Natività di Giovanni Battista
24 Giugno 


Natività S. Giovanni Battista


Per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. (…) Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccarìa. Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. All’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio.
Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui. (…)

La nascita del Battista ci insegna che i figli non sono nostra proprietà
Ermes Ronchi

Il passaggio tra i due Testamenti è un tempo di silenzio: la parola, tolta al sacerdozio, volata via dal tempio, si sta intessendo nel ventre di due madri, Elisabetta e Maria. Dio scrive la sua storia dentro il calendario della vita, fuori dai recinti del sacro.
Zaccaria ha dubitato. Ha chiuso l’orecchio del cuore alla Parola di Dio, e da quel momento ha perso la parola. Non ha ascoltato, e ora non ha più niente da dire. Eppure i dubbi del vecchio sacerdote (i miei difetti e i miei dubbi) non fermano l’azione di Dio. Per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio… e i vicini si rallegravano con la madre.
Il bambino, figlio del miracolo, nasce come lieta trasgressione, viene alla luce come parola felice, vertice di tutte le natività del mondo: ogni nascita è profezia, ogni bambino è profeta, portatore di una parola di Dio unica, pronunciata una volta sola.
Volevano chiamare il bambino con il nome di suo padre, Zaccaria. Ma i figli non sono nostri, non appartengono alla famiglia, bensì alla loro vocazione, alla profezia che devono annunciare, all’umanità; non al passato, ma al futuro.
Il sacerdote tace ed è la madre, laica, a prendere la parola. Un rivoluzionario rovesciamento delle parti. Elisabetta ha saputo ascoltare e ha l’autorevolezza per parlare: «Si chiamerà Giovanni», che significa dono di Dio (nella cultura biblica dire “nome” è come dire l’essenza della persona).
Elisabetta sa bene che l’identità del suo bambino è di essere dono, che la vita che sente fremere, che sentirà danzare, dentro di sé viene da Dio. Che i figli non sono nostri, vengono da Dio: caduti da una stella fra le braccia della madre, portano con sé lo scintillio dell’infinito. E questa è anche l’identità profonda di noi tutti: il nome di ogni bambino è “dono perfetto”.
E domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse… Il padre interviene, lo scrive: dono di Dio è il suo nome, e la parola torna a fiorire nella sua gola. Nel loro vecchio cuore i genitori sentono che il piccolo appartiene ad una storia più grande. Che il segreto di tutti noi è oltre noi.
A Zaccaria si scioglie la lingua e benediceva Dio: la benedizione è un’energia di vita, una forza di crescita e di nascita che scende dall’alto e dilaga. Benedire è vivere la vita come un dono: la vita che mi hai ridato/ ora te la rendo/ nel canto (Turoldo).
Che sarà mai questo bambino? Grande domanda da ripetere, con venerazione, davanti al mistero di ogni culla. Cosa sarà, oltre ad essere vita che viene da altrove, oltre a un amore diventato visibile? Cosa porterà al mondo questo bambino, dono unico che Dio ci ha consegnato e che non si ripeterà mai più?

