XXV Settimana del Tempo Ordinario (anno pari)
Testo word Libro dei Proverbi – Ravasi (3)
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LIBRO DEI PROVERBI (3)
Gianfranco Ravasi
Sapienza e stupidità si confrontano
«Donna irrequieta è follia»
1. CONSIDERAZIONI INIZIALI
Prima di iniziare i terzo ed ultimo nostro percorso all’interno del libro dei Proverbi, vorrei fare alcune considerazioni preliminari che ci aiutino ad introdurci lentamente in un tema molto spinoso e delicato, come annuncia il titolo stesso, e sottolineare ancora una volta quel colore — un color seppia — che attraversa qua e là la collezione dei Proverbi e, sistematicamente, i proverbi in generale di tutti i tempi. Sono piccole cattiverie che hanno però un fondo di verità; sono espressioni di sarcasmo, di ironia, qualche volta anche di superficialità, sempre permeate di realtà. Pensiamo, ad esempio, a frasi simili a questa, tratta dalla cultura inglese: «La conversazione languiva, come spesso accade quando si parla bene del prossimo».
Il grande Bernanos, uomo abbastanza provocatorio pur nella sua solidità religiosa, amava moltissimo il tocco dell’ironia. Di fronte ad un avversario abbastanza feroce disse: «Nell’aldilà, lei ed io avremo indirizzi diversi».
Questa caratteristica di coniare giochi di parole o motti di spirito provocatori ed intinti appunto un po’ nel nero appartiene proprio al sottofondo costante della letteratura proverbiale.
La prima ragione di questo fatto è legata ad un tema di grande importanza che ci fa quasi da guida, orientando tutta la collezione dei Proverbi e un po’ tutta la sapienza tradizionale, soprattutto quella ortodossa e tradizionale. Si tratta della cosiddetta «legge della retribuzione» o «legge della nemesi immanente». Secondo questa norma, delitto e castigo sono sempre insieme, così come giustizia e premio. È una visione molto ottimistica; è il desiderio di ordinare questo mondo in cui, purtroppo, non vediamo tanto facilmente i delitto castigato e la giustizia premiata. Ecco allora uno sforzo quasi utopico o didascalico di vederlo e di affermano, quasi al di là della realtà stessa. Si costruiscono così molti proverbi in cui si cerca di condannare i male e di vederlo quasi afflosciare, dissolversi sotto l’incombere di Dio stesso. Alcune volte si preferisce addirittura ricorrere al principio della nemesi immanente, ritrovando all’interno del male già la punizione.
Facciamo un esempio curioso, in quanto lo si ritrova in tre versioni diverse di altrettanti autori:
«Chi scava una fossa vi cadrà dentro
e chi rotola una pietra, gli ricadrà addosso». (Pr 26, 27)
«Chi scava una fossa ci casca dentro
e chi disfà un muro è morso da una serpe
Chi spacca le pietre si fa male
E chi taglia la legna corre pericolo (Qo 10,8-9)
In un testo egizio arcaico, precedente sia ai Proverbi che a Qohèlet, troviamo invece:
«Chi rimuove una pietra, gli ricadrà sul piede».
Notiamo perciò la costanza dell’immagine per esprimere una convinzione ottimistica: il male noi possiamo irriderlo, anche se sembra qualche volta dirompente e trionfante, perché è destinato ad essere schiacciato dalla legge cosmica, storica della retribuzione.
Qohelet e Giobbe reagiranno proprio a questa legge della retribuzione, perché guardando l’orizzonte si accorgeranno che molto spesso il delitto è premiato e la giustizia viene misteriosamente castigata.
La seconda considerazione si riferisce a un certo gusto radicale che nasce da una lettura del reale continuamente in bianco e nero, per contrasti. Tanto è vero che gli studiosi hanno ormai fatto delle vere e proprie codificazioni dei Proverbi sulla base di raccolte antitetiche.
Ci sono, per esempio, dei proverbi destinati al giusto, a cui se ne contrappongono subito altri relativi all’empio. Si parla del sapiente e dello stolto, dell’attivo e dell’ozioso, di chi ama Dio e di coloro che lo odiano.
