XXV Settimana del Tempo Ordinario (anno pari)
Testo word Libro dei Proverbi – Ravasi (2)
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LIBRO DEI PROVERBI (2)
Gianfranco Ravasi
La giornata dell’uomo dei Proverbi
«Ascolta, figlio mio, l’istruzione di tuo Padre…» (Pr 1,8)
Inizio con un particolare marginale, ma tipico della letteratura proverbiale biblica. Come abbiamo già detto essa è dotata (e questo avviene per tutta la letteratura sapienziale popolare, ed anche per quella nobile) di una carica di ironia e di sarcasmo che raggiunge qualche volta persino la cattiveria. Questa ironia deriva sia dalla scoperta bonaria della miseria dell’uomo, sia dalla scoperta gioiosa dell’orizzonte umano e dei suoi limiti che servono a creare una specie di fantasia nell’interno dell’umanità, evitando il tono troppo monocorde.
Riporto un esempio di ironia tratto dalla letteratura che è fiorita successivamente a quella proverbiale. Si tratta delle cosiddette storielle ebraiche, raccolte anche in un libretto di F. Fòlkel (Storielle ebraiche, ed. BUR, Rizzoli), le quali sono meno vivaci di quelle abbozzate nei Proverbi, ma ne esprimono bene l’atteggiamento.
Il testo che cito contiene anche un’altra caratteristica della letteratura sapienziale: l’autoironia. Noterete che in finale l’ebreo ironizza su se stesso; è un atteggiamento tipico soprattutto nella letteratura ebraica americana.
«Quando si racconta una storiella yiddish (letteratura ebraica mitteleuropea) ad un contadino, egli ride tre volte: quando gliela raccontano, quando gliela spiegano e quando riesce a capirla. Un borghese invece ride solo due volte: quando gliela raccontano e quando gliela spiegano, ma non riesce a capirla. Un ufficiale ride una sola volta: quando gliela raccontano, perché non vuole che gliela spieghino e se anche gliela spiegassero, non la capirebbe mai. Se invece la si racconta ad un ebreo, egli dice: “Dio mio, io la conosco da sempre questa storia”».
L’approccio alla realtà avviene con questo filo ironico sempre dotato di un certo sapore, di un certo sale. Tutto questo si riscontra nel libro dei Proverbi.
1. LA QUESTIONE LETTERARIA DEI PROVERBI
La letteratura sapienziale è un grande orizzonte che va oltre le 6915 parole ebraiche di cui è composto i libro dei Proverbi. Rapportate alle 300.613 parole dell’Antico Testamento ebraico, sono soltanto il 2,3%. Si tratta quindi, tutto sommato, di una stilla.
Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che esiste un pentateuco sapienziale, almeno per quanto riguarda il canone cattolico, che comprende appunto Giobbe, i Proverbi, il Qohèlet, la Sapienza e il Siracide. La Sapienza e il Siracide non rientrano invece nel canone ebraico delle Sacre Scritture perché ci sono giunti in greco e quindi sono considerati «deuterocanonici».
Questo pentateuco sapienziale si può ampliare fino ad arrivare ad un settenario, aggiungendo a questi cinque libri anche i Salmi e il Cantico dei Cantici, perché, dalla tradizione giudaica, vengono tutti messi sotto lo stesso titolo: ketuvim («gli Scritti»). Ma i Salmi e il Cantico dei Cantici vivono di una loro autonomia, preziosità e splendore.
La letteratura sapienziale però non finisce qui. I cc. 1-3 della Genesi, per esempio, sono chiaramente letteratura sapienziale. Sono infatti una riflessione su ha’adam, cioè sull’uomo. Si tratta di una letteratura sapienziale, filosofica, teologica.
In pratica sono un po’ paralleli a quel bellissimo cantico che abbiamo esaminato nella precedente lettura biblica e che troviamo in Pr 8, 22-31, dove si canta la sapienza che è, al tempo stesso, prima di tutte le cose, in quanto ha i medesimo volto di Dio ed è nelle cose e in noi perché tutti noi abbiamo una scintilla di quella sapienza. Il cosmo intero partecipa alla bellezza della creazione.