Giovanni, il Signore fa grazia
Enzo Bianchi

 La solennità della Natività di san Giovanni il Battista prevale sul lezionario domenicale. All’inizio dell’estate si celebra questa grande festa, una ricorrenza antichissima, già attestata da sant’Agostino in Africa. Accanto a Maria, la madre del Signore, Giovanni il Battista è il solo santo di cui la chiesa celebri non solo il giorno della morte, il dies natalis alla vita eterna, ma anche il dies natalis in questo mondo: di fatto, Giovanni è il solo testimone di cui il Nuovo Testamento ricorda la nascita, così intrecciata con quella di Gesù. Ed è proprio questo intersecarsi di vicende che ha portato alla scelta della data del 24 giugno per celebrarne la memoria: se la chiesa ricorda la nascita di Gesù il 25 dicembre, non può che ricordare quella di Giovanni al 24 giugno, essendo essa avvenuta, come testimonia il vangelo secondo Luca, sei mesi prima.
Il parallelismo di queste date contiene anche una simbologia, almeno nel bacino del Mediterraneo che è stato il crogiolo della fede ebraico-cristiana: se il 25 dicembre, solstizio d’inverno, è la festa del sole vincitore, che comincia ad accrescere la sua declinazione sulla terra, il 24 giugno, solstizio d’estate, è il giorno in cui il sole comincia a calare di declinazione, proprio come è avvenuto nel rapporto del Battista con Gesù, secondo le parole dello stesso Giovanni: “Egli deve crescere e io diminuire” (Gv 3,30). Giovanni è il lume che decresce di fronte alla luce vittoriosa; è la lampada preparata per il Messia (cf. Sal 132,17 e Gv 5,35); è il suo precursore nella nascita, nella missione e nella morte; è il maestro di Gesù, suo discepolo che lo segue; è l’amico di Gesù, lo Sposo veniente, come dice giustamente il quarto vangelo (cf. Gv 3,29).
Potremmo addirittura dire che il vangelo è la storia sincronica di due profeti, Giovanni e Gesù, con la loro profondissima singolarità, la loro specifica chiamata, ma anche con la loro sostanziale unanimità nel perseguire i disegni di Dio, con la stessa risolutezza a servizio del Regno. Sì, purtroppo oggi la figura del Battista non ha più il posto che merita nella memoria e nella consapevolezza dei cristiani: dopo il primo millennio e la metà del secondo – in cui Giovanni il Battista e Maria insieme rappresentavano il legame tra antica e nuova alleanza e insieme come intercessori stavano accanto al Veniente, il Signore glorioso, nella liturgia come nell’iconografia – la crescita del culto di molti santi diventati più popolari ha sopravanzato il Battista finendo per oscurarlo, avviando una deriva rischiosa per l’equilibrio della consapevolezza cristologica. Se la chiesa, ancora oggi, celebra come solennità la nascita del Battista è perché resta cosciente della centralità rivelativa di questa figura: nei sinottici la buona notizia dell’annuncio del Regno si apre sempre con Giovanni, così come il vangelo dell’infanzia di Gesù secondo Luca si apre con l’annuncio dell’angelo a Zaccaria (cf. Lc 1,5-25) e con il racconto della nascita prodigiosa di Giovanni.
Meditiamo dunque sul primo capitolo del vangelo secondo Luca. L’angelo del Signore si era presentato al sacerdote Zaccaria mentre questi nel tempio celebrava l’offerta dell’incenso e gli aveva rivelato la nascita di un figlio come esaudimento della preghiera sua e di sua moglie Elisabetta. Zaccaria, infatti, era vecchio e sua moglie sterile. Per tutta la vita avevano atteso un figlio e lo avevano invocato con fede, ma ora erano giunti a una vecchiaia senza futuro. Questo angelo, Gabriele, il messaggero della liberazione di Israele (cf. Dn 8,15-27; 9,20-27) e dell’ora messianica, rivela a Zaccaria il compimento di tutta l’attesa di Israele: il nascituro, ripieno di Spirito santo, camminerà davanti al Signore veniente e preparerà il popolo dei credenti ad accogliere la sua venuta.