Solitamente i proverbi più vivaci prendono in giro i vizi e i difetti delle persone: l’ingiusto, il disonesto, lo stupido, il folle, l’ignorante, il pigro; sono senz’altro delle macchiette che si possono colorare con maggiore vivacità.
C’è infine una terza ed ultima considerazione: la letteratura proverbiale ama l’intelligenza. Essa infatti è, come è stato detto, in un certo senso «razionalista», perché ama un’intelligenza sfrangiata, che accoglie un ventaglio di tonalità, di colori, di forme. Si tratta di un’intelligenza pratica, attiva, concreta, creatrice, ma anche, al tempo stesso, fantasiosa, rasentando persino la furbizia e l’astuzia.
Nel libro dei Proverbi troviamo quindi una grande stima per l’uomo intelligente. La persona sapiente è chi può fare bonaria ironia, giudicando, con sano distacco, senza essere giudice implacabile. L’ironia autentica è infatti una pennellata. Solo quando diventa sarcasmo pesante non è indizio di intelligenza. Per questo motivo non esito ad affermare che i libro dei Proverbi è un testo moderno.
Esso sottolinea inoltre, continuamente, come l’intelligenza che costituisce la grandezza dell’uomo, sia una cosa fragilissima, in quanto basta solamente un soffio per passare dal versante della sapienza a quello della stupidità.
Il noto teologo Emi Brunner scrisse nel 1947 un’opera intitolata L’uomo in rivolta, esprimendo questa tesi serpeggiante nel libro dei Proverbi con una frase impressionante ma vera : «L’uomo è un essere spirituale che sogna l’eternità e crea opere eterne, ma basta la perdita della piccola ghiandola della tiroide per trasformarlo in un ebete».
Dobbiamo però anche dire che il mistero dell’intelligenza non sarà mai sondato abbastanza, anche in questi tempi in cui si è tentato invece di celebrare sempre di più forme che non appartengono al sapere dell’uomo.
Anche per la religione occorre tornare allo splendore della luce della ragione, che è uno degli strumenti privilegiati per conoscere Dio.
Dicono gli scienziati che la corteccia cerebrale di una persona si compone di dieci miliardi di cellule e di un milione di miliardi di connessioni. Contando le connessioni al ritmo di una al secondo, ci vorrebbero trentadue milioni di anni. Inoltre, la somma di tutti i modi possibili di interazione tra i neuroni supererebbe di diversi ordini di grandezza quella degli atomi, che si trovano nel mondo. E cervello, quindi, esaminato anche in questa prospettiva «materialistica» si rivela come una realtà talmente superiore da costringere ad una celebrazione della grandezza dell’intelligenza e della sapienza, così come viene fatta dalla letteratura sapienziale.
Un Salmo sapienziale, il 139, dice: «Ti ringrazio, Signore, perché mi hai fatto una meraviglia».
Entriamo ora in un elemento delicato: la tipizzazione negativa femminile. Esaminando i testi, si vedrà che questa tipizzazione non è così drammatica, perché la tipizzazione femminile della stoltezza (kesilut) ha, come parallelo perfetto, la tipizzazione femminile della sapienza (in ebraico il femminile hokmah).
Inizialmente queste rappresentazioni femminili hanno delle ragioni puramente grammaticali. In quest’ottica si potrebbe dire che le lodi rivolte alla donna, non si riferiscono tanto a lei, quanto alla sapienza. Analogamente tutte le volte che si attacca la donna stupida, in realtà si vuole colpire la kesilut, la stoltezza.
Bisogna comunque prendere atto che la componente negativa è certamente superiore. La lotta contro la stupidità, vista come femmina, è un dato che attraversa tutti i secoli e ad un certo momento ci si dimentica che si sta condannando la stupidità, e ci si ferma a biasimare la donna.
Le ragioni sono archetipiche e nascono dalla paura nei confronti della donna. Da qui nasce l’idea della donna tentatrice: Adamo ed Eva, Giuseppe e Potifar, Sansone e Dalila, per restare in ambito biblico. Esiste una misoginia che trae origine da motivazioni studiate dalla psicanalisi e dall’antropologia culturale; si tratta di un fenomeno sedimentato a livello popolare e intellettuale.