Nel 1953 un famoso esegeta tedesco, G. von Rai ha scritto un saggio nel quale sosteneva che la storia di Giuseppe, narrata nei cc. 37-50 della Genesi, è di natura sapienziale e non una pagina storica in senso stretto. È un racconto esemplare in cui ci sono dei personaggi che sono collegati ai patriarchi e all’esodo, ma che si presentano soprattutto come modelli di vita. Per questo sono rivestiti di molti elementi fittizi. Nel libro del Deuteronomio e negli stessi profeti si trovano spesso delle espressioni che sono veri e propri proverbi o dichiarazioni sapienziali. Lo stesso Von Rad, in uno studio molto importante del 1960, ha sottolineato che la letteratura apocalittica (ad esempio quella di Daniele o di alcuni testi apocrifi) ha le sue origini in quella sapienziale, per cui è la figlia di questa letteratura dall’orizzonte così ricco.
Sull’intero panorama sapienziale primeggia la figura di Salomone. Nel c. 10 del primo libro dei Re, la regina di Saba incontra Salomone e resta stupita di fronte al sapere di quest’uomo. Da qui nasceranno tutte le leggende che daranno origine alla fantasia secondo la quale i negus neghesti («il re dei re», cioè il re dell’Etiopia) era discendente da un figlio nato dal matrimonio tra Salomone e la regina di Saba.
Con Salomone si ha la testimonianza di un contatto, di un dialogo ecumenico con le varie culture. Durante l’epoca salomonica i fermenti, le ricerche delle letterature circostanti vengono portate a Gerusalemme e lì rielaborate. Da questo incontro nasce la letteratura sapienziale ebraica. Ecco un esempio tratto da 1 Re 5, 9-14:
«Dio concesse a Salomone saggezza e intelligenza molto grandi e una mente vasta come la sabbia che è sulla spiaggia del mare. La saggezza di Salomone superò la saggezza di tutti gli orientali e tutta la saggezza dell’Egitto. Egli fu veramente più saggio di tutti, più di Etan l’Ezrachita, di Eman, di Calcol e di Darda, figli di Macol; il suo nome divenne noto fra tutti i popoli limitrofi.
Salomone pronunziò tremila proverbi, le sue poesie furono millecinque. Parlò di piante, dal cedro del Libano all’issopo che sbuca dal muro; parlò di quadrupedi, di uccelli, di retti i e di pesci. Da tutte le nazioni venivano per ascoltare la saggezza di Salomone; venivano anche i re dei paesi ove si era sparsa la fama della sua saggezza».
È evidente che in questo ritratto si vuole raffigurare i sapiente. In filigrana si intravede l’uomo saggio, l’intellettuale ricco anche umanamente.
La sapienza, perciò, abbraccia un orizzonte molto più esteso di questi cinque o sette libri. Su tutti domina la figura di Salomone.
2. LA MODALITÀ CON CUI SI ESPRIME LA SAPIENZA
La sapienza si esprime in diversi modi: proverbi, detti, inni, parabole ecc. ma la forma più caratteristica della letteratura sapienziale è il «proverbio» (ebr. mashal).
Ogni cultura ha escogitato il suo tipo di proverbio secondo le proprie esigenze linguistiche. Diceva il filosofo Francesco Bacone: «Il genio, la saggezza, lo spirito di una nazione si scoprono nei suoi proverbi».
Il termine mashal è in realtà molto generico in quanto indica: detto, sentenza, aforisma, proverbio, allegoria, parabola, poesia. Esso ha però i suo valore soprattutto nell’interno del proverbio proprio come lo intendiamo noi.
Il proverbio, essendo come una scheggia, pur nella sua semplicità, è difficile da costruire perché raccoglie tutta la realtà in un piccolo frammento.
Inoltre, bisogna creare una forma espressiva che colpisca subito la mente evitando un lungo discorso: quest’ultimo spegne la forza del messaggio che si vuole comunicare. Il proverbio deve andare diritto al cuore e alla mente anche della persona semplice, addirittura dello stupido, suggerisce il libro dei Proverbi, proprio perché ha più bisogno di tutti di imparare.