Zaccaria, uomo giusto e irreprensibile davanti al Signore, è però turbato e pieno di timore, dunque chiede all’angelo come sia possibile questo, vista la sua vecchiaia e la sterilità della moglie: egli dunque resta incredulo, secondo il racconto evangelico, quindi non riesce più a parlare. “Ho creduto, per questo ho parlato”, dice il salmo (115 [116] LXX,10), perché la parola umana rivolta a Dio deve sempre scaturire dalla fede. Perciò Zaccaria non può benedire l’assemblea in preghiera nel tempio, e questa benedizione resterà interrotta fino a quando Gesù risorto la donerà alla sua comunità, salendo al cielo (cf. Lc 24,50-51).
Ma ecco che i giorni della gravidanza di Elisabetta si compiono e la sterile partorisce un figlio, destando gioia in tutti i suoi parenti e conoscenti, perché quel figlio appare un segno inconfutabile della misericordia di Dio. Il padre Zaccaria è però ancora nella condizione di non eloquenza, così la madre, con grande audacia e contro ogni consuetudine di quel tempo, impone al figlio della grazia il nome di Jochanan, che significa proprio “il Signore fa grazia”. La sterilità è diventata fecondità, l’umiliazione si è mutata in fierezza, l’attesa piena di fede vede il compimento da parte di Dio di ciò che era impossibile agli umani. Zaccaria ed Elisabetta erano degli ‘anawim, quei poveri curvati dalla vita che sperano solo nel Signore, ma ora proprio loro sono strumento, testimoni dell’azione di salvezza che Dio compie in favore di tutto Israele.
Non può passare inosservata la forza di Elisabetta la quale, contro la contestazione dei parenti, dà al figlio il nome designato dall’angelo Gabriele per indicare la missione affidata da Dio al nascituro. Se il nome Elisabetta significa “Dio ha promesso”, con la grazia manifestatasi nella nascita di Giovanni la promessa si è compiuta. E ora che la madre ha imposto il nome al bambino, si scioglie la lingua di suo padre Zaccaria, il quale pronuncia il famoso Benedictus, un salmo di benedizione al Dio di Israele che ha visitato e riscattato il suo popolo (cf. Lc 1,67-79).
Questa nascita prodigiosa testimonia che Giovanni è un uomo che soltanto Dio poteva dare a Israele: dono della misericordia di Dio, risposta a quanti, nella povertà, nell’umiltà e nella fede, avevano atteso con perseveranza per secoli la venuta del Messia, del Salvatore inviato da Dio. Ormai i tempi della nuova alleanza sono inaugurati, il precursore del Messia è presente e lo precede. Di più, lo riconosce al primo incontro, come avviene nella visita che Maria, gravida di Gesù, fa a Elisabetta, gravida di Giovanni (cf. Lc 1,39-45). Il Battista nasce dunque in una famiglia di ebrei credenti, ma la sua vocazione gli chiederà di lasciarla fin dall’adolescenza, per andare nel deserto fino al giorno della sua manifestazione a Israele. Giovanni si prepara alla missione perché fin dal concepimento la “mano di Dio” sta con lui.
Tutta la sua vicenda si interseca con quella di Gesù, e gli eventi della sua vita narrati nel vangelo non sono solo prefigurazioni di quelli che accadranno a Gesù, ma sono a essi sincronici, contemporanei, fino a sovrapporsi e a confondersi gli uni con gli altri: Giovanni e Gesù hanno vissuto insieme! E anche quando Giovanni sarà ucciso violentemente, la sua vita e la sua missione appariranno in pienezza in quella di Gesù. Non è certo un caso che il vangelo registri l’opinione del re Erode riguardo a Gesù: “È Giovanni Battista risorto dai morti” (cf. Mc 6,16), né che i discepoli riportino a Gesù il giudizio di alcuni contemporanei che dicevano di lui: “È Giovanni il Battista” (cf. Mc 8,28 e par.).
Quando Giovanni morirà, anticiperà la morte di Gesù e la prefigurerà come passione del profeta perseguitato e ucciso nella propria patria. Ma come nella sua morte anche Gesù muore, così nella resurrezione di Gesù anche Giovanni il Battista risorge.

