Lectio divina

I primi cinque capitoli del libro che abbiamo letto coincidono con la prima parte di quel testo che a suo tempo illustravo come espressione di quell’arte retorica che è prerogativa di una grande accademia come quella di Alessandria d’Egitto nella tradizione propria dell’ellenismo. Il testo ha la forma del panegirico, del discorso elogiativo, encomiastico. Invece di rivolgersi a un personaggio o ad una città o a una popolazione, l’autore del discorso, maestro nell’arte retorica, si rivolge alla Sapienza, Sapienza di Dio, il rivelarsi di Dio: è nella Sapienza che viene individuato il personaggio che merita un adeguato e consapevole elogio. L’autore del discorso è un giudeo, radicato nel contesto culturale della diaspora, fortemente condizionato dall’ambiente di lingua greca (e qui si tratta di una grecità molto raffinata), con la competenza di chi ha raggiunto livelli accademici molto sofisticati. Ebbene, questo giudeo che vive ad Alessandria in Egitto ed è esperto conoscitore della Sacra Scrittura, ben radicato nella tradizione del suo popolo – il testo che stiamo leggendo ce lo dimostra – è più che mai qualificato per quanto riguarda l’impiego dello strumento tecnico, retorico, che la cultura ellenistica mette a sua disposizione.

La prima parte del discorso è quella che abbiamo letto nei primi cinque capitoli e il nostro maestro è ritornato a considerare la Sapienza in quanto rivelazione di quella vocazione alla vita che è contenuto di tutta l’iniziativa di Dio, nel contesto della creazione, attraverso la storia dell’umanità per quanto questa storia sia stata compromessa, inquinata, deviata in seguito alla ribellione degli uomini peccatori: la vocazione alla vita, come Dio si è rivelato.

I potenti imparino: il potere è servizio

Cap. 6. La seconda parte del discorso va dal cap. 6 al cap. 9; è quella centrale e di per sé è il vero e proprio elogio della Sapienza; l’allocuzione encomiastica è concentrata qui. I capitoli da 1 a 5, che costituiscono la prima parte del discorso, hanno creato il clima, dimostrando come il tema sia grave, importante, decisivo, vitale. Qui rispunta, in modo dichiarato, in prima persona, la figura di Salomone. Il nostro maestro, rispettando quelle che sono le regole del gioco retorico, assume i panni del sapiente per antonomasia; del patrono di tutta la tradizione sapienziale. Ed è Salomone che si rivolge agli altri “re”: “Ascoltate, o re”. In realtà, nella prima parte, l’ultimo versetto del cap. 5 (v. 23) già conteneva un accenno ai “potenti” e qui si innesta la ripresa, all’inizio della seconda parte: “Ascoltate, o re”. La regalità alla quale qui si fa riferimento è la qualità della vita, la qualità di quella vocazione che finalmente si realizza e che fa tutt’uno con l’accoglienza della vocazione alla vita: chi accoglie la Sapienza ed entra in questo itinerario di coinvolgimento sapienziale nella relazione con il mistero del Dio vivente, regna. È in discussione quella regalità che è intrinseca alla vocazione umana di tutti e di ciascuno in quanto è la Sapienza di Dio che si riversa come dimostrazione che il Dio vivente, il Santo, fa sul serio e vuole realmente riportare gli uomini a quella pienezza della vita che fu loro donata fin dall’inizio. Entrare in questa prospettiva di conversione alla vita piena è lo stesso che imparare a regnare. Il Regno viene così.