Questi frammenti sono quindi molto complessi nonostante la loro brevità. Un grosso commento ai Proverbi di due autori spagnoli, Alonso Schòkel e Vichez Lindez, dedica ben quaranta pagine (esattamente dalla pagina 134 a 174 nella traduzione italiana, ed. Borla) per spiegare i meccanismi interni a questi distici (si tratta, infatti, solitamente di due versetti).
C’è innanzitutto il proverbio detto «quod» (in latino «perché, infatti») cioè i «proverbio evento» che ci fa balenare una cosa, una scenetta e su quella c’è già una lezione.
C’è poi un altro proverbio un po’ più sofisticato, più filosofico, detto «quia» o «cur» (in latino «perché»), che cerca anche di trovare una spiegazione alla rivelazione fatta sulla realtà.
Ma, soprattutto, una delle leggi fondamentali del proverbio è il parallelismo, che può essere sinonimico, antitetico e progressivo. «Sinonimico» significa ripetere due volte la stessa cosa da angolature diverse, cioè guardando la stessa realtà da due prospettive diverse, cogliendo due sfaccettature differenti:
«Il falso testimone non resterà impunito,
chi diffonde menzogne non avrà scampo». (Pr 19, 5)
Il primo verso è molto più solenne, da tribunale, il secondo è più quotidiano.
Il parallelismo «antitetico» invece, insiste su un determinato dato descrivendone anche il contrario:
«C’è chi fa il ricco e non ha nulla;
c’è chi fa il povero e ha molti beni».
In 4, 18 troviamo un esempio di parallelismo «progressivo». Comporta due elementi paralleli ed un terzo in crescendo:
«La strada dei giusti è come la luce dell’alba,
che aumenta lo splendore fino al meriggio».
Uno dei risultati che si vogliono ottenere usando queste tecniche è i suono, la facilità dell’apprendimento, la costruzione della paronomasia, cioè dell’onomatopea fonetica.
Anche in italiano moltissimi proverbi sono costruiti sul gioco delle parole, sulle rime ed è perciò talora senza senso leggere dei proverbi in traduzione. Perdono di valore perché tutta la loro carica sta nella rima. La rima inoltre non appartiene solo alla poesia, alla letteratura o al ragionamento popolare, ma anche alla musica. (…)
Tutte queste cose hanno un’importanza fondamentale, perché permettono di avere lezioni immediate, che rimangono nella mente, quasi come fossero delle biblioteche portatili autentiche, scritte, appunto, sulla viva pagina della memoria. (…)
Ricordiamo, infine, sempre a proposito del mashal, la tecnica del contrappunto.
Se noi raccogliessimo idealmente tutti i proverbi dell’umanità, ci accorgeremmo che moltissimi sono contraddittori tra di loro eppure sono veri. Questo perché la realtà stessa è contraddittoria. Non è la perfezione semplice e univoca di Dio. Ecco un esempio.
«Non rispondere allo stolto secondo la sua stoltezza
per non divenire anche tu simile a lui;
Rispondi allo stolto secondo la sua stoltezza,
perché egli non si creda saggio». (Pr 26, 4-5)
È indiscutibile che queste due rilevazioni sono entrambe vere, anche se contraddittorie. Esiste quindi un’antitesi che è verità.
3. LA STRUTTURA DEL LIBRO DEI PROVERBI
Il libro biblico dei proverbi si compone di 31 capitoli, divisi dagli studiosi in tante parti: cinque parti, sette, otto e anche nove. Questo è dovuto al fatto che si tratta di collezioni diverse i cui confini non sono sempre nitidi, anche perché ad esse si aggiungono degli allegati o appendici.
Ecco brevemente un tracciato schematico. Ricordo che i proverbi sono tutti di periodi diversi.
1. La prima collezione è costituita dai cc. 1-9: è la più recente (500-400 a.C.), ma anche la più nobile e sofisticata.
2. I cc. 10-22 formano la seconda collezione, detta anche «prima collezione salomonica». Essa si divide chiaramente in due parti: i cc. 10-15 che comprendono 184 proverbi dominati dal contrasto tra il giusto e l’empio; i cc. 16-22 che si compongono di 191 proverbi di stampo monarchico. Riflettono l’epoca di Salomone.