Oscar Wilde diceva: «Dio creò la donna per ultima perché non voleva consigli mentre creava l’universo». E ancora: «La detesto, dice la donna di un’altra donna, come se fossimo amiche intime». Sempre Oscar Wilde: «È superfluo vendicarsi di una donna, ci pensa già il tempo».
Tornando indietro nel tempo, sentiamo nella canzone del duca, nel Rigoletto di Verdi: «La donna è mobile, qual piuma al vento, muta d’accento e di pensier». Una rappresentazione dell’assoluta insicurezza: la donna non è stabile, bensì sabbia sulla quale non si può costruire nulla. Nel canto XIV della Gerusalemme liberata del Tasso c’è un’altra dimensione: la donna appare come spumeggiante creatura, quasi come un animale grazioso: «Femmina è cosa garrula e fallace, vuole e disvuole e fonde l’uomo che s’en fida».
Nel libro del Qohèlet troviamo descrizioni simili, se non peggiori.
«Trovo che amara più della morte è la donna, la quale è tutta lacci:
una rete il suo cuore, catene le sue braccia.
Chi è gradito a Dio la sfugge ma il peccatore ne resta preso.
Vedi io ho scoperto questo, dice Qohèlet,
confrontando una ad una le cose, per trovarne la ragione.
Quello che io cerco ancora e non ho trovato è questo.
Un uomo su mille l’ho trovato:
ma una donna fra tutte
non l’ho trovata». (Qohèlet 7, 26-28)
Nel Siracide troviamo un passo che è un’espressione molto viva dell’incarnazione della parola di Dio persino nei luoghi comuni:
«Non essere geloso della sposa amata,
per non inculcarle malizia a tuo danno.
Non dare l’anima tua alla tua donna,
sì che essa s’imponga sulla tua forza.
Non incontrarti con una donna cortigiana,
che non abbia a cadere nei suoi lacci.
Non frequentare una cantante,
per non esser preso dalle sue moine.
Non fissare il tuo sguardo su una vergine,
per non essere coinvolto nei suoi castighi.
Non dare l’anima tua alle prostitute,
per non perderci il patrimonio.
Non curiosare nelle vie della città,
non aggirarti nei suoi luoghi solitari
Distogli l’occhio da una donna bella,
non fissare una bellezza che non ti appartiene.
Per la bellezza di una donna molti sono periti
per essa l’amore brucia come fuoco.
Non sederti mai accanto a una donna sposata,
non frequentarla per bere insieme con lei
perché il tuo cuore non si innamori di lei
e per la tua passione tu non scivoli nella rovina». (Sir 9, 1-13)
Prima ancora del Siracide, Pitagora aveva formulato il principio della polarità maschile e femminile: c’è un principio del bene che ha creato l’ordine, la luce e l’uomo; c’è un principio del male che ha creato i caos, le tenebre, la donna.
Finiamo questa antologia antifemminista con un testo accadico del 2300 a.C; è i celebre «Dialogo di un pessimista»: «Il servo dice al padrone: non amare, mio Signore, non amare. La donna è un pozzo, una cisterna, una fossa, la donna è un pugnale di ferro ben affilato che taglia la gola dell’uomo».
Come spiegare questa costante?
C’è una frase nei Proverbi che riassume questa misoginia considerando la donna come una realtà che disturba l’orizzonte:
«Meglio abitare in un deserto
che con una moglie litigiosa e irritabile». (21, 19)
Si tratta certamente di un proverbio fisso, uno stereotipo, perché lo ritroviamo ancora più caricato nel Siracide c. 25, 15:
«Preferirei abitare con un leone e con un drago
piuttosto che abitare con una donna malvagia».