Vv. 1-8. La seconda parte, quella centrale. Un invito che si sviluppa in modo molto lineare ma suggestivo per noi con l’aggiunta di alcuni versetti che ci portano al v. 11. “Ascoltate, o re (questo è l’atteggiamento fondamentale che il nostro maestro chiede a coloro ai quali rivolge il suo discorso) e cercate di comprendere; imparate, governanti di tutta la terra. Porgete l’orecchio, voi che dominate le moltitudini e siete orgogliosi per il gran numero dei vostri popoli”. Se si rivolge ai sovrani di questo mondo è per metterli in riga, per dire: “fate attenzione perché voi siete apprendisti e la posizione pubblica che vi riguarda in quanto siete re, governanti, dominatori, conferisce all’apprendistato di cui avete bisogno il valore di una testimonianza ancor più seria e impegnativa”. L’ascolto che il nostro maestro richiede indica un’impostazione della vita che ha tutte le caratteristiche di un discepolato. “Imparate, cercate di comprendere, porgete l’orecchio”: se di sovrani si tratta è nel senso di tutti gli uomini che sono chiamati alla vita e per i quali la strada di questo apprendistato si apre in quanto man mano impareranno ad ascoltare. “C’è una parola per voi, c’è un messaggio per voi”, e questo vale per tutti. In questa prospettiva di radicale coinvolgimento del vissuto, che si apre alle forme proprie del discepolato, sta quella nota regale che, secondo l’intenzione di Dio, è prerogativa di ogni creatura umana chiamata alla vita: “porgete l’orecchio”. V. 3: “La vostra sovranità proviene dal Signore (subito un radicale ridimensionamento di quel che è l’esercizio della sovranità perché in tutto voi siete debitori nei confronti di Dio);

la vostra potenza dall’Altissimo, il quale esaminerà le vostre opere e scruterà i vostri propositi; poiché, pur essendo ministri del suo regno, non avete governato rettamente
(toni un po’ provocatori e addirittura sferzanti non gli sono minimamente estranei: dà per scontato che ha a che fare con gente che ha già in molti modi e più volte perso l’occasione di accogliere sul serio la propria vocazione alla vita),
né avete osservato la legge né vi siete comportati secondo il volere di Dio.
Con terrore e rapidamente egli si ergerà contro di voi

(l’iniziativa di Dio non si è ritirata, non è latitante, non è rinunciataria, in nessun modo; e quando si parla di “terrore” questo fa tutt’uno con la dimostrazione di come il Dio vivente sia intransigente sul valore di quella vocazione alla vita che egli ha donato agli uomini: non è il terrore nel senso del suo gusto di spaventare, ma nel senso di come sia confermata la sua iniziativa nei nostri confronti)
poiché un giudizio severo si compie contro coloro che stanno in alto”.

C’è una vocazione alla vita, donata agli uomini, a cui Lui non ha rinunciato, non rinuncia, non rinuncerà mai. Ascoltate bene e vedete come subito quell’autorità, che a questo punto assume un significato che è da reinterpretare in base a quello che è il vissuto di tutti e di ciascuno, è responsabilità di chi assume il valore del dono che ha ricevuto; e vedete come dice
L’inferiore è meritevole di pietà”: non c’è potere che sia intrinseco a quel dono che viene da Dio per cui gli uomini sono chiamati alla vita e in quel dono è intrinseca un’autorità, una sovranità, un potere; ebbene, non c’è potere – chiamiamolo così – che non sia conferito da Dio, perché tutto è dono suo, in vista della pietà per i deboli. “L’inferiore è meritevole di pietà, (questa non è la scuola nella quale i potenti imparano ad esercitare il potere; questa è la scuola nella quale i potenti sono chiamati a rendersi conto di come il loro potere è svuotato in relazione ai deboli bisognosi di pietà) ma i potenti saranno esaminati con rigore (in rapporto all’eraklitos – dice qui – l’inferiore, il più piccolo, il minore).

Il Signore di tutti non si ritira davanti a nessuno, non ha soggezione della grandezza, perché egli ha creato il piccolo e il grande e si cura ugualmente di tutti. Ma sui potenti sovrasta un’indagine rigorosa
(quella vocazione alla vita che è confermata e adesso con potenza valorizzata dalla Sapienza di Dio, rivelazione per noi, comporta una responsabilità che, quale che sia il livello, il contesto, la competenza di ciascuno, si misura in riferimento alla debolezza altrui. Imparare a vivere alla scuola della Sapienza significa imparare a stare nelle relazioni che coinvolgono tutte le altre creature di Dio così da assumere la responsabilità di tutto e di tutti).
Pertanto a voi, o sovrani, sono dirette le mie parole (a voi sovrani, in greco tyranni), perché impariate la sapienza e non abbiate a cadere. Chi custodisce santamente le cose sante sarà santificato
(qui è proprio in questione il cammino di ritorno alla sorgente della vita che è la santità del Dio vivente. E’ la vita, è la vita ritrovata, recuperata, restaurata, è il ritorno alla sorgente della vita e il nostro maestro ci sta invitando ad accogliere la Sapienza perché è in questo modo che la strada del ritorno alla sorgente della vita si apre per noi, per tutti, per ciascuno di noi e in questo cammino di ritorno alla sorgente della vita man mano verranno attivate, esplicitate, qualificate le responsabilità di ciascuno)
e chi si è istruito in esse vi troverà una difesa.
Desiderate, pertanto, le mie parole; bramatele e ne riceverete istruzione
”.

