi perché queste parole sono certe e veraci”».
Ecco sono compiute!
Io sono l’Alfa e l’Omega,
il Principio e la Fine.
A colui che ha sete darò gratuitamente
acqua della fonte della vita.
Chi sarà vittorioso erediterà questi beni; io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio.
Ma per i vili e gl’increduli, gli abietti e gli omicidi, gl’immorali, i fattucchieri, gli idolàtri e per tutti i mentitori è riservato lo stagno ardente di fuoco e di zolfo. E’ questa la seconda morte».
Fin qui la prima visione di questa terna finale. La nuova creazione, che adesso Lui stesso – il Dio vivente – sta descrivendo, costituisce l’attuazione di quello che era il suo intento originario. E’ per questo che il Figlio è stato inviato e si è presentato a noi nella carne umana; è per questo che adesso il mondo è diventato “tenda” in cui il Dio vivente si compiace di dimorare ed è per questo che la storia umana adesso è diventata da storia di esilio a storia di ristoro.
Qui, nel v. 6, leggevo: “A colui che ha sete darò gratuitamente acqua della fonte della vita”. Innumerevoli citazioni dell’Antico Testamento. In particolare vorrei richiamare il cap. 55 di Isaia, v. 1, perché qui veniamo a sapere che già siamo in grado di identificare la novità della vita a cui gli uomini sono chiamati e questa novità si manifesta nella sazietà della sete. Questa sazietà per cui gli uomini sono in grado di vivere in pienezza, si realizza là dove gli uomini sono in grado ormai di apprezzare ciò che è gratuitamente donato: il discernimento della gratuità è divenuto il criterio in base al quale tutte le relazioni vitali sono impostate, strutturate, attivate ed è in questo modo che la vocazione alla vita, che originariamente fu donata dal Creatore agli uomini, si realizza.
E nel v. 7 questa novità, che coincide con la recuperata capacità di apprezzare ciò che è gratuitamente donato, coincide con quella vittoria (così si esprime il v. 7) che è registrata da coloro che scoprono di essere figli di Dio: nella comunione con il Figlio, che è morto ed è risorto, è Lui l’Agnello immolato e vittorioso, la promessa messianica (che si rifà a un testo famosissimo di 2 Samuele, 7) viene applicata a quella novità che oramai contrassegna indelebilmente la vocazione alla vita di tutti gli uomini. “Chi sarà vittorioso erediterà questi beni”. E quella figliolanza che è del Messia, il Figlio inviato, Gesù Cristo, il Signore, adesso è eredità che viene da Lui condivisa con tutti gli uomini che sono resi partecipi della grande vittoria. “Chi sarà vittorioso erediterà questi beni ed egli sarà mio figlio”.
E’ finita la menzogna
Nel v. 8 questo proclama viene confermato nel suo risvolto negativo: è escluso ormai qualsiasi compromesso con l’idolatria. I termini usati servono ad identificare i volti minacciosi, ossessivi, mostruosi, demoniaci, dell’idolatria: “Ma per i vili e gl’increduli, gli abietti e gli omicidi, gl’immorali, i fattucchieri, gli idolàtri (sono sette categorie che potremmo anche tentare di descrivere in maniera più precisa ma per adesso è il caso che le assumiamo in blocco, a cui si aggiunge un termine che serve – mi sembra proprio di poter dire – a ricapitolare tutte le sfaccettature del quadro che ci sono state fornite, ossia i mentitori) e per tutti i mentitori è riservato lo stagno ardente di fuoco e di zolfo. E’ questa la seconda morte».” E’ finita la menzogna oramai; la menzogna che nascondeva, copriva, contestava, rifiutava, che dubitava. L’idolatria è espulsa. Questa è la storia umana: venir fuori dalla menzogna. Il mondo nuovo è questa uscita dal grande imbroglio, da questo inganno colossale, terrificante.
La nuova Gerusalemme, sposa dell’Agnello
Seconda visione: dal v. 9 al v. 27. Riprende uno degli elementi che erano già presenti nei versetti che abbiamo appena letto e ci consentirà di approfondire la contemplazione di quell’immagine. Più esattamente si tratta della nuova Gerusalemme.
Vv. 9 e 10: “Poi venne uno dei sette angeli che hanno le sette coppe piene degli ultimi sette flagelli (li conosciamo da qualche tempo) e mi parlò: «Vieni, ti mostrerò la fidanzata, la sposa dell’Agnello»”. L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, (l’immagine di quella balconata da cui ci si può affacciare per abbracciare tutto il panorama, così come mi esprimevo precedentemente, qui è raffigurata come un monte alto che consente appunto di osservare tutta la scena)e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio.”.
Si tratta, dunque, di una città e, notate bene, ne parlavamo altre volte, parlare di una città è parlare di quella spinta che ha sostenuto dall’interno tutta la storia umana; è la grande iniziativa umana quella che matura nella costruzione della città dal tempo di Caino in poi. Anche questo sappiamo già: il primo costruttore di città è Caino.
La lettura dell’Apocalisse ha richiamato una notizia che non ci è affatto ignota. La storia dell’umanità può essere ben raffigurata come la storia dell’edificazione di una città che, da Caino in poi, assume prerogative preoccupanti, angoscianti; Caino non vuol più avere a che fare con un fratello; Caino mette in piedi una realtà grandiosa, affascinante, commovente, impegnativa, coagulo di forze, mercato che consente contatti con le culture diverse, la produzione a cui è dedito il lavoro delle popolazioni più lontane, la città come luogo nel quale si sviluppa tutto un progetto di civiltà; eppure la città, da Caino in poi, porta in sé un seme di violenza, di cattiveria, di ingiustizia che, per quanto nascosto, sepolto, al momento opportuno o inopportuno esplode immancabilmente: una volontà di morte. A suo tempo, quando è caduta Babilonia, Giovanni ci diceva che “è apparso il sangue di tutti gli sgozzati”, alla fine del cap. 18 (v. 24); da Abele in poi il sangue di tutti gli sgozzati, il sangue di tutti i fratelli rifiutati: appunto la città, da Caino in poi, costruita su un fondamento che è impregnato di quel sangue.