Alla base di tutto questo c’è sicuramente una letteratura fatta da maschi. Erano soprattutto loro che la codificavano e la elaboravano. Anche a livello proverbiale-popolare la donna non era coinvolta. In secondo luogo, queste espressioni non le possiamo assolutamente addurre in sé come parola di Dio, perché sono il segno della sua incarnazione e vanno quindi messe in parallelo con le pagine sulla violenza nell’interno della Bibbia. Respirano un clima, un comportamento, un’atmosfera, una visione del mondo che è caratteristica delle culture di tutti i tempi soprattutto a livello popolare, espressione di una serie di ragioni archetipiche che appartengono anche all’uomo della Bibbia. Ecco quindi l’importanza di non leggere mai la Bibbia in maniera fondamentalista, per non arrivare ai limiti di alcune sette maniacali, come quella degli Ebioniti, la quale considerava la donna solo un elemento negativo, indegna di essere salvata e come tale assolutamente fuori dal circuito della Chiesa.
Nessuna pagina della Bibbia deve essere presa alla lettera perché, come dice s. Paolo ai Corinzi, «La lettera uccide, lo Spirito dà vita!». (2 Cor 3, 6)
Ci sono però anche elementi positivi: la tipizzazione della donna nella sapienza.
Consideriamo ora tre testi. I primi due sono positivi, ed i terzo, anche se negativo, costituisce un capolavoro della letteratura mondiale.
2. SAPIENZA E STUPIDITÀ
Analizziamo il primo testo, che si può definire «intermedio»: è positivo ma con un’attenzione a tutte e due le dimensioni. Immaginiamo di essere in una città con una piazza un po’ più alta delle altre, una specie di acropoli, dove vi sono due donne ad un banco di vendita. Queste donne sono presentate come se fossero la «donna-Sapienza» e la «donna-Stupidità».
Vediamo innanzitutto la Sapienza, la quale prepara una specie di casa con sette colonne.
Su questo numero sette si è a lungo studiato, anche se risulta evidente che il sette rappresenta sempre la perfezione. Qualcuno ha pensato che sia dovuto al fatto che, escludendo il primo capitolo introduttorio dei Proverbi, ora siamo al nono e quindi abbiamo passato sette capitoli. Altri invece hanno supposto che il testo volesse riferirsi ai sette cieli, ai sette pianeti, alle sette aree terrestri, in quanto la casa della sapienza è cosmica. Qualcun altro ha pensato alle sette colonne del tempio e questa potrebbe essere l’idea della sapienza come luogo di culto. All’interno della tradizione cristiana si è poi iniziato a parlare dei sette sacramenti e dei sette doni dello Spirito Santo, ma questa è un’interpretazione libera, allegorica, posteriore.
A parte questi tentativi di interpretazione la Sapienza offre, sul punto più alto della città, il pane e il vino, che sono i grandi simboli estremi della vita e della gioia:
«La Sapienza si è costruita la casa,
ha intagliato le sue sette colonne.
Ha ucciso gli animali, ha preparato il vino e ha imbandito la tavola.
Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città:
“Chi è inesperto accorra qui!”. A chi è privo di senno essa dice:
“Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato.
Abbandonate la stoltezza e vivrete,
andate diritti per la via dell’intelligenza”». (Pr 9, 1-6)
Nel versetto finale troviamo una triade tipica della letteratura sapienzale: via, vita, sapienza. Sono tre cose che si devono cucire insieme, perché la via è il grande simbolo della vita e deve essere sempre illuminata dalla lampada della sapienza.
L’autore immagina che a questo grido risponda solamente poca gente, non essendo un invito affascinante, in quanto privo di curiosità, di morbosità, di segretezza, trattandosi semplicemente di pane e vino. La seconda scena del dittico si svolge dall’altra parte della piazza, dove l’altra donna prepara il suo banchetto:
«Donna irrequieta è Follia,
una sciocca che non sa nulla.
Sta seduta alla porta di casa,
su un trono, in un luogo alto della città,
per invitare i passanti
che vanno diritti per la loro strada:
“Chi è inesperto venga qua!”.
E a chi è privo di senno essa dice:
“Le acque furtive sono dolci,
il pane preso di nascosto è gustoso”.