Notate che qui, alla fine di questo testo che fa da invito introduttivo della seconda parte, c’è un accenno molto marcato al desiderio. Constateremo tra non molto che il nostro maestro ritorna su questa necessaria pedagogia del desiderio. Bisogna rieducare il desiderio per prendere sul serio questo itinerario di conversione alla vita che è la molla che dall’interno sostiene, sospinge, anima, trascina tutte quelle relazioni che danno forma alla nostra vocazione alla vita. Il desiderio è implicato in questo apprendistato, discepolato, in questa educazione.

La Sapienza si lascia trovare da chi intensamente la cerca

Dal v. 12 al v. 20 si aggiunge un testo che già ci orienta verso la Sapienza per contemplarla, per riconoscerla, per constatare come essa merita di essere elogiata, ma nello stesso tempo è ancora un testo interlocutorio; siamo ancora alle prese con un intermezzo.

La sapienza è radiosa e indefettibile
(ci parla della sapienza con due aggettivi dotati di un significato inconfondibile. E’ incorruttibile la Sapienza, è splendente, irraggia una luminosità che dilaga senza impedimenti e nel seguito ci incoraggia a ricercare la Sapienza e spiega che questa ricerca è intrinsecamente facilitata dal fatto che più la ricerchiamo, più constatiamo che siamo ricercati da essa: mentre la ricerchiamo ci accorgiamo che già la Sapienza ci aspetta, ci viene incontro, si è già messa in cammino per ricercare noi che la stiamo ricercando; e, anzi: man mano che procediamo nella ricerca, ci accorgiamo di essere noi ricercati e questo accenno alla ricerca è già perfettamente coordinato con quella rieducazione del desiderio a cui accennavo poco fa a proposito del v. 11. Su questo desiderio che deve essere rieducato ritorneremo dai vv. 17 in poi),
facilmente è contemplata da chi l’ama e trovata da chiunque la ricerca”. Chiunque la ricerca non ha difficoltà perchè “Previene, per farsi conoscere, quanti la desiderano”.

La Sapienza ci anticipa, ci precede; coloro che la desiderano scoprono che è già lei stessa che ci viene incontro in virtù di una sua iniziativa che ci vuole coinvolgere per farsi conoscere. Voi sapete bene che il verbo “conoscere”, qui come in tanti altri casi e poi in tutto il linguaggio biblico è un verbo che implica un coinvolgimento relazionale, affettivo, tant’è vero che nei versetti che abbiamo sotto gli occhi già conferiscono alla Sapienza l’immagine di una figura femminile che è ricercata come una sposa desiderata quando in realtà, poi, c’è da scoprire come sia lei stessa che non solo ci attende, ma già ci viene incontro con l’incontenibile, inesauribile testimonianza del suo fascino.

Chi si leva per essa di buon mattino non faticherà, la troverà seduta alla sua porta.
Riflettere su di essa è perfezione di saggezza, chi veglia per lei sarà presto senza affanni

(la sua presenza va ben oltre i limiti della nostra veglia serale).
Essa medesima va in cerca di quanti sono degni di lei, appare loro ben disposta per le strade, va loro incontro con ogni benevolenza”.

Noi siamo prevenuti; la cerchiamo? Il suo fascino già ci ha conquistati. E’ un incoraggiamento, vedete. E insiste, vv. 17-20, una seconda strofa che è costruita secondo quella certa figura letteraria che i tecnici chiamerebbero il sorite, per cui il predicato dell’affermazione precedente diventa il soggetto dell’affermazione seguente:

Suo principio assai sincero è il desiderio d’istruzione; la cura dell’istruzione è amore; l’amore è osservanza delle sue leggi; il rispetto delle leggi è garanzia di immortalità e l’immortalità fa stare vicino a Dio. Dunque il desiderio della sapienza conduce al regno”.