3. Dalla seconda parte del cc. 22 (v. 17) fino al c. 24 inizia la terza collezione, formata da due allegati intitolati: «Le parole dei saggi». In apertura di questa terza collezione troviamo una cosa curiosa: la libera trascrizione di un testo sapienziale egiziano dell’XI sec. a.C. Abbiamo perciò l’osmosi tra Israele e l’Egitto: la Bibbia ha riconosciuto parola di Dio anche lo scritto di un pagano, considerandolo ispirato.
Leggiamo ad esempio il c. 23, 29-35:
«Per chi i guai? Per chi i lamenti?
Per chi i litigi? Per chi i gemiti?
A chi le percosse per futili motivi?
A chi gli occhi rossi?
Per quelli che si perdono dietro al vino
e vanno a gustare vino puro.
Non guardare il vino quando rosseggia,
quando scintilla nella coppa e scende giù piano piano;
finirà con il morderti come un serpente
e pungerti come una vipera.
Allora i tuoi occhi vedranno cose strane
e la tua mente dirà cose sconnesse.
Ti parrà di giocare in alto mare
o di dormire in cima all’albero maestro.
Mi hanno picchiato, ma non sento male.
Mi hanno bastonato, ma non me ne sono accorto.
Quando mi sveglierò? Ne chiederò dell’altro».
Questo ci dimostra come la Bibbia non abbia nessun imbarazzo, nell’accogliere al suo interno contributi esterni e notazioni profondamente umane e quotidiane.
Ci sono inoltre delle indicazioni che riguardano la buona educazione, l’etichetta, il savoir-faire, le virtù umane. Queste virtù, oggi tanto calpestate, costituiscono invece per l’autore dei Proverbi, una componente della fede, della religione.
4. La quarta collezione è costituita dai cc. 25-29 ed è aperta da un titolo:
«Anche questi sono proverbi di Salomone,
trascritti dagli uomini di Ezechia, re di Giuda». (Pr 25, 1)
Verso la fine dell’VIII secolo, quindi, Ezechia prese dei proverbi precedenti e li elaborò. Anche questi cinque capitoli si dividono chiaramente in due parti: 25-27 e 28-29. Come si vede la collezione è stata costruita con un certo criterio, ma anche con notevole varietà.
La prima parte è folcloristica e inondata dalla natura: sabbia, pietre, fonti, acque, campi, fieno, spine, vento, nubi, pioggia, neve, freddo, calura, asini, cavalli, greggi, leoni, uccelli, capretti, orafi, tessitori, carpentieri, contadini… L’altra, invece, è molto più solenne, di tono etico, religioso, quasi curiale. Probabilmente era ad un livello superiore, usata all’interno dei palazzi.
5. L’ultima parte, cc. 30-31, è formata da quattro frammenti proverbiali molto belli, provenienti da luoghi diversi e cuciti insieme. Il primo è di un tale Agur, re di Massa (probabilmente una tribù ismaelita araba). Siamo quindi, ancora una volta, in presenza di una sapienza esterna. La Bibbia dimostra uno spirito ecumenico e libero nel captare i valori delle altre culture:
«Io ti domando due cose, non negarmele prima che io muoia:
tieni lontano da me falsità e menzogna,
non darmi né povertà né ricchezza;
ma fammi avere il cibo necessario,
perché, una volta sazio, io non ti rinneghi
e dica: “Chi è il Signore?”,
oppure, ridotto all’indigenza, non rubi
e profani il nome del mio Dio». (Pr 30, 7-9)
Il secondo frammento è «numerico», in quanto si gioca sui numeri che hanno sempre una simbolica spirituale all’interno di tutte le culture. Esiste una scienza chiamata gematria o numerologia che dà dei valori simbolici ai numeri modellandoli su realtà ulteriori, soprattutto spirituali. Leggiamo i primi due versetti di questa sezione, il 5 e il 6 del c.30:
«La sanguisuga ha due figlie: “Dammi! Dammi!”. Tre cose non si saziano mai,
anzi quattro non dicono mai: “Basta!”:
gli inferi, il grembo sterile, la terra mai sazia d’acqua
e il fuoco che mai dice: “Basta!”». (Pr 30, 15-16)
L’autore usando pochissimi elementi (in ebraico sono una quindicina di parole) ha sceneggiato una situazione drammatica tutta particolare, partendo da una realtà concreta come la sanguisuga.