Egli non si accorge che là
sono le ombre e che i suoi invitati
se ne vanno nel profondo degli inferi». (Pr 9, 13-18)
Troviamo ancora una volta la stupidità che scimmiotta la sapienza, favorita in questo dal fatto di rivestire molti abiti, presentandosi come più affascinante, mentre la verità è una sola, ha un abito solo. La stupidità può rivestirsi anche dell’abito della sapienza, incantando con l’offerta di cose proibite. Si tratta sempre di cose semplici come l’acqua e il pane, ma sono furtive e nascoste.
La conclusione è alquanto significativa: come la maga Circe trasformava i suoi ospiti in animali, così la stoltezza muta i suoi discepoli in esseri non stupidi, ma, molto peggio, in esseri morti.
Nel c. 5, 5 dei Proverbi troviamo infatti:
«I suoi piedi scendono verso la morte,
i suoi passi conducono agli inferi».
Dietro questo aspetto solenne del trono dorato e del banchetto ricco di cibi raffinati, segreti, misteriosi, si profila lo scheletro della morte. Non sono cibi che nutrono e alimentano, anche se hanno sembianze affascinanti.
3. LA TENTAZIONE
Nel secondo quadro, c. 7, troviamo la descrizione della donna fatale nel senso latino di fatum, cioè che porta alla rovina.
Ci sono interpretazioni diverse degli studiosi sull’identità di questa donna.
Uno studioso svedese aveva addirittura ipotizzato che si trattasse di una donna straniera, che aveva fatto un voto di prostituzione sacra. In alcuni riti orientali questo comprendeva anche i congiungersi sessualmente con un amante occasionale che i dio mandava per sciogliere un voto. In effetti, in questo capitolo troviamo alcuni elementi come il voto da sciogliere, la luna, il sacrificio, ma si tratta di un’interpretazione troppo contorta.
Un’altra interpretazione invece ha un’anima di verità molto più consistente: nel testo si nota che la donna è «straniera». Quest’espressione, in ambito biblico, rappresenta la prostituta sacra. Si tratta, quindi, non di un peccato sessuale, ma di un peccato teologico. Cedendo a questa donna si rinnega Dio.
Si tratta praticamente di quel sesso, oggi adorato e trasformato in un Moloch, che fa perdere qualsiasi gusto effettivo della sessualità. Uno che si abitua alla pornografia come cibo normale, ha perso sicuramente qualsiasi ricchezza di eros. Si diventa non solo frustrati, ma anche inetti a godere la completa bellezza della sessualità; per non parlare ovviamente della capacità di amare. È un idolo sempre più esigente che umilia e fa morire l’uomo e la sessualità autentica. È quindi anche un peccato dei nostri tempi, ma è per eccellenza un peccato teologico. Si cede di fronte agli idoli, a religiosità così comode e accattivanti, ma alla fine devianti e deformanti.
Non escludiamo però neppure una terza possibilità che si basa principalmente sul v. 4, dove si chiama la sapienza «mia sorella».
Nel linguaggio orientale i termine ‘ahotì non si traduce propriamente con mia sorella, ma piuttosto con mia amata. È il titolo che si dà alla fidanzata, alla sposa, perché si intende nel senso della dichiarazione della Genesi: tu sei la mia stessa carne. Nel Cantico di Cantici lo sposo dice:
«Chi è colei che sale dal deserto, appoggiata al suo diletto?
Sotto il melo ti ho svegliata; là, dove ti concepì tua madre,
là, dove la tua genitrice ti partorì». (Ct 8, 5)
Si vogliono quasi ritrovare le radici, le sorgenti, in modo tale che il filo della vita non sia in alcun punto distaccato dall’amore dei due. Si entra così nel problema dell’adulterio, della rottura di un amore, del tradimento, tanto è vero che nei vv. 19-20 c’è anche il riferimento al marito assente.
In questo capitolo il sapiente è rappresentato come un uomo distaccato che guarda dalla finestra alla sera, quando il crepuscolo sta ormai avvolgendo tutto i groviglio delle strade per cui le figure sono un po’ confuse. Egli se ne sta in casa sua a godersi i fresco serale e l’oscurità che sta per incombere. È questo un tema frequente nella letteratura sapienziale:
«L’occhio dell’adultero spia il buio
e pensa: “Nessun occhio mi osserva!”». (Gb 24, 15)
«L’uomo infedele al proprio letto
dice fra sé: “Chi mi vede?