Desiderio d’istruzione: è il principio della Sapienza e mette insieme le affermazioni che si susseguono per arrivare al v. 20: “Dunque il desiderio della sapienza conduce al regno”. Desiderio della Sapienza è il timore del Signore; ma lui preferisce parlare di “desiderio” che conduce al Regno, alla regalità, alla vita. Non c’è dubbio: la necessità di filtrare, di precisare, di rieducare il desiderio gli sta molto a cuore.

V. 21. In modo sempre più preciso parlerà in prima persona singolare, parlerà di se stesso:
Se dunque, sovrani dei popoli, vi dilettate di troni e di scettri, onorate la sapienza, perché possiate regnare sempre”.
V. 22: “Esporrò che cos’è la sapienza e come essa nacque; non vi terrò nascosti i suoi segreti (mystiria). Seguirò le sue tracce fin dall’origine, metterò in luce la sua conoscenza, non mi allontanerò dalla verità”.
La Sapienza di cui ci vuol parlare è massimamente democratizzata: “io non ho segreti, non vi sto proponendo un discorso che riguarda una consorteria, un gruppo di raffinati cultori di chissà quali dottrine, oppure gli addetti a chissà quali attività privilegiate; no, non vi terrò nascosti i suoi segreti”.

Una pre-condizione: lasciare l’invidia

Rileggo, vv. 22-25: “Esporrò che cos’è la sapienza e come essa nacque: non vi terrò nascosti i suoi segreti (Mystiria). Seguirò le sue tracce fin dall’origine, metterò in luce la sua conoscenza, non mi allontanerò dalla verità. Non mi accompagnerò con l’invidia che consuma, poiché essa non ha nulla in comune con la sapienza”.

In contrapposizione a questa proposta rivolta alla totalità degli uomini (in una dimensione ecumenica che è stata segnalata fin dall’inizio, in una prospettiva di universalità da cui nessuno è escluso) l’invidia. Essa è un inquinamento radicale che offende, mortifica, brutalizza il desiderio. Ricordate, nel cap. 2, al v. 24, si dice che per“invidia”del diavolo la morte è entrata nel mondo.

L’abbondanza dei saggi è la salvezza del mondo; un re saggio è la salvezza di un popolo. Lasciatevi dunque ammaestrare dalle mie parole e ne trarrete profitto”.
Siamo veramente convocati tutti per essere introdotti in questo itinerario di apprendistato, in questo discepolato e qui c’è di mezzo la progressiva qualificazione del desiderio che apre la nostra vita dalle fondamenta a tutte le relazioni che Dio stesso ha voluto donarci.

L’uomo è fragile e mortale, in debito per tutto

Cap. 7. E’ il centro della seconda parte, dal v. 1 a tutto il capitolo 8. E poi c’è il centro del centro che in questo momento assume un’andatura prettamente autobiografica. Il nostro maestro, sotto i panni di Salomone, parla di sé. Sette quadri: tre, più uno, più tre; i primi tre quadri, il quadro centrale (è il centro del centro), altri tre quadri.

V. 1, primo quadro. “Anch’io sono un uomo mortale come tutti, discendente del primo essere plasmato di creta. Fui formato di carne nel seno di una madre, durante dieci mesi consolidato nel sangue, frutto del seme d’un uomo e del piacere compagno del sonno. Anch’io appena nato ho respirato l’aria comune e sono caduto su una terra uguale per tutti
(vedete: iniziale respiro; poi ho pianto come un bambino; sono stato buttato sulla terra; come tutti ho levato nel pianto il mio primo grido),
levando nel pianto uguale a tutti il mio primo grido. E fui allevato in fasce e circondato di cure; nessun re iniziò in modo diverso l’esistenza. Si entra nella vita e se ne esce alla stessa maniera”.