Il paragrafo del c. 31, 1-9 è invece la sapienza di Lemuèl, un altro di questi sapienti dell’antico Oriente. Infine abbiamo il quarto testo, c. 31, 10-31, che chiude tutto i libro dei Proverbi: il bellissimo inno alla donna sapiente.
4. LE FONTI DEI PROVERBI
a. L’esperienza
(…) Il punto di partenza è l’esperienza dell’uomo, cantata in mille modi nei quali tutti ci riconosciamo. Anche per questo i singoli proverbi sono espressi solitamente con parole semplici e limitate ma folgoranti. (…)
È quindi possibile essere molto chiari ed esprimere realtà profondissime, pur usando poche parole. Qualche volta quelli che parlano in maniera estremamente sofisticata, confusa e tormentata, danno l’impressione di attingere ai pozzi più profondi della sapienza. In realtà, poi, salvo eccezioni, questo significa che hanno al loro interno una certa nebbia. Riuscire ad esprimere in modo chiaro la realtà vuoi dire renderla comprensibile comunque e sempre, anche se ciò può comportare qualche semplificazione.
Ecco qualche esempio di questa esperienza presa dal vivo. È qualcosa di concreto, di materiale, che colpisce; ma, al tempo stesso, è anche la lezione che bisogna imprimersi, andando oltre l’immagine:
«Chi accaparra il grano è maledetto dal popolo,
la benedizione è invocata sul capo di chi lo vende». (Pr 10, 26)
Ecco un altro esempio adatto alla cultura di tutti i tempi, ma anche così tipico della nostra burocrazia e della nostra politica, perché si tratta di un dato costante:
«Il dono è come un talismano per il proprietario:
dovunque si volga ha successo». (Pr 17, 8)
b. La tradizione
Questo secondo elemento è caratteristico della cultura che viene tramandata oralmente come lo è quella orientale.
Nessuno di noi è un autodidatta puro, ha cioè imparato tutto da solo: ha sempre avuto un «insegnante». Anche l’autodidatta puro studia su libri scritti da altri. È difficilissimo, ma, a mio avviso, anche stupido, cominciare da zero, per conto proprio, perché l’umanità deve considerarsi sempre più un corpo che prosegue da quanto è già stato raggiunto.
La tradizione è indispensabile e noi incontriamo continuamente nel libro dei Proverbi questo schema: padre-figlio oppure maestro-discepolo. Il padre e il maestro sono infatti i sapienti per eccellenza e ovviamente anche i pedagoghi.
Questo tipo di pedagogia non può essere sic et simpliciter applicata oggi, in quanto è molto datata. Pone però in modo interessante il problema del metodo di insegnamento. Insegnare non è assolutamente una professione, anche se molti la devono fare per vivere. Insegnare è soprattutto una vocazione. Ci sono persone genialissime, ma che non dovrebbero mai salire su una cattedra, perché non sono idonee ad insegnare e a comunicare.
La letteratura sapienziale, di sua natura, deve essere comunicata, essendo una guida di vita:
«Ascoltate, o figli, l’istruzione di un padre
e fate attenzione per conoscere la verità,
poiché io vi do una buona dottrina;
non abbandonate il mio insegnamento.
Anch’io sono stato un figlio per mio padre
tenero e caro agli occhi di mia madre». (Pr 4, 1-3)
La catena, come si vede, inizia nel passato. (…)
Questa catena si snoda quindi nell’interno di tutto il popolo di Israele, anche per la fede, la quale viene ricevuta per trasmissione viva, per tradizione.