E adesso, vedete, Gerusalemme. E’ una città ma è una città che nel corso della storia della salvezza è stata piegata in obbedienza a un disegno rievocativo, un disegno educativo, il santo che si è presentato per cercare dimora. E’ vero che poi la Gerusalemme della storia umana è come ogni altra città, lo dimostrano i fatti del passato e del presente. E’ come una qualunque altra città la Gerusalemme presente sulla scena del mondo, nella storia degli uomini; ma è pur vero che quella città porta con sé un valore sacramentale, una promessa, la dimostrazione che Dio avanza, che la santità del Dio vivente vuole introdursi, vuole portare a compimento le sue intenzioni, e adesso, vedete, è fidanzata, pronta per un incontro nuziale.
Lo splendore della città santa
Vv. 11-14: questa città in relazione all’ambiente circostante. “Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino.”. La nota di luminosità è particolarmente valorizzata; è una luminosità attrattiva, notate bene questo particolare. La città è sistemata, edificata, disegnata, organizzata in modo tale da attirare a sé e accogliere in sé tutto quello che si dispiega sulla scena del mondo. Questo certamente dipende dal fatto che la gloria di Dio abita in essa; è il Dio vivente che trova dimora nella creazione e là dove la storia umana era storia di ribellione adesso è storia di obbedienza, di comunione realizzata; è la storia del Figlio che risponde al Padre, è la storia dell’umanità nuova che si affida alla volontà del Dio vivente. Leggiamo ancora: “La città è cinta da un grande e alto muro con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele (sono espressioni citate pressochè alla lettera dal libro di Ezechiele). A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e ad occidente tre porte. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello”. Sono i segni della presenza di Dio che Giovanni coglie nella preziosità del materiale utilizzato per la fabbrica di questa creatura. Spicca soprattutto la trasparenza.
Notate qui l’insistenza sulle mura, che di per sé sono un dato ordinario per una città. Soltanto che qui le mura non servono a tenere lontano l’esterno. Non sono mura costruite per mantenere le distanze, ma per favorire la mediazione. E accanto alle dodici porte ci sono i dodici basamenti (dice il v. 14) che si potrebbe tradurre anche con “bastioni”; in ogni caso ciò che dà solidità e stabilità all’edificio; l’impianto architettonico è incrollabile. Ci sono le porte e, relativamente alle porte, le dodici tribù di Israele. Ci sono i bastioni e, relativamente ad essi, i nomi dei dodici apostoli dell’Agnello. Dunque il popolo cristiano e la sua storia in continuità con la storia del popolo di Dio: è un’unica storia, nell’Antico e nel nuovo Testamento; tutto gravita attorno all’Agnello che si è manifestato a noi nella pienezza dei tempi. Questa città è presente non per espellere, ma per attirare, non per schiacciare, ma per sopportare.
Il fascino irresistibile della nuova Gerusalemme
Vv. 15-21. Dopo aver contemplato la luminosità (tutte le considerazioni su cui mi sono soffermato scaturiscono da quella prima percezione del fulgore che la città emette: un’attrazione a cui nulla e nessuno può più sottrarsi) adesso Giovanni osserva la città ancor più da vicino e la misura per quelle che sono le sue prerogative interne, per come funziona in sè e per sè. Anche le misure sono determinate dall’iniziativa gloriosa del Dio vivente, perché è Lui che vuole dimorare in mezzo agli uomini.
“Colui che mi parlava aveva come misura una canna d’oro, per misurare la città, le sue porte e le sue mura”. Abbiamo a che fare con il libro di Ezechiele, “le sue porte, la lunghezza e la larghezza sono eguali” (è un cubo il cui lato misura circa 2.000 chilometri; una misura fuori ogni possibilità di calcolo; lunghezza, larghezza, altezza: un cubo che ricapitola in sé tutto del mondo e della storia umana, ma in obbedienza a Dio, in corrispondenza alla sua intenzione). Un immenso cubo con il lato di circa 12.000 stadi (corrispondenti, come dicevo, a circa 2.000 chilometri. Dodicimila è cifra del tutto simbolica). “Ne misurò anche le mura: sono alte centoquarantaquattro braccia, (12 per 12, qualcosa come una settantina di metri), secondo la misura in uso tra gli uomini adoperata dall’angelo. Le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro, simile a terso cristallo. Le fondamenta delle mura della città sono adorne di ogni specie di pietre preziose. Il primo fondamento è di diaspro, il secondo di zaffìro, il terzo di calcedònio, il quarto di smeraldo, il quinto di sardònice, il sesto di cornalina, il settimo di crisòlito, l’ottavo di berillo, il nono di topazio, il decimo di crisopazio, l’undecimo di giacinto, il dodicesimo di ametista. E le dodici porte sono dodici perle; ciascuna porta è formata da una sola perla. E la piazza della città è di oro puro, come cristallo trasparente”. Ritorna qui l’accenno a quella trasparenza su cui mi ero già soffermato leggendo i versetti precedenti.
Vedete: le mura non separano ma sono tramite di comunicazione, sono garanzia di gioiosa comunione. Sullo sfondo un testo di Neemia, cap. 8, v. 10: “La gioia del Signore è il nostro baluardo difensivo”. Quale mura per Gerusalemme, quale mura per noi, quale difesa, quale apparato architettonico può valere come garanzia di stabilità per la nostra città? Esattamente: “la gioia del Signore”, la comunione, il gaudio dell’incontro, della trasparenza su cui Giovanni adesso ancora insiste.