Dalla nascita alla morte io sono un uomo come tutti gli altri e un uomo – qui è il punto – bisognoso di tutto, come quel bambino che vive in quanto c’è qualcuno che si prende cura di lui. Sono nato – questa è l’impronta determinante conferita alla mia vocazione alla vita – come rivelazione di un’iniziativa che gratuitamente si è manifestata a me e che, attraverso di me, si è andata a inserire nel contesto di un ambiente che mi ha accolto, una terra che mi ha sopportato, qualcuno che ha ascoltato le mie lacrime, ha alimentato in me l’esigenza biologica dell’alimentazione per sopravvivere. Sono nato così e sono uomo così: nel debito verso tutti, gratuitamente gettato nel mondo; il fatto stesso che io ci sia, uomo tra gli uomini, mi costituisce nell’esperienza della gratuità che viene prima, che è durante, che è conclusiva di tutto quel che mi riguarda nella condizione umana. E questo per ogni re che nasce in questo mondo.

Secondo quadro, dal v.7 al v. 12:Per questo pregai”. Salomone rievoca quello che è stato il suo itinerario nel cammino della vita e qui parla di se stesso come di un uomo che è andato man mano rendendosi conto di quel dato primario, costitutivo fin dall’inizio: la gratuità della vita. E parla di sé come è andato maturando nell’apprendistato della preghiera: “ho imparato a pregare”. Preghiera, qui, in un senso molto ampio e, al tempo stesso, qualificato: progressiva maturazione nella consapevolezza del gratuito, di come effettivamente il mondo intorno a lui gli si è andato configurando come trasparenza di una straordinaria ricchezza di doni; tutti i beni della terra, tutte le altre creature dell’universo, tutto, sempre, dappertutto, per lui è divenuto motivo per pregare, ossia per benedire Dio, per riconoscere la misteriosa gratuità dell’iniziativa di Dio e motivo per sperimentare l’allegrezza che rende massimamente gustosa la vita.

La Sapienza è madre di tutti i beni

Per questo pregai e mi fu elargita la prudenza; implorai e venne in me lo spirito della sapienza. La preferii a scettri e a troni, stimai un nulla la ricchezza al suo confronto; non la paragonai neppure a una gemma inestimabile, perché tutto l’oro al suo confronto è un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte ad essa l’argento. L’amai più della salute e della bellezza, preferii il suo possesso alla stessa luce
(ricchezza, salute, bellezza, luce: è un modo per ricapitolare tutti i beni della terra, e questa capacità di apprezzare le ricchezze che sono nel mondo, la bellezza di tutte le creature di Dio, la gratuità di ogni creatura che è incastonata nella luce; questa è la preghiera a cui lui si è dedicato in modo continuo, assiduo),
perché non tramonta lo splendore che ne promana
(la luce, nella nostra esperienza immediata, è poi superata dall’avvento della notte e poi tornerà la luce; invece, la Sapienza non tramonta, lo splendore che promana dalla Sapienza non viene mai meno e allora anche la notte è nella luce, è luminosa, splende; anche la notte è creatura che lascia trasparire l’inesauribile fecondità di quel grembo misericordioso da cui tutto proviene, il grembo di Dio).
Insieme con essa mi sono venuti tutti i beni; nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile. Godetti (il gusto che è diventato proprio il motivo di interiore ispirazione della mia vita) di tutti questi beni, perché la sapienza li guida, ma ignoravo che di tutti essa è madre”.

Interessante, vedete, perché dice: tutto questo ho appreso – ho imparato a pregare – mentre ero ancora nell’ignoranza circa il fatto che la Sapienza è “ghénetis”, è genitrice, è madre di ogni cosa buona; tutto quello che nel silenzio e, d’altra parte, nella gratuità è costantemente donato a noi, donato a me; e nella ignoranza, senza averci ragionato sopra, senza avere chiarito un quadro ideologico o teologico che giustificasse questa situazione, io pregavo. La Sapienza è genitrice, è il grembo della misericordia che contiene tutto e da cui tutto proviene. E noi, incastonati in questa luce intramontabile per cui ogni creatura è un dono d’amore. “Pregai”.

Un itinerario superiore a ogni altro sapere

Terzo quadro, dal v. 13 al v. 21: Salomone dice di se stesso che il suo cammino nella vita è andato poi maturando nella dimensione dello studio. “Senza frode imparai e senza invidia io dono”. Notate: “Imparai”, dice, e da quel che ha imparato è derivata la sua responsabilità magistrale; discepolo e maestro. Tutto l’itinerario di una vita, dedicata allo studio, egli lo ha percorso; ha appreso ed ha insegnato. Una continuità per cui chi apprende insegna e nello stesso tempo chi insegna è sempre apprendista; il maestro è sempre discepolo; la relazione tra maestro e discepolo è costante evento di comunione. Parla di questo suo studio che gli si è andato intrinsecamente trasformando in una responsabilità magistrale.