Tenebra intorno a me e le mura mi nascondono;
nessuno mi vede, che devo temere?
Dei miei peccati non si ricorderà l’Altissimo”». (Sir 23, 25-26)
(…) Leggiamo ora il c. 7 del libro dei Proverbi:
«Figlio mio, custodisci le mie parole e fa’ tesoro dei miei precetti. Osserva i miei precetti e vivrai, il mio insegnamento sia come la pupilla dei tuoi occhi. Légali alle tue dita, scrivili sulla tavola del tuo cuore. Di’ alla sapienza: “Tu sei mia sorella”, e chiama amica l’intelligenza, perché ti preservi dalla donna forestiera, dalla straniera che ha parole di lusinga.
Mentre dalla finestra della mia casa
stavo osservando dietro le grate,
ecco vidi fra gli inesperti,
scorsi fra i giovani un dissennato.
Passava per la piazza, accanto all’angolo della straniera,
e s’incamminava verso la casa di lei,
all’imbrunire, al declinare del giorno,
all’apparir della notte e del buio
Ecco farglisi incontro una donna,
in vesti di prostituta e la dissimulazione nel cuore.
Essa è audace e insolente, non sa tenere i piedi in casa sua.
Ora è per la strada, ora per le piazze,
ad ogni angolo sta in agguato.
Lo afferra, lo bacia
e con sfacciataggine gli dice:
“Dovevo offrire sacrifici di comunione;
oggi ho sciolto i miei voti;
per questo sono uscita incontro a te per cercarti e ti ho trovato.
Ho messo coperte soffici sul mio letto,
tela fine d’Egitto;
ho profumato il mio giaciglio di mirra,
di aloè e di cinnamòmo.
Vieni, inebriamoci d’amore fino al mattino,
godiamoci insieme amorosi piaceri,
poiché mio marito non è in casa,
è partito per un lungo viaggio,
ha portato con sé il sacchetto del denaro,
tornerà a casa il giorno del plenilunio”.
Lo lusinga con tante moine,
lo seduce con labbra lascive;
egli incauto la segue,
come un bue va al macello;
come un cervo preso al laccio,
finché una freccia non gli lacera il fegato;
come un uccello che si precipita nella rete
e non sa che è in pericolo la sua vita.
Ora, figlio mio, ascoltami,
fa’ attenzione alle parole della mia bocca.
Il tuo cuore non si volga verso le sue vie,
non aggirarti per i suoi sentieri,
perché molti ne ha fatto cadere trafitti
ed erano vigorose tutte le sue vittime.
La sua casa è la strada per gli inferi,
che scende nelle camere della morte». (Pr 7)
Nel brano troviamo il tema frequente della casa, con le sue stanze impreziosite di lino egiziano e ricche di profumi. Tra le righe leggiamo inoltre una specie di scusa della donna: ho fatto un voto e devo consumarlo, con riferimento al c. 7 del Levitico, dove si dice che portando a casa la carne di un sacrificio di comunione, essa va consumata entro quel giorno e i giorno dopo, mentre il resto dovrà essere bruciato. Si ricorre cioè ad una scusa sacrale. La prostituzione sacra si rivestirebbe quindi di motivazioni in apparenza nobili. In realtà, entrando in quella camera tra i lini e i profumi, si entra negli inferi.
4. LA DONNA PERFETTA
L’ultimo testo dei Proverbi che analizziamo è invece positivo: si tratta di un inno acrostico alfabetico, in quanto la prima parola di ogni versetto comincia con una lettera diversa secondo l’ordine dell’alfabeto ebraico.
Questo cantico mette in scena una donna concretissima, con una responsabilità abbastanza sorprendente nell’antico Vicino Oriente.
Non dobbiamo però stupirci di questo, perché l’autore, in filigrana, ci rimanda sempre alla Sapienza e alle capacità pratiche che essa dona al suo fedele.
Questa donna è quasi l’ideale compagna della vita e possiamo immaginare che, dopo la lezione del maestro durata 31 capitoli, i discepoli siano cresciuti e siano pronti per affrontare la strada del mondo. Il figlio è pronto per sposarsi e va a cercare la donna giusta, cioè la sapienza che si dovrà veder rispecchiata anche nella moglie.