“Le fondamenta delle mura della città sono adorne di ogni specie di pietre preziose”. Tutto conferma il valore straordinario di questa costruzione immensa e dotata di una qualità decorativa davvero al di sopra di ogni immaginazione. L’elenco delle dodici pietre preziose che sono usate per far da basamento (o da baluardo o da bastione) ci rimanda alla potenza attrattiva di questa città e alla fedeltà incrollabile di cui essa dà prova in quanto punto di riferimento che assorbe in sé il peso di tutto l’insieme.
“E la piazza della città è di oro puro, come cristallo trasparente.” Siamo già dentro la città; la porta non è un impedimento ma uno strumento che favorisce l’ingresso, l’assorbimento; siamo già sboccati nella piazza, nel cuore della città, provenendo dall’esterno da dove abbiamo potuto ammirare la città che ha messo a nostra disposizione quanto costituisce il suo fulgore interno.
Il tempio della città è il Signore Dio
Vv. 22-23: “Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio (è presente la gloria del Dio vivente). La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina è la sua lampada è l’Agnello”. Questa è un’immagine trinitaria: l’Onnipotente, l’Agnello, la Luce. La città è abitata dal Dio vivente.
La città dei fratelli, nel nome dell’Agnello
Vv. 24-27. Questa città è esattamente edificata in modo tale da diventare lo strumento che consente e realizza il riconoscimento tra fratelli. Mentre la città di Caino è quella che esclude la presenza di un fratello da riconoscere, questa è la città nella quale la storia umana è ricomposta dall’interno e riconciliata in obbedienza all’intenzione gloriosa del Dio vivente: è storia di riconoscimento tra fratelli. “Le nazioni cammineranno alla sua luce (citazione di Isaia, 60, v. 3)e i re della terra a lei porteranno la loro magnificenza.” Un pellegrinaggio universale che accorre verso la città. Non c’è limite di spazio, non c’è problema per quanto riguarda l’accoglienza: tutte le ricchezze che l’umanità ha raccolto e accumulato lungo il proprio percorso con il lavoro degli uomini; gli eventi culturali passati, con tutte le contraddizioni spesso davvero disastrose, che hanno accompagnato la vicenda umana; non si perde nulla; tutto si raccoglie in quella città; un convoglio che porta con sé un carico immenso; e finalmente in quella città la presenza di coloro che sono diversi, di coloro che erano dispersi chissà dove, di coloro che erano stati dimenticati, di coloro che sono stati anche motivo di conflitto, a volte ferocissimo, quella presenza adesso è riconosciuta e apprezzata come una componente che concorre positivamente alla vita della città.
“Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, poiché non vi sarà più notte”. Dunque non si chiuderanno mai le porte perché non c’è notte. Mai. Le porte come garanzia della relazione, del contatto, della comunicazione: un’accoglienza smisurata quella di cui è dotata questa città. “E porteranno a lei la gloria e l’onore delle nazioni.” Le nazioni sono i popoli pagani, è l’umanità, è la storia intera con tutte le sue vicissitudini e “Non entrerà in essa nulla d’impuro (ci risiamo; è un accenno su cui già mi ero soffermato a proposito della prima visione: non c’è più spazio per l’idolatria) né chi commette abominio o falsità, ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello”. E’ la città dei fratelli che si ritrovano, che si riconoscono, e questo riconoscimento fraterno riguarda anche Caino; anche a lui è ridata la gioia di incontrare un fratello senza temere la vendetta: nel nome dell’Agnello.
Tutta la storia della salvezza è la storia di una città che deve esser rieducata. Riguarda la salvezza di Caino. Come faremmo a salvare Caino quando Caino non vuol più saperne di un fratello e non vuol saperne al punto che ci costruisce sopra una città? Si va da Genesi 4 (siamo all’inizio di tutto) sino alla fine dell’Apocalisse e questa cornice è, dal punto di vista teologico, davvero potentissima, efficacissima.
Capitolo 22
La storia vista dalla fine, dalla parte di Dio:
un messaggio di consolazione
Abbiamo letto il cap. 21; dobbiamo leggere ancora il cap. 22. Di queste tre grandi visioni finali noi già abbiamo scandagliato le prime due, le abbiamo messe a fuoco sempre con tanti limiti e le inevitabili insufficienze. Le tre grandi visioni finali: sappiamo bene che è proprio a partire dalla fine che tutto ciò che riguarda la condizione umana viene compreso, interpretato, spiegato, così come essa è sperimentata nell’attualità del vissuto, man mano che la storia è in corso. A partire dalla fine ecco che tutto si svela: la fine appartiene a Dio, è dimostrazione che la vittoria spetta a Lui; la Sua gloria è trionfante e tutto, nell’Apocalisse, ruota attorno alla missione svolta dall’Agnello, il Figlio che è stato inviato, che è morto ed è risorto; la Pasqua redentiva che costituisce di già l’attuazione definitiva della vittoria che è celebrata nella gloria celeste del Dio vivente.
Un messaggio di consolazione. Ce ne siamo resi conto fin dall’inizio e su questo io ho insistito lungamente e ripetutamente: un messaggio di consolazione e le previsioni finali sono per davvero estremamente istruttive per il nostro contatto con il linguaggio apocalittico. Non è una prospettiva indolore quella che si viene illuminando dinanzi a noi; “messaggio di consolazione” non vuol dire garanzia di estraneità rispetto ai drammi della storia umana; vuol dire esattamente l’opposto: coinvolgimento pieno in tutto ciò che la storia degli uomini porta in sé come dramma che è conseguenza inevitabile del peccato che gli uomini hanno voluto contrapporre all’iniziativa di Dio; ma è esattamente questa avventura così drammatica fino alle estreme conseguenze che si configura come il travaglio redentivo, il passaggio attraverso il quale si compie un’opera di conciliazione secondo l’intenzione di Dio. E’ in atto un processo di conversione che orienta la storia dell’umanità fino a quella pienezza del disegno che nel segreto del Dio vivente già è compiuto. In Lui il disegno è già definitivo.