Essa è un tesoro inesauribile per gli uomini; quanti se lo procurano si attirano l’amicizia di Dio, sono a lui raccomandati per i doni del suo insegnamento Mi conceda Dio di parlare secondo conoscenza e di pensare in modo degno dei doni ricevuti e di pensare in modo degno dei doni ricevuti perché egli è guida della sapienza e i saggi ricevono da lui orientamento.
In suo potere siamo noi e le nostre parole, ogni intelligenza e ogni nostra abilità. Egli mi ha concesso la conoscenza infallibile delle cose, per comprender la struttura del mondo e la forza degli elementi, il principio, la fine e il mezzo dei tempi, l’alternarsi dei solstizi e il susseguirsi delle stagioni
, il ciclo degli anni e la posizione degli astri, la natura degli animali e l’istinto delle fiere, i poteri degli spiriti e i ragionamenti degli uomini, la varietà delle piante e le proprietà delle radici. Tutto ciò che è nascosto e ciò che è palese io lo so poiché mi ha istruito la sapienza, artefice di tutte le cose”.

Notate che qui, alla fine del terzo quadro, usa il sostantivo “teknitis”, artigiana (alla fine del secondo quadro usava il sostantivo “ghénetis”, genitrice). In tutto quello che Salomone ha studiato e man mano imparato ad esprimere con un linguaggio adeguato, quindi anche a comunicare ad altri, il riconoscimento di come sia presente la Sapienza che costruisce dall’interno le realtà del mondo, nell’aspetto del mondo visibile, ma anche del mondo invisibile, nella profondità, nei segreti, nelle situazioni più impenetrabili; è la Sapienza che sta costruendo; è la Sapienza che noi impariamo ad accogliere e che ci insegna ad usare delle cose che sono nel mondo, e di noi stessi nel mondo e delle relazioni fra di noi in modo positivamente efficace per la vita: Sapienza artigiana.

Elogio e descrizione della Sapienza: l’Amata da Dio

Qui, il centro del centro, dal v. 22 al v. 1 del cap. 8. E’ proprio l’elogio, sintetizzato al massimo, della Sapienza. Tre strofe, la seconda è il centro del centro del centro.

Prima strofa dal v. 22 al v. 24:
In essa c’è (qui sciorina ben 21 attrributi della Sapienza, sette per tre, con una coda aggiuntiva, che leggiamo di corsa; servono ad esprimere sfaccettature sempre più trasparenti di quella misteriosa gratuità che è la struttura portante dell’universo, nel tempo e nello spazio: la gratuità dell’iniziativa di Dio)
uno spirito intelligente, santo, unico, molteplice, sottile, mobile, penetrante, senza macchia, terso, inoffensivo, amante del bene, acuto, libero, benefico, amico dell’uomo, stabile, sicuro, senz’affanni, onnipotente, onniveggente e che pervade tutti gli spiriti intelligenti, puri, sottilissimi
(si aggiunge questo spirito che invade tutti gli spiriti; una presenza che sostiene dall’interno tutti i movimenti, tutte le tensioni, tutti gli impulsi, tutte le relazioni).
La sapienza è il più agile di tutti i moti; per la sua purezza si diffonde e penetra in ogni cosa”.
La Sapienza qui è contemplata come presenza dotata della massima mobilità, che si effonde in ogni realtà.

Seconda strofa, vv. 25-26,
versetti che sono il perno di tutto il discorso. La Sapienza, così come il nostro maestro la contempla in rapporto a Dio.
È un’emanazione della potenza di Dio, un effluvio genuino della gloria dell’Onnipotente, per questo nulla di contaminato in essa s’infiltra. È un riflesso della luce perenne, uno specchio senza macchia dell’attività di Dio e un’immagine della sua bontà”.
E’ quel che, a modo mio e con la pesantezza e ripetitività del mio linguaggio, definivo il rivelarsi di Dio. Vedete come il suo linguaggio è ricco, variegato, raffinato. Nel mistero di Dio questa volontà di comunicare, questa sua inesauribile fecondità nel rivelarsi; e la Sapienza è proprio rivelazione per noi di quell’intimità di Dio che si apre, che comunica, che vuole effondersi.