La descrizione di questo saluto del maestro contiene un paio di elementi che vanno sottolineati. Il primo elemento è il realismo: non c’è poesia; della bellezza della donna si parla ma in maniera molto indiretta.
Un’altra cosa che stupisce è l’assenza dell’amore, nonostante la Bibbia sia tutt’altro che priva di questa dimensione. Basti pensare a pagine intensissime di amore, come i Cantico dei Cantici, la storia di Rut, quella di Osea. Qui, invece, il tema non viene considerato. Tutta l’impostazione può essere definita quasi commerciale. Non dobbiamo comunque dimenticare che nell’antico Vicino Oriente il matrimonio comprendeva il mohar, un vero e proprio trattato economico tra due clan, per cui la dimensione economica non era assolutamente da trascurare.
Il secondo elemento si riconduce alle mani sempre attive della donna messe in primo piano. Il cervello, l’intelligenza così tanto lodata non è mai la speculazione pura ed astratta, ma una meditazione che si dirama come lezione e insegnamento ma anche come azione.
Tanto è vero che i rabbini arriveranno al punto di insegnare, sempre all’interno delle loro scuole antiche, un mestiere (Paolo, ad esempio, durante la sua formazione rabbinica aveva imparato a costruire i teli delle tende).
Contemporaneamente nei vv. 25-26, si descrive prima il vestito nei suoi tessuti e nella sua fabbricazione e poi si ritrae anche il vestito spirituale della dignità di questa donna. Abbiamo quindi un ritratto della Sapienza ambivalente in quanto molto idealizzato, ma anche forse molto concreto.
Leggiamo, allora, il testo.
(Alef) — Una donna perfetta chi potrà trovarla? Ben superiore alle perle è il suo valore.
(Bet) — In lei confida il cuore del marito e non verrà a mancargli il profitto.
(Ghimel) — Essa gli dà felicità e non dispiacere per tutti i giorni della sua vita.
(Dalet) — Si procura lana e lino e li lavora volentieri con le mani.
(He) — Ella è simile alle navi di un mercante, fa venire da lontano le provviste.
(Wau) — Si alza quando ancora è notte e prepara il cibo alla sua famiglia e dà ordini alle sue domestiche.
(Zain) — Pensa ad un campo e lo compra e con il frutto delle sue mani pianta una vigna.
(Het) — Si cinge con energia i fianchi e spiega la forza delle sue braccia.
(Tet) — È soddisfatta, perché il suo traffico va bene, neppure di notte si spegne la sua lucerna.
(Iod) — Stende la sua mano alla conocchia e mena il fuso con le dita.
(Kaf) — Apre le sue mani al misero, stende la mano al povero.
(Lamed) — Non teme la neve per la sua famiglia, perché tutti i suoi di casa hanno doppia veste.
(Mem) — Si fa delle coperte, di lino e di porpora sono le sue vesti.
(Nun) — Suo marito è stimato alle porte della città dove siede con gli anziani del paese.
(Samech) — Confeziona tele di lino e le vende e fornisce cinture al mercante.
(Ain) — Forza e decoro sono il suo vestito e se la ride dell’avvenire.
(Pe) — Apre la bocca con saggezza e sulla sua lingua c’è dottrina di bontà.
(Sade) — Sorveglia l’andamento della casa; il pane che mangia non è frutto di pigrizia.
(Qof) — I suoi figli sorgono a proclamarla beata e suo marito a farne l’elogio:
(Resh) — “Molte figlie hanno compiuto cose eccellenti, ma tu le hai superate tutte!”.
(Sin) — Fallace è la grazia e vana è la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare.
(Tau) — Datele del frutto delle sue mani e le sue stesse opere la lodino alle porte della città».