Ed ora Giovanni vede… Abbiamo letto nel cap. 21 la prima di queste tre visioni conclusive (dal v. 1 fino al v. 8) e vi dicevo che le altre due sono, in qualche modo, già anticipate all’interno della prima che assume un’intonazione più ampia, più complessa ma allo stesso tempo anche meno precisata, meno documentata, meno articolata.
La prima visione ci ha aiutato a contemplare la realtà di un mondo nuovo (“nuovi cieli e nuova terra”) ma – ripeto – già in quella prima visione Giovanni anticipava quel che meglio illustrerà nelle visioni seguenti. La seconda visione, ricordate, è quella della “città” che scende dall’alto come fidanzata pronta per incontrare lo sposo che è l’Agnello, Lui, immolato e vittorioso; l’Agnello trionfante.
L’albero della vita torna al centro e tutto è rigenerato
Questa terza visione riprende uno spunto che già era contenuto nella prima visione. Si tratta adesso della visione che ci aiuta a constatare come, nel contesto di un mondo nuovo. E’ rinnovata la vita e la visione che adesso leggiamo si collega strettamente con quella che precede perché siamo ancora alle prese con quella città che, adesso, assume in modo inconfondibile la fisionomia di quel giardino che costituisce uno degli elementi fondamentali di tutta la rivelazione biblica. Così come leggiamo nelle prime pagine del libro del Genesi: il giardino della vita; quello che noi chiamiamo il “Paradiso” (rifacendoci alla traduzione in greco che, appunto, suscita innumerevoli riscontri nel linguaggio della tradizione cristiana), è il giardino della vita. Già nella prima visione Giovanni accennava esattamente alla vita nuova di cui fanno esperienza coloro che sono chiamati a prendere dimora, a ritrovarsi nel contesto di quel mondo nuovo che oramai è abitato dal “Dio-con-noi”: è la prima visione.
Adesso, nella terza visione, l’attenzione si concentra proprio su questa immagine del giardino. Vediamo di procedere in modo sollecito ma cercando di cogliere, meglio che possiamo, i molteplici suggerimenti che la lettura di questi pochi versetti mette a nostra disposizione.
“Mi mostrò poi (il soggetto è sempre quell’angelo di cui si parlava nel v. 9 del capitolo precedente, quello stesso angelo che ha mostrato la fidanzata, la sposa dell’Agnello) un fiume d’acqua viva limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello”. Non c’è da dubitarne, vedete, qui abbiamo a che fare con una citazione di Genesi 2, v. 8, laddove la descrizione del giardino dell’antico autore accennava a un sistema idrico che garantiva la possibilità della vita nell’universo e tutto, secondo quell’antico racconto, quel che riguarda la possibilità della vita, che dipende dall’acqua, viene ricondotto alla presenza del giardino. In realtà il giardino è configurato esso stesso in quel racconto come il criterio, più che mai pertinente, per descrivere la realtà del mondo: il mondo è giardino. Non soltanto il giardino inteso come una porzione, un angolo, una fetta, una zona riservata, recintata, ma il giardino è il mondo intero in quanto irrigato dall’acqua.
Noi siamo qui senz’altro rinviati a quell’immagine che occupa una posizione così rilevante nell’antico racconto della creazione. Ci sono due racconti della creazione all’inizio del libro del Genesi; il secondo racconto è quello che leggiamo nel cap. 2. “Un fiume d’acqua viva limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello”. In quel racconto si parla di quattro fiumi (sono i quattro grandi fiumi conosciuti dagli antichi); qui si parla di uno perché è quadruplice, è molteplice, è questo fiume che porta l’acqua da cui dipende la vita, e tutto nell’universo è ricomposto in obbedienza a quella che è stata l’intenzione originaria di Dio che ha creato per la vita; creature viventi di vario ordine fino a quella creatura vivente che è chiamata a vivere nella comunione con il Dio vivente: la creatura umana.
“Un fiume d’acqua viva… scaturiva” dal giardino e scaturiva“dal trono di Dio e dell’Agnello” perché il Dio vivente abita là. Nel v. 2, veniamo a sapere che ci troviamo in mezzo alla piazza di quella città: “In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’altra del fiume si trova un albero di vita”. Ricordate che nell’antico racconto l’albero sta in mezzo al giardino; è l’albero della vita. Qui sta in mezzo alla piazza della città. Vedete come le immagini si sovrappongono. Siamo in mezzo alla piazza della città, là dove passa il fiume. L’immagine qui diventa un poco sorprendente, sconcertante, addirittura paradossale perché da “una parte e dall’altra del fiume si trova un albero di vita”.
Vedete, qui non è un albero che sorge sulla sponda del fiume, ma è il fiume che passa sotto l’albero come se quest’albero potesse divaricarsi in modo tale da diventare una pianta immensa appoggiata su entrambe le sponde del fiume che gli passa sotto; non è un albero che cresce sulla sponda, ma da “una parte e dall’altra del fiume si trova un albero di vita”. E’ lo stesso albero della vita che sta di qua e di là e l’acqua gli scorre sotto, gli scorre dentro; è una corrente di vita che non passa accanto, non segue un percorso suo in maniera autonoma, con obiettivi particolari, ma è l’albero della vita che è impregnato dell’acqua che gli scorre sotto, che gli scorre dentro. L’albero della vita occupa la piazza della città, nel centro; in qualche modo, vedete, è tutta la piazza, è tutta la città; ma è il mondo nuovo dove tutto è ricomposto in modo tale che la corrente della vita possa esprimersi così come dall’inizio il Creatore aveva progettato.