Terza strofa, vv. da 27 fino al v. 1 del cap. 8:
la Sapienza che è per noi rivelazione di quell’inesauribile ricchezza di vita, di quella pregnanza di vita, di quella volontà di vita che è nell’intimo…; la Sapienza in rapporto al mondo, operante nel mondo.
Sebbene unica, essa può tutto; pur rimanendo in se stessa tutto rinnova e attraverso le età entrando nelle anime sante, forma amici di Dio e profeti
(il mondo, la storia: è la Sapienza di Dio, è il rivelarsi del segreto che il Dio vivente custodisce da sempre nella sua intimità; adesso è effusa nel mondo. E’ amata da Dio nel mondo. Dio ama nel mondo la Sapienza che è rivelazione di lui: nel mondo ama la Sapienza che è il suo stesso rivelarsi).
Nulla infatti Dio ama se non chi vive con la sapienza. Essa in realtà è più bella del sole e supera ogni costellazione di astri; paragonata alla luce, risulta superiore; a questa, infatti, succede la notte, ma contro la sapienza la malvagità non può prevalere. Essa si estende da un confine all’altro con forza, governa con bontà eccellente ogni cosa”.

Il testo che abbiamo sotto gli occhi costituisce un punto di riferimento per tutta una ricerca teologica che andrà maturando successivamente. Ci sono aspetti della Sapienza che conducono evidentemente a quella rivelazione di Dio, nella Parola, di cui ci parla il Nuovo Testamento. Ma c’è una rivelazione di Dio nello Spirito di cui pure ci parla il Nuovo Testamento. E quel che nel N. T. poi viene man mano distinguendosi è la Sapienza di Dio come Parola che si fa carne. La Sapienza di Dio come Spirito effuso. Nel N. T. il linguaggio si articola con una prospettiva che acquista, in modo sempre più determinato, il valore di una rivelazione nella vita trinitaria di Dio. Sapienza qui è il rivelarsi di Dio nella Parola? Modo di procedere che si fa sempre più determinato fino all’incarnazione. Rivelarsi di Dio nella effusione? Un modo di procedere che si espande in modo tale da allargare il respiro? E’ il rivelarsi di Dio. Il nostro maestro sta contemplando il mistero trinitario, non come una curiosità relegata nelle altezze celeste, ma il mistero trinitario come rivelazione per noi di come Dio crea il mondo e tutto fa convergere verso la vita.

Tre quadri, dunque: Salomone in forma autobiografica ha descritto quello che gli è capitato. Un uomo buttato nel mondo e qualcuno si è preso cura di me; apprendista nella preghiera, alle prese con la madre di ogni bontà e di ogni bellezza, la Sapienza; un uomo allo studio maturato nell’esperienza della trasmissione magistrale scoprendo di essere in costante collaborazione con la Sapienza che è l’artigiana del mondo.

Innamorarsi di Lei

Dal v. 2 al v. 9 del cap. 8: Questa ho amato…” Il nostro maestro, dice: “io sono un uomo innamorato. Questo è l’amore che ha sostenuto e strutturato il cammino della mia vita: un amore precoce, fedele, duraturo. Già precedentemente leggevamo quei versetti nei quali la figura della Sapienza era intravista come la figura femminile di una sposa ricercata. Qui è esplicito il riferimento alla Sapienza come alla “compagna” della vita.Il fascino della Sapienza tanto amata è travolgente: la sua nobiltà, la sua ricchezza, la sua intelligenza, le virtù di cui noi abbiamo bisogno per vivere, perché sia inquadrata, impostata e valorizzata positivamente la nostra vita; il discernimento di cui abbiamo bisogno per districarci in mezzo alle situazioni impervie per vivere.