Scuola di periferia
Antonio Savone


Natività S. Giovanni Battista


La natività di Giovanni Battista ci suggerisce una sorta di pellegrinaggio dello spirito nei luoghi della sua vita così da cogliere la provocazione della sua figura ancor prima che della sua parola. Quella del Battista deve essere stata una scuola tutta singolare se persino Gesù, il Figlio di Dio, ha sentito il bisogno di frequentarla, con compagni di classe che non erano certi della Gerusalemme o della Nazaret bene: pubblicani e peccatori.

A quella scuola Gesù ha imparato la più grande lezione che egli incarnerà nel suo annuncio e nel suo operare: Dio sta con i peccatori. Dio non è mai neutrale. Dio si rende presente nelle case di chi è senza speranza: i genitori di Giovanni erano l’incarnazione dell’impossibilità umana a generare vita. È un Dio compromesso con la sorte dei poveri, con la sorte di chi giace nelle tenebre e nell’ombra della morte. Dio fa grazia agli umili. Perciò qualcosa può cambiare nella linea normale delle generazioni e proprio mentre tutto sembra avviarsi verso un destino di morte, qualcuno riesce a marcare un ribaltamento delle sorti dell’umanità.

Una scuola di periferia, ai margini, nel deserto: quasi postazione privilegiata per guardare con disincanto la vita e ciò che presiede al suo ordinamento. Dalla periferia si alza la voce profetica che grida al suo popolo che la strada intrapresa non può portarlo se non verso il baratro. Penso ai nostri luoghi di periferia (non solo geografici, ma periferia del cuore, dello spirito)… A questa scuola si impara dapprima che il nostro è il Dio dei diseredati: persino una sterile, puntata a vista per il suo grembo infecondo, può ancora generare vita perché Dio è capace di tirar fuori vita anche nei luoghi della impossibilità conclamata. Dio ha la meglio sulla sterilità e sul silenzio.

A questa scuola si apprende poi che luoghi di culto e fede non necessariamente vanno a braccetto: pur nella cornice solenne del tempio, mentre si celebra la divina liturgia – come era accaduto a suo padre Zaccaria – non scontata è la fede. Anche lì può abitare l’incredulità se Dio lo si riduce all’ovvio e al risaputo. Dio è sempre altro, sempre oltre, mai riducibile a quello che di lui posso aver finora conosciuto.

A questa scuola si apprende ancora che si resta muti – cioè incapaci di leggere e dare un nome al reale – quando non si è più in grado di riconoscere l’opera di Dio.

A questa scuola si apprende poi che Dio lo si trova non nel ripetere stanco di tradizioni e abitudini ma nel riconoscere il modo nuovo in cui egli si rende presente. Il nome che gli verrà imposto, infatti, non si colloca nella linea del perpetuare un passato ma nella capacità di leggere il presente, nel leggere l’adesso di Dio: Dio fa grazia. Anche se non è affatto chiaro ciò che il futuro riserverà: che sarà mai di questo bambino? E penso all’incapacità di dare nomi nuovi al rendersi presente di Dio qui e ora, rischiando di riesumare un passato che non è più, cristallizzando modi antichi come modi perenni. Pur di famiglia sacerdotale Giovanni non si colloca nel filone del già stabilito ma in quello del deserto inteso come luogo di riconduzione all’essenziale del rapporto con Dio.

A questa scuola si apprende pure che c’è sempre chi, pur congratulandosi, tutto vorrebbe ridurre al codice del già visto: non c’è nessuno che si chiami con questo nome.

Alla scuola di Giovanni si apprende inoltre che ci si può salvare solo invertendo radicalmente rotta, creando un’interruzione del corso intrapreso.

Sempre alla scuola di Giovanni si conosce che siamo chiamati a indicare non il Gesù delle nostre aspettative, ma quello che si mostra nei segni poveri di una vita riannodata a cui  ridare speranza.

Da Giovanni si apprende che pur nel marcio della storia, Dio suscita germogli di speranza e spiragli di luce che chiedono di essere portati a maturazione e splendore. Giovanni si colloca lì a servizio di chi non si rassegna ma intravede il sorgere di qualcosa di nuovo.

Dal Battista si impara a leggere la nostra storia come quella di uomini e donne “mandati da Dio”. Consapevole che la sua vita è una vita voluta da Dio, Giovanni non si lascia travolgere dalla gloria che pure potrebbe derivare dal vedere che tanti accorrono a lui. Persona capace di riconoscere i lineamenti reali della propria persona e del suo compito, non si lascia sedurre da una immagine sproporzionata di sé. La grandezza del Battista consiste nello scoprire la grandezza altrui, quella di Gesù, sapendola accogliere.

Alla scuola di Giovanni e della sua natività, si apprende l’attenzione alle premesse, la cura delle preparazioni. La via al Signore è stata preparata da un uomo che poi accetta di farsi da parte. Quanti eventi, intuizioni, domande si incaricano forse di preparare un incontro e non godono la giusta attenzione solo perché immediatamente non circoscrivibili in un preciso quadro di riferimento.

Come vorrei che facessimo nostre le parole di don Primo Mazzolari, il quale, a mo’ di preghiera, così afferma: “Non ci interessa la carriera, non ci interessa il denaro, non ci interessa il successo, né di noi, né delle nostre idee; non ci interessa né l’essere eroi, né l’essere traditori davanti agli uomini; ci interessa perderci per qualcosa o per qualcuno”.