Badate bene che qui ci sono richiami ad altre pagine dell’Antico Testamento – è abbastanza ovvio – e l’acqua è una delle creature che ritornano frequentemente in tanti, tanti testi antico e neo-testamentari; ma più in particolare si tratterebbe di fare riferimento ad alcune pagine che leggiamo nel libro di Ezechiele. C’è un testo molto famoso a questo riguardo, nel cap. 47 di Ezechiele, laddove per l’appunto il profeta vede come dalla parete meridionale del tempio scende un corso d’acqua che non viene esaurendosi man mano che si allontana nello spazio, ma cresce di potenza: non è un’acqua che si consuma questa. E’ un’acqua che è in grado di esprimere una capacità di fecondazione vitale sempre più abbondante fino a diventare un mare di acqua dolce, là dove nella direzione intravista dal profeta Ezechiele c’è il Mare Morto, stando alla geografia della terra di Israele.
Fatto sta che qui noi sullo sfondo ritroviamo la predicazione di Ezechiele e tanti altri spunti, compreso un accenno, adesso nel v. 2, alle singolari prerogative che competono a questo albero che produce frutti abbondantissimi con una continuità inesauribile e che è dotato di una sua straordinaria capacità terapeutica. Rileggo: “In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’altra del fiume si trova un albero di vita che dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese (vedete: dodici raccolti, ogni mese nel senso che è sempre in produzione, sistematicamente, continuamente, inesauribilmente); le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni”. Anche le foglie sono dotate di un valore eccezionale perché hanno un’efficacia terapeutica: sono terapia (dice alla lettera, qui, in greco) per le nazioni.
Torno ancora una volta indietro a quel secondo racconto della creazione nel cap. 2 (che si prolunga nel cap. 3), che è il racconto del peccato. Nel giardino, ricordate, il peccato ha a che fare con l’uso dei frutti prodotti dagli alberi, con l’alimentazione. Ebbene, val la pena di richiamare qualche dettaglio su cui poi non insisto. L’albero della vita è nel centro del giardino, ma il Signore Dio dice all’uomo: guarda che c’è l’albero della conoscenza del bene e del male, che non sta nel centro del giardino; esso produce frutti di cui è bene che tu non ti cibi, non ti riguardano; c’è un limite perché laddove tu sei chiamato a entrare in relazione di vita, in comunione di vita con Me, Creatore, tu non sei Dio, non sei Creatore, tu sei creatura.
Ricordate che quando, nel cap. 3, leggiamo il racconto della tentazione l’angelo dice: vedi – si rivolge alla donna – che Dio ti ha proibito di mangiare dei frutti che sono prodotti dall’albero che sta nel centro del giardino. Ma nel centro del giardino ci sta l’albero della vita e Dio non ha mai proibito di mangiare i frutti dell’albero che sta nel centro del giardino. Anzi, l’angelo dice: Dio ti ha proibito di mangiare i frutti di tutti gli alberi; la donna dice: no, ci ha proibito soltanto di mangiare i frutti dell’albero che sta nel centro del giardino.
Vedete che questo suo modo di rispondere, di reagire, in realtà comporta già uno scombussolamento per quanto riguarda l’ordine del quadro all’interno del quale Dio ha collocato le sue creature, perché nel centro del giardino non c’è l’albero della conoscenza del bene e del male ma c’è l’albero della vita. E vedete che nel modo di rispondere al serpente la donna già mette al centro del giardino il dato oggettivo di quel limite che riguarda lei e riguarda ogni altra creatura umana. Ed è esattamente già in questo spostamento del centro che noi riscontriamo ormai un principio di deviazione, di corruzione, di quello che sarà poi il tracollo successivo perché al centro non c’è più l’albero della vita; al centro c’è il fastidio di non essere Dio. E’ diventato il centro, mentre nel centro del giardino c’è l’albero della vita. Vedete che, perso il centro, è perso il giardino ed è persa la vita.
Giovanni ci tiene a precisare che siamo nel centro della piazza perché abbiamo a che fare non con un altro albero, con un riferimento che, in un modo o nell’altro, stia lì a dimostrare come noi siamo limitati, siamo insufficienti, siamo creature, siamo bisognosi di questo e di quell’altro, che è esattamente il discorso con cui la donna vorrebbe reagire al serpente. In realtà già lei stessa è intrappolata in quella contraddizione interiore per cui ha messo al centro l’albero della conoscenza del bene e del male e non più l’albero della vita che invece Dio ha collocato là dove il giardino è stato preparato appositamente per quella pienezza di comunione che Dio vuole condividere con la creatura umana; per quella pienezza di vita che costituisce la vocazione stessa da Lui donata agli uomini.
Ed ecco che qui la centralità dell’albero rispunta, e rispunta in mezzo alla piazza, in mezzo alla storia, in mezzo a quella che è l’esperienza della vita umana così come si trascina derelitta, randagia, esule stando a quella che è la condizione di fatto con cui ogni generazione e ognuno di noi deve fare i conti. Ebbene, dal centro rispunta; centro non in senso geometrico, ma nel senso che adesso la piazza, la storia, la nostra vita umana ritrova il centro in modo corrispondente al disegno originario di Dio perché lì ecco l’albero della vita, il crocefisso, sorgente di vita. Il crocefisso signore della vita, maestro della vita. Quale che sia la periferia di questo mondo in cui ormai la nostra esistenza umana può trascinarsi, quale che sia il momento tragico della storia umana in cui noi restiamo oggettivamente, fisicamente, proprio tecnicamente intrappolati, quale che sia l’angoscia che ancora ci imbriglia nei movimenti interiori dell’animo umano… il crocefisso: è lì la centralità, quella centralità ritrovata che ci riconduce alla pienezza della vita, ci restaura, in relazione alla nostra vocazione alla vita, così che ormai tutto è veramente rinnovato. E là dove, stando all’apparenza immediata, esteriore del nostro vissuto, della nostra storia, della nostra città, abbiamo a che fare con esperienze di squallore inenarrabile, ecco che spunta il crocefisso, spunta l’albero della vita, è il centro, ed è il centro nel senso che c’è una pienezza di vita che oramai è messa a disposizione sempre e dappertutto di ogni creatura umana quale che sia il contesto in cui si viene consumando la sua esistenza.