Compagna perfetta della vita

Si aggiunge il secondo quadro di questa seconda serie. Dal v. 10 al v. 16: “Per essa avrò gloria fra le foll…” Adesso Salomone dice di se stesso che la sua esperienza di uomo innamorato ha fatto di lui un uomo appagato; e questo dice in rapporto alle responsabilità pubbliche che hanno caratterizzato la sua vita. E questo riguarda ogni uomo di questo mondo nella particolarità della sua vocazione; e questo per quanto riguarda il riposo nell’intimità della vita.
Il nostro maestro ci dà testimonianza di come il suo cammino, nel contesto di quell’innamoramento di cui ci parlava, ha fatto di lui un uomo appassionato nelle responsabilità pubbliche e l’intimo della sua casa è divenuto un luogo che si è aperto in virtù di una capienza smisurata che contiene il mondo: quella che per noi potrebbe apparire una contraddizione – l’impegno pubblico e il riposo nel ricovero domestico – in realtà è sparita perché l’attività pubblica è affrontata con l’inesauribile freschezza di unìintimità occupata da una passione amorosa e il riposo domestico è abitato dalla relazione con il mondo.

Inaccessibile all’uomo; solo Dio può donarla

Terzo quadro, dal v. 17 al v. 21. Era partito Salomone dal dir di sè “io sono un uomo venuto al mondo come tutti gli altri uomini e mi son trovato ad essere, io, il contenuto di un dono e c’è qualcuno che mi ha accolto; se non ci fosse stato qualcuno a prendersi cura di me io non ci sarei. Ma io ci sono perché sono stato riconosciuto e sono dunque strutturalmente segnato da questo debito che sta alla radice di tutto il mio cammino nella vita”.
E adesso dice: “Riflettendo su tali cose in me stesso…”
Salomone si rivolge a noi – dopo tutto quello che ci ha detto e che conferma – assumendo la posizione di un uomo che è posto di fronte al proprio mistero. Il mistero della propria vita, della propria vocazione alla vita, della relazione con la Sapienza, della nascita e della morte; il mistero della relazione con il mondo. Vedete come ci siamo trovati alle prese con la totalità delle creature di Dio nel tempo e nello spazio. Ecco il mistero che sono io per me stesso. “Andavo cercando come prenderla con me”: lui qui afferma che, crescendo, progredendo, avanzando in quel discepolato, in quella ricerca, in quel cammino di discernimento, di apprendistato, è cresciuta in lui la consapevolezza che il cuore umano non è in grado di procurarsi da sé, di possedere la Sapienza. Ma lui qui si rende conto che c’è un mistero nell’abisso profondissimo che si spalanca nel cuore umano che non può essere sintetizzato, considerando semplicemente un’unione di corpo e di anima; e allora dice: “Sapendo che non l’avrei altrimenti ottenuta se Dio non me l’avesse concessa…”

Segue al cap. 9 un’invocazione impostata alla maniera di una supplica: il cuore umano, nella relazione con la Sapienza, è praticamente sprovveduto; non ci sono titoli di merito che autorizzino il cuore umano a possedere la Sapienza. La Sapienza è sempre, per noi, il dono che viene da Dio. D’altra parte è proprio qui che il nostro maestro vuole condurci: il cuore umano – quel cuore di cui io non vengo a capo, che è il mio cuore e che è in me un mistero insolubile, un mistero indiscernibile, sfuggente ad ogni mia capacità di controllo, di verifica, di gestione – non può accedere alla Sapienza. Come è possibile, allora, avanzare nella prospettiva, nel cammino, nella vocazione alla vita? Giunto al termine del percorso può tornare indietro e affermare: questo è possibile perché è la Sapienza di Dio che si impossessa del cuore umano; non è il cuore umano che può possederla, è la Sapienza di Dio che si insedia come sovrana e maestra nel cuore di ogni uomo, di un pover uomo come me che non saprebbe altrimenti dove andare a parare. E quindi qui la grande supplica, nel cap. 9, “manda la Sapienza, invia la Sapienza”. Se non fosse per la Sapienza che viene da Dio noi non saremmo in grado di vivere.

Il cap. 9 fa parte ancora della seconda sezione, la parte centrale. Poi dal cap. 10 è tutta una ricostruzione della storia della salvezza, una specie di illustrazione grande, molto articolata; l’illustrazione di come la Sapienza di Dio è maestra del cuore umano. E’ la storia della salvezza, è la storia del ritorno alla vita.

P. Pino Stancari sj
2009
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