Ovviamente, poi, deve scattare l’adesione, come è attestato anche da Paolo:
«Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana: anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. Pertanto, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto». (1 Cor 15, 3-11)
Nel c. 1, 8 -9 dei Proverbi si definiscono i consigli del padre come «la corona e la collana», sono cioè la realtà più bella che orna l’uomo:
«Ascolta, figlio mio, l’istruzione di tuo padre
e non disprezzare l’insegnamento di tua madre,
perché saranno una corona graziosa sul tuo capo
e monili per il tuo collo». (Pr 1, 8-9)
Il padre rappresenta ovviamente il maestro, la generazione che ha già vissuto determinate situazioni ed ha riflettuto su questi temi e che può ora proporli.
«Chi risparmia il bastone odia suo figlio,
chi lo ama è pronto a correggerlo». (Pr 13, 24)
È questo un esempio di pedagogia, allora validissima, oggi forse un po’ da aggiornare, anche se un filo di verità lo contiene ancora. C’è l’elemento «correzione», cioè l’idea di una educazione non severa ma esigente.
c. La riflessione
(…) Dio ci ha dato lo splendore della ragione e questo bisogna ricordarlo ancor di più ora in cui trionfano i misticismi fatui, il sentimentalismo religioso e di altri generi. Si ha quasi paura della forza e della grandezza della ragione anche per la religione.
Il libro dei Proverbi ci ricorda invece l’estrema importanza del sapere, con una grande stima dell’uomo intelligente e un grande disprezzo, venato di ironia, nei confronti dello stupido, dello stolto, dell’ignorante, dell’ottuso:
«Come il cane torna al suo vomito,
così lo stolto ripete le sue stoltezze». (Pr 26, 11)
La sapienza nasce anche dal «convegno» dei sapienti, dal ritrovarsi insieme e discutere. È una riflessione in dialogo.
d. La rivelazione
Non dobbiamo poi dimenticare che la rivelazione è la fonte più importante della sapienza. C’è la convinzione che all’interno di cose così modeste risuoni la voce di Dio. Qui ci troviamo veramente nel cuore del discorso.
Leggendo i libro dei Proverbi ci divertiamo perché troviamo i nostri vizi e le nostre virtù, gli splendori e le miserie, i giochi e i pianti, quegli estremi di cui si compone la vita. Non dobbiamo però mai dimenticare che, per il credente, è parola di Dio e ciò significa che queste realtà hanno in sé un sigillo d’infinito.
Sono numerosissime le espressioni soprattutto nella prima collezione dei Proverbi che esprimono questa convinzione:
«È il Signore che dà la sapienza,
dalla sua bocca esce scienza e prudenza». (Pr 2, 6)
Facciamo attenzione alle parole usate: non solo intelligenza, realtà stupenda di cui si deve sempre ringraziare Dio, ma neanche solamente la scienza, che si acquista con grande fatica e studi pazienti alla ricerca della verità. Queste due cose non bastano ancora: l’intelligente e lo scienziato non necessariamente sono il sapiente, i maestro, quello che lascia una scia nelle persone, quello che dice anche la banalità ma con un elemento – che le persone normali avevano trascurato. Essere sapienti, magari anche avendo poca intelligenza, è sicuramente un dono divino.
«Beato l’uomo che ha trovato la sapienza
e il mortale che ha acquistato la prudenza,
perché il suo possesso è preferibile a quello dell’argento
e il suo provento a quello dell’oro.
Essa è più preziosa delle perle
e neppure l’oggetto più caro la uguaglia». (Pr 3, 13-15)
5. LA GIORNATA DELL’UOMO DEI PROVERBI
Il libro dei Proverbi in un certo senso è anche divertente. Esso ci riporta una sapienza, un’intelligenza, una scienza affascinante e non noiosa. D’altro canto, però, il ridere non è fine a se stesso, perché tutte queste cose rappresentano in qualche modo il nostro profilo umano e spirituale.
Uno studioso di questo libro ha detto: «Guarda i Proverbi, specchiati e se non coincidono coi tuoi lineamenti è segno che devi correggerti».
E libro dei Proverbi ha una funzione educativa, pedagogica; non vuole creare una specie di ritratto del mondo, distaccato, asettico, ma tale che, una volta imparato, lo si trasformi.
Leggiamo insieme alcuni passi presi qua e là.