Notate bene: di questo può parlarci Giovanni a partire dalla fine; la vita nuova. E allora vedete qui, subito, di seguito i vv. 3-5. Dinanzi a noi è l’immagine oramai emergente, determinante, inconfondibile del crocefisso che è sorgente della vita, una rivelazione di amore che è portatore in sé di una fecondità universale, per la vita di tutti gli uomini. Qui sono sintetizzate quelle immagini a cui siamo più o meno abituati in quanto abbiamo recepito la voce di antichi profeti. Pensate a Isaia che canta le prerogative del servo: “dalle sue piaghe siamo stati guariti”, “ecco la medicina”; ricordate “il trafitto”, di cui si parla nel libro di Zaccaria, che è esattamente il garante di quella terapia che risana dall’interno la nostra vita malata, piagata, prigioniera di tutte le conseguenze del peccato che vanno verso la morte e risucchiata in un vortice – Giovanni ne parla nel v. 3 – di “maledizioni”, un vortice di vergogne là dove quelle che dovevano essere le nostre relazioni vitali e là dove la nostra vita doveva esprimersi, espandersi, crescere fino alla pienezza della comunione con il Dio vivente, noi invece siamo bloccati, intrappolati, mortificati, costretti a sperimentare la malattia e l’infamia di una vita maledetta. E maledetta non perché qualcuno abbia voluto punirci, ma perché viene meno la centralità dell’albero; non c’è più il giardino, ma non c’è più la vita, non c’è più la benedizione; c’è la maledizione. La nostra vita diventa un percorso lungo il quale ci trasciniamo urtando contro ostacoli che ci rimandano costantemente al nostro fallimento, alla nostra incapacità di vivere, alla nostra angoscia di creature che non sanno vivere.
Ebbene, vedete, adesso: “non vi sarà più maledizione”, dice il v. 3, perché nel giardino della vita laddove l’albero sta nel centro, quello che in noi era esperienza di fatica, di delusione, di amarezza, di sconfitta, di morte, tutto quel che in noi era motivo per rimanere prigionieri di una maledizione dolorosissima, tutto è rigenerato dall’interno, tutto rivive dalla radice, dalle fondamenta. Abbiamo ritrovato il centro e anche la nostra vergogna, la nostra fatica, la nostra solitudine, i nostri affanni, le nostre angosce, le nostre malattie, tutto di noi è ricapitolato in obbedienza alla vita: non c’è “più maledizione”.
Vedete come tutto ritorna a confermare il valore di quella vocazione alla vita che Dio ci ha donato fin dall’inizio; ci ha creati per la benedizione, non c’è più “la maledizione”, ma tutto viene ricomposto in modo tale che la benedizione originaria circoli fra di noi. Così è veramente ricapitolato tutto e lo possiamo comprendere soltanto in relazione al crocefisso sorgente della vita. Ecco come tutto quello che in noi è esperienza di maledizione acquista il valore intrinseco di una conferma che ci riporta alla originaria benedizione che Dio ha voluto donare a noi, creature umane, chiamate alla pienezza della vita. E’ il Mistero Pasquale. In realtà sappiamo bene fin dall’inizio che non c’è mai niente di nuovo, ma con una chiarezza sempre più travolgente ci riporta sempre allo snodo decisivo. D’altronde tutto avviene mentre Giovanni, nel giorno di domenica, partecipa alla celebrazione dell’eucaristia, il Mistero Pasquale; ma il Mistero Pasquale non considerato come un dato dottrinario o una teoria da collocare in qualche libro per esperti di teologia: è la vita nuova, è la vita pasquale, è la vita che è in grado di assorbire in sé i dati della maledizione e accogliere l’inesauribile potenza di quella corrente d’amore che è terapia per rieducarci alla vita.
“E non vi sarà più maledizione. Il trono di Dio e dell’Agnello sarà in mezzo a lei (è la piazza della città, il giardino) e i suoi servi lo adoreranno”. Non traducete così, ma “i suoi servi gli renderanno culto” nel senso di un servizio e nel senso che tutto, ormai, diviene un modo positivo per consentire agli uomini di presentarsi a Lui, consentire a noi di offrire a Lui come servizio quello che in noi è la conseguenza maledetta di quel fallimento.
Ricordate nel cap. 3 del Genesi, alla donna: “tu partorirai nel dolore”; all’uomo: “tu lavorerai con il sudore della fronte”. Tutto quello che nell’esperienza degli uomini è sudore versato tra le pietre, brancolamento tra le spine, trascinamento di desideri, di progetti che rimangono impossibili, inconcludenti se non addirittura devastanti, pericolosi, motivo di disordine che moltiplica le tribolazioni di tutti; le doglie della donna che partorisce… “non vi sarà più maledizione”, nel senso che la grande fatica di vivere è tutta impregnata di questa novità per cui tutto diventa “servizio”; tutto, vedete, viene registrato nella prospettiva di quel regime di benedizione che era stato progettato fin dall’inizio. E’ ancora una volta un modo per ricapitolare il senso di tutta la storia umana che si attua come offerta di un servizio gradito a Dio; quello che in noi era il carico dei nostri dolori e delle nostre vergogne diventa esattamente il contenuto di quella offerta che finalmente può essere presentata per il servizio di Dio.
“I suoi servi allora gli presteranno servizio, gli renderanno culto, vedranno la sua faccia (è una citazione del Salmo 17); pochissime parole che richiamano anche più direttamente alcuni personaggi; pensate a Giacobbe (cap. 32 del Genesi), a Mosè (Esodo cap. 3, e poi nel cap. 34): “vedranno il suo volto”. Nel linguaggio antico-testamentario questa visione del “volto” coincide con la possibilità di presentarsi a Lui, di comparire davanti a Lui, l’Invisibile, il Santo. Come ritrovare il contatto con il Santo, che è il Vivente, e come ritrovare un percorso che consenta, per uomini come noi così disastrati e compromessi, di ritrovare una comunicazione con il Dio vivente da cui poi riceviamo la benedizione di cui abbiamo bisogno per vivere? “Vedere il Suo volto”.
