Chiamate in attesa (5)
di Tolentino Mendonça
Usciamo di casa e rincasiamo molte volte. Un andare e venire della quotidianità divenuto così abituale che, la maggior parte delle volte, neppure vi facciamo caso. Uscire di casa non è proprio uscire. E lo stesso possiamo dire dei nostri ritorni vespertini. Viviamo mentalmente la vita come un continuum, e in questo troviamo il conforto di pensare che noi siamo gli stessi negli stessi luoghi, e che, in fondo, gli esodi domestici della nostra giornaliera circumnavigazione, turbolenta o pacifica che sia, non ci modificano, né modificano il mondo che costruiamo.
Il pericolo che questo pensiero cela è quell’automatismo sonnambulo in cui la routine ci immerge per lungo tempo. Tutto rimane fissato in un ordine così prevedibile che in pratica esso ci esime da un vedere che sia vedere, da un ascoltare che sia vero ascoltare, e così via.
Quando però, rientrando dalle ferie o da un soggiorno da qualche parte, riapriamo la porta di casa, è come se questo mondo, così intimo al punto di confondersi con noi stessi, riguadagnasse, grazie alla distanza, una visibilità che ci sorprende. Sono frazioni di secondo, ma che contengono il tempo di una domanda che fa capolino chissà da dove e che ci fa dire: «io sono qui?», «è questa la casa?», «questo strano luogo è la mia casa?». Ma, subito, la necessità di posare i bagagli, di aprire le valigie e metterne in ordine il contenuto allontana lo shock di questa esitazione, che si dissolve con gli odori, i rumori e i legami degli oggetti che ci stringono dolcemente a loro, quasi a consolarci di avere sperimentato, per una durata infinitesimale, l’irrisolvibile dramma comune a ogni figlio dell’uomo: non avere dove posare il capo.
Una casa non è quindi solo il luogo in cui nascondiamo o mascheriamo lo spaesamento dell’esistere: è anche l’arena su cui lottiamo con esso; è il palco su cui maggiormente ci esponiamo al suo sguardo; è il laboratorio in cui lo investighiamo, ingrandendolo, osservandolo nei dettagli, cercando di comprenderne la complessa morfologia; ed è la tavola alla quale impariamo, da soli o in compagnia, ad alimentarcene.
Lo scrittore John Burroughs, che appartiene alla stirpe dei grandi maestri rurali nordamericani, nel solco di Henry D. Thoreau e di Ralph W. Emerson, si rifiutava di applicare la parola “architettura” all’edificio in cui si vive. «Nel preciso momento in cui un essere umano comincia a pensare la propria casa architettonicamente, proprio con questo egli rattrista e fa piangere le divinità più sensibili», poté scrivere colui che con grande orgoglio si era costruito con le proprie mani la sua casa in riva al fiume Hudson. Quel che deve guidare la costruzione delle nostre case, dice ancora Burroughs, è «l’istinto domestico», che può essere definito come istinto di sopravvivenza; desiderio di relazione; necessità di un riparo; come amore per un posto nel mondo che ci appartenga, per quanto minimo; come l’affondare le proprie radici nel silenzio, nell’ospitalità, nella parola e nello scambio.
In casa nasciamo e cresciamo, lungo le diverse stagioni che plasmano i giorni; mangiamo e dormiamo; viviamo l’armonia e gli interrogativi; ereditiamo e reinventiamo senza pretese le abitudini; conviviamo con gli oggetti e con le espressioni del visibile finché non diventano emissari o sentinelle di qualcos’altro; ci sentiamo condotti, dall’assenza o dalla presenza più ardente, a stirare, a piegare… fino al sigillo, al segreto, al mistero. Per questo, certi rientri a casa li avvertiamo come un inspiegabile ritorno a noi stessi.
Sono forse insignificanti le cose al centro di questa chiacchierata? Mi viene in mente la raccomandazione che il poeta Rainer Maria Rilke affida alle Elegie duinesi: «Loda all’Angelo il mondo, non quello indicibile, con lui/ non puoi sfoggiare splendore di sentimento;/ […] E allora mostragli/ quello che è semplice, quel che, plasmato di padre in figlio,/ vive, cosa nostra, alla mano e sotto gli occhi nostri».
Avvenire 01/10/2015
La Casa nunca estará acabada,…,cada día debemos llevarla a más perfección, y para el bien de todos.
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