Gli animali fanno lezione:
«Quattro esseri sono fra le cose più piccole della terra, eppure sono i più saggi dei saggi: le formiche, popolo senza forza, che si provvedono il cibo durante l’estate; gli iràci, popolo imbelle, ma che hanno la tana sulle rupi». (Pr 30, 24-26)
Anche questi nostri fratelli minori ci devono insegnare qualcosa.
Abbiamo detto in precedenza che la vita è riso e lacrime:
«Anche fra il riso il cuore prova dolore
e la gioia può finire in pena». (Pr 14, 13)
A proposito del mercato, nel c. 20, 14 troviamo uno schizzo straordinario, un bozzetto dal vivo:
«‘Robaccia, robaccia’ dice chi compra:
ma mentre se ne va, allora se ne vanta». (Pr 20, 14)
Bussa alla porta di casa un povero bisognoso:
«Non dire al tuo prossimo:
«Va’, ripassa, te lo darò domani» se tu hai ciò che chiede». (Pr 3, 28)
La tragedia continua dei poveri sfruttati, delle ingiustizie, è sempre segnalata anche nell’ottimismo generale del libro dei Proverbi:
«C’è gente i cui denti sono spade
e i cui molari sono coltelli,
per divorare gli umili eliminandoli dalla terra
e i poveri in mezzo agli uomini». (Pr 30, 14)
Un altro elemento tipico della vita quotidiana, non solo di allora, è il chiacchiericcio:
«Nel molto parlare non manca la colpa,
chi frena le labbra è prudente». (Pr 10, 19)
Ed infine il pranzo, che è uno dei momenti in cui l’uomo si rivela maggiormente per quello che è, manifestando i suo spirito, soprattutto se si tratta di un pranzo cordiale tra amici. Il cibo, d’altra parte, è legato anche ad elementi fondamentali per la sopravvivenza delle persone, è un grande simbolo di vita: l’uomo è anche ciò che mangia, pur senza giungere a conclusioni eccessivamente materialistiche.
«Quando siedi a mangiare con un potente,
considera bene che cosa hai davanti;
mettiti un coltello alla gola, se hai molto appetito.
Non desiderare le sue ghiottonerie, sono un cibo fallace». (Pr 23, 1-3)
«Un piatto di verdura con l’amore
è meglio di un bue grasso con l’odio». (Pr 15, 17)
«È piacevole all’uomo il pane procurato con la frode,
ma poi la sua bocca sarà piena di granelli di sabbia». (Pr 20, 17)
Possiamo concludere affermando che da cose piccole si possono trarre grandi lezioni. Esprimiamo questo nesso tra mistero e realtà quotidiana con la testimonianza di un’altra sapienza orientale, quella indiana, espressa dal poeta Tagore. Egli ci raccomanda di non cercare Dio in luoghi aureolati, diversi dal nostro mondo quotidiano, bensì di cercarlo nel microcosmo che ci circonda; la nostra prima vocazione, anche se ricopriamo cariche importanti, è di essere fedeli nelle piccole cose. Tagore costruisce la trama della sua lirica su detti dell’antica tradizione vedica indiana:
«A mezzanotte l’aspirante asceta annunciò: “Questo è il tempo di lasciare la mia casa e di andare in cerca di Dio. Ah, chi mi trattenne tanto a lungo in questa illusione!”.
Dio sussurrò: “Io”.
Ma l’uomo aveva le orecchie turate. Con un bimbo addormentato al suo seno, sua moglie dormiva placidamente su un lato del letto — la famiglia, la vita quotidiana di cui i Proverbi parlano spesso —. L’uomo disse: “Chi siete voi che mi avete ingannato per tanto tempo?” — non permettendogli di raggiungere i vertici della mistica, dell’ascesi—.
Ancora la voce mormorò: “Essi sono Dio”.
Ma egli non intese.
Il bimbo pianse nel sonno e si strinse accanto alla madre.
Allora Dio comandò: “Fermati, sciocco, non abbandonare la tua casa!”. Ma egli ancora non udì.
Dio allora tristemente sospirando, disse: “Perché il mio servo mi abbandona per andare in cerca di me? »