E adesso, vedete “vedranno il Suo volto e porteranno il suo nome sulla fronte”. Anche questo è un accenno che, in modo così stringato, ricapitola tutto il percorso della storia della salvezza fino a quel momento in cui, nel Vangelo secondo Luca, ricordate, c’è un personaggio che chiama il Signore per nome e gli dice: “Gesù ricordati di me nel tuo regno” (quello dei due ladroni che, in questa circostanza, diventa il “buon” ladrone). Lo chiama per nome “Gesù ricordati di me”. Ricordate la risposta: “Oggi con me in Paradiso”, oggi con me nel giardino della vita perché oggi tu mi chiami per nome”; e chiamar per nome Lui significa essere ormai coinvolti in una relazione di intimità, di amicizia, di parentela, di consanguineità: Gesù. Questo è il motivo per cui, successivamente alla Pasqua del Signore, negli Atti degli Apostoli, tutto avviene nel nome di Gesù, in quanto siamo in grado di chiamarLo per nome e di guardarLo in faccia.
Ricordate che anche Caino porta sulla fronte un tatuaggio, un segno e qui c’è un accenno al nome tatuato sulla fronte, non soltanto il nome ma c’è un accenno anche a un “segno”. Caino già fin dall’inizio è stato dotato di questo segno: “Guai a chi tocca Caino” (Gen. 4, 15).
V. 5: “Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illumineràe regneranno nei secoli dei secoli”. E ancora una volta questo versetto conferma quel che Giovanni ci sta illustrando: nella tristezza della nostra condizione umana ormai scintilla, anzi sprizza, scoppia la gioia della nostra vita nuova, come essa appare a partire dalla fine; ma è la vita nuova di cui già è dotata la nostra misera condizione umana. E vedete come, a partire dalla fine, il messaggio di consolazione arriva fino a noi e ci raggiunge nella nostra condizione umana così miserabile, così triste, così dolente. E, d’altra parte, proprio nel confronto faccia a faccia con il crocefisso, nella possibilità di chiamarLo per nome, c’è la scoperta di quale solidarietà ormai ci lega a Lui: un vincolo di amicizia indissolubile. E’ proprio nella relazione con Lui questa novità imprevedibile, e per noi travolgente, per cui il dolore, nella sua innocenza, diventa medicina che guarisce il nostro dolore di creature che portano un’eredità di colpa; fra il dolore dell’innocente e il dolore dei colpevoli.
Primo epilogo: Gesù vuole il nostro AMEN
Dal v: 6 gli epiloghi. Uso il plurale perché possiamo individuare almeno due epiloghi. Il primo va dal v. 6 al v. 15; il secondo, dal v. 16 in poi. “Poi mi disse: «Queste parole sono certe e veraci. Il Signore, il Dio che ispira i profeti, ha mandato il suo angelo per mostrare ai suoi servi ciò che deve accadere tra breve”. Dunque conosciamo questa espressione come tipica del linguaggio apocalittico che, per l’appunto, ci aiuta a dir le cose come io ho tentato di proporle a voi fin dall’inizio: si tratta di vedere la storia dalla fine, ossia dalla parte di Dio.
“Ciò che deve accadere tra breve” è un’espressione che leggiamo nel libro di Daniele; l’abbiamo incontrata nei primissimi versetti dell’Apocalisse e la ritroviamo qui; ma vi ho incoraggiato a intendere questa espressione nel senso che sappiamo. Adesso il messaggio è completo, ed è indirizzato a un popolo di profeti o di servi con la mediazione di un angelo. In questo caso, poi, è direttamente interpellato Giovanni perché svolga anch’egli una funzione profetica a motivo di edificazione per il popolo cristiano e quindi, in prospettiva, per tutta l’umanità. Questa testimonianza profetica per la quale Giovanni è stato convocato si svilupperà nella forma di un libro.
“Poi mi disse: «Queste parole sono certe e veraci. Il Signore, il Dio che ispira i profeti, ha mandato il suo angelo per mostrare ai suoi servi ciò che deve accadere tra breve. Ecco, io verrò presto”. Irrompe una voce, in prima persona singolare; è la voce di Colui che viene; è, esattamente, la voce dell’Agnello immolato e vittorioso; è la voce del Signore Gesù che noi chiamiamo per nome. “Ecco, io verrò presto. Beato chi custodisce le parole profetiche di questo libro”. Dunque beatitudine; messaggio di consolazione per chi, attraverso questo libro, sarà aiutato a trovare conferma circa l’appartenenza al disegno redentivo di cui “Io sono protagonista”; lo afferma Lui stesso, in prima persona singolare. Questa beatitudine è per noi.
E adesso interviene direttamente il nostro Giovanni, vv. 8-10: “Sono io, Giovanni, che ho visto e udito queste cose. Udite e vedute che le ebbi, mi prostrai in adorazione ai piedi dell’angelo che me le aveva mostrate. Ma egli mi disse: «Guardati dal farlo! Io sono un servo di Dio come te e i tuoi fratelli, i profeti, e come coloro che custodiscono le parole di questo libro. E’ Dio che devi adorare. Poi aggiunse: «Non mettere sotto sigillo le parole profetiche di questo libro, perché il tempo è vicino»”. Giovanni si presenta – come all’inizio, nel cap. 1 – direttamente. Leggevamo nel cap. 1 di quello che gli è capitato nel tempo della persecuzione quando, esule a Patmos e nel giorno del Signore, la domenica, partecipa alla celebrazione dell’Eucaristia. Adesso il libro si conclude rimandandoci a quel contesto liturgico nel quale Giovanni “ha visto” come, nel Mistero del Signore Gesù che è morto ed è risorto, Dio ha realizzato quell’opera di salvezza che con potenza di Spirito Santo aveva inaugurato fin dall’inizio della creazione.