(Pr 31, 10-31)
CONCLUSIONI
Chiudendo questa breve analisi del libro dei Proverbi, vorrei sottolineare un proverbio sorprendente che troviamo nell’ultima collezione. Riguarda l’amore nei confronti della donna. Nella sezione cosiddetta «numerica», proveniente forse anche da un ambito esterno ad Israele, ci colpisce una frase stranissima che rappresenta il mistero dell’amore tra il giovane e la ragazza dipinto in maniera quasi impressionistica, per immagini:
«Tre cose mi sono difficili,
anzi quattro, che io non comprendo:
il sentiero dell’aquila nell’aria,
il sentiero del serpente sulla roccia,
il sentiero della nave in alto mare,
il sentiero dell’uomo in una giovane». (Pr 30, 18-19)
Il passo nella sua frase finale descrive non soltanto la via dell’amore, ma anche l’abbraccio sessuale e il mistero della nascita che affiorerà da questo incontro.
Il libro dei Proverbi infine ci suggerisce una cosa che dobbiamo continuamente riproporre a noi stessi: il bisogno di uno che consigli, di un maestro, l’importanza di non essere soli quando si è nei momenti più oscuri.
Il profeta Isaia descrive molto bene questo dramma della solitudine, dovuta non solamente alla mancanza di affetto, ma anche all’assenza di punti fissi:
«Guardai ma non c’era nessuno,
tra costoro nessuno era capace di consigliare;
nessuno da interrogare per averne una risposta». (Is 41, 28)
E questa è una grande maledizione.
Piste di approfondimento
1. La sapienza è un fenomeno presente in tutte le culture e in tutte le società. I Proverbi diventano anche un invito a raccogliere, conservare e valorizzare questo patrimonio umano in cui si manifesta una specie di rivelazione divina «naturale» e primordiale, legata al concetto stesso di creazione. L’impegno del credente è quello di allargare gli orizzonti della sua fede in un dialogo fecondo con le culture, con le diverse esperienze, con la ricerca dell’uomo. D’altra parte la sapienza biblica è anche un modello di «inculturazione» del messaggio rivelato all’interno di nuove coordinate sociali, di nuovi linguaggi, di nuove esigenze.
2. La sapienza biblica ci invita a celebrare l’uomo, la sua razionalità, la sua esperienza non come opposti alla rivelazione, all’atto di fede, ma come componenti necessarie ed esaltanti. È per questo che coi libri sapienziali si dà valore anche alle virtù umane, al galateo, alla dignità nelle relazioni, all’umanesimo integrale. È per questo che la natura umana è considerata come la base sulla quale far fiorire l’impegno della fede. Un’opera di educazione ai valori umani costituisce una parte decisiva della catechesi.
3. La sapienza proverbiale è anche un’esaltazione dell’armonia dell’essere, dell’approfondimento scientifico e filosofico, della critica e dell’intelligenza. È un appello a reagire contro le tentazioni di un vago misticismo spiritualista e a costruire un contrappunto positivo tra fede e scienza. E giusto deve essere formato anche a livello culturale e deve imparare a detestare la volgarità, la superficialità, l’ottusità, la stupidità, i luoghi comuni.
4. La sapienza pone interrogativi seri riguardo alle relazioni che l’uomo deve stabilire con Dio, col creato e col suo simile. Si ha, così, la definizione di una vera e propria morale ben articolata sui vari settori della giustizia, della fedeltà, dell’amore, della vita matrimoniale e familiare, dell’ecologia, dell’onestà professionale, della vita socio-politica ecc.
5. Si potrebbe approfondire i concetto teologico di «sapienza» come modello di elaborazione del rapporto «Dio-creato» e come via per conoscere il mistero di Dio. Si pensi alla cosiddetta «teologia estetica» sviluppata da H. V. von Balthasar nella sua opera Gloria.
Si analizzino accuratamente questi testi sapienziali: Giobbe c. 28; Proverbi cc. 8-9; Siracide cc. 1 e 24; Baruc 3,9-4,4 ; Sapienza cc. 6-9.
Un ulteriore allargamento d’orizzonte potrebbe essere quello che sviluppa la sapienza nel Nuovo Testamento alla luce della figura del Cristo. I testi fondamentali potrebbero essere: 1 Corinzi cc. 1-3; Colossesi 1, 15-20; Giovanni c. 1; 6, 35-50.