V Domenica di Pasqua (A)
Giovanni 14, 1-12

Letture:

  • Prima lettura – Atti degli Apostoli 6,1-7
    I Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al servizio della Parola».
  • Seconda lettura – Prima lettera di san Pietro apostolo 2,4-9
    Voi siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa.
  • Vangelo secondo Giovanni 14,1-12
    Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me… Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me… Chi ha visto me, ha visto il Padre… Io sono nel Padre e il Padre è in me.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto».
Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre (…)».


Cenacolo (Gerusalemme