E Giovanni è sollecitamente soccorso dall’angelo a non comportarsi in modo scorretto perché l’adorazione spetta a Dio e soltanto a Lui e vedete qui come l’angelo, rivolgendosi a Giovanni, dice di sé: “Io sono un servo di Dio come te e i tuoi fratelli”. E’ importante questo accenno alle relazioni fraterne. “I profeti”: abbiamo avuto a che fare a più riprese con accenni del genere. C’è una testimonianza profetica che conduce fino al martirio: è la testimonianza nel senso forte, nel senso più preciso del termine: martyria, martirio. Dunque, i tuoi fratelli profeti e il libro che adesso Giovanni ha scritto stanno in continuità con la missione profetica a lui assegnata che, a sua volta, sta in comunione con quella di innumerevoli fratelli che hanno esercitato e stanno esercitando una testimonianza profetica fino al martirio.
“Il perverso continui pure a essere perverso, l’impuro continui ad essere impuro e il giusto continui a praticare la giustizia e il santo si santifichi ancora”. Qui lo sguardo è rivolto a quella che è la realtà del mondo, la realtà di una generazione, della nostra generazione nel momento in cui riceviamo anche noi il messaggio attraverso il libro che leggiamo.
Vv. 12-13: “Ecco, io verrò presto”, è la voce del protagonista che, ancora una volta ritorna in prima persona singolare. “Ecco, io verrò presto e porterò con me il mio salario, per rendere a ciascuno secondo le sue opere”. E di nuovo una beatitudine, nel v. 14: “Beati coloro che lavano le loro vesti”. Questa beatitudine riguarda più precisamente la condizione battesimale di coloro che sono ormai consapevolmente inseriti nell’opera redentiva di Cristo: “lavano le loro vesti” nel sangue dell’Agnello: i beati. E’ la settima. Potremmo tornare indietro nella lettura del libro dell’Apocalisse e rintracciare le sette beatitudini. Questa è l’ultima; e qui è direttamente interpellata la nostra vita battesimale.
“Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte nella città”. Le immagini si ricompongono, si sovrappongono e si identificano: avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte della città; nel centro della storia.
“Fuori i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omicidi, gli idolàtri e chiunque ama e pratica la menzogna!”. Non c’è più spazio per l’idolatria; è l’Evangelo che opera efficacemente determinando questo filtraggio, per cui tutte le menzogne idolatriche sono progressivamente drenate, espulse, cancellate. Badate bene che l’accenno ai cani, qui nel v. 15, probabilmente interpella qualcuno che ufficialmente ha l’identità di cristiano ma in realtà è preda della menzogna: ci sono falsi cristiani? Ci sono pagani nascosti? Ci sono dei cani in noi.
Secondo epilogo: MARANÁ THA
Vv. 16-21: “Io Gesù ho mandato il mio angelo per testimoniare a voi queste cose riguardo alle Chiese. Io sono la radice della stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino”. E’ Lui che, attraverso la missione affidata alle Chiese, chiama gli uomini a vivere nella prospettiva di quella vittoria che compete a Lui che è morto, risorto; “ho mandato il mio angelo” a questo scopo. E si presenta dicendo di sé che in Lui si sono compiute le promesse messianiche: “Io sono la radice della stirpe di Davide (Is. Cap. 11 e altri testi ancora), la stella radiosa del mattino”. Non soltanto Colui che porta a compimento le promesse antiche, ma Colui che porta in sé l’annuncio di un giorno nuovo. C’è da rileggere il libro dei Numeri, cap. 24 e altri testi ancora.
V. 17: “Lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni!».” Ci ritroviamo in un contesto liturgico così come tutto nel nostro libro si è inserito fin dall’inizio nell’ambito di una celebrazione eucaristica; siamo nel contesto di un dialogo di Dio. La sposa è la comunità cristiana, è il popolo assetato che arranca con tanti motivi di incertezza e di affaticamento: “E chi ascolta ripeta: «Vieni!». Chi ha sete venga; chi vuole attinga gratuitamente l’acqua della vita”. Questo è il popolo assetato ma è il popolo ristorato, vivificato nel contatto con Gesù; e la comunità cristiana è in ascolto, è rivolta verso la Parola che proviene dalla bocca del suo unico Signore ed è lo Spirito che soffia, sostiene, rende coerente l’invocazione “Vieni!”.
E adesso, dopo l’invito che leggiamo nel v. 17, un avvertimento, vv. 18 e 19: “Dichiaro a chiunque ascolta le parole profetiche di questo libro: a chi vi aggiungerà qualche cosa, Dio gli farà cadere addosso i flagelli descritti in questo libro; e chi toglierà qualche parola di questo libro profetico, Dio lo priverà dell’albero della vita e della città santa, descritti in questo libro”. Un avvertimento solenne, conclusivo: capiamo che qui si tratta di una questione di vita o di morte.
“Colui che attesta queste cose dice: « Sì, verrò presto!». Amen”. Ecco: Amen. E’ una risposta liturgica: SÌ, “vieni, Signore Gesù”. Guardate bene come questa invocazione nel primo periodo della storia dell’evangelizzazione è stata così significativa da ricapitolare in qualche modo l’identità stessa di una comunità di discepoli, della vita cristiana, della visione della Chiesa. “Vieni, Signore Gesù (Maranà tha). La grazia del Signore Gesù sia con tutti voi. Amen!”.
Io sono un analfabeta con la V elementare. Quindi ne teologo e n’e biblico,ma un povero vecchio di 92 anni per (grazia), credente, che oltre ha essere innamorato del nostro Dio uno Trino, ilcerca di camminare dietro le orme di san Francesco, il Cristo Redivivo. Con la Consapevolezza, che san Francesco ha il dono delle Stimmate di Gesù. E io ho molte cicatrici, causate dalle mie ripetute cadute. Misericordia. PeB ❤️ pTs.
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Grazie per questa bella testimonianza che tocca il mio cuore di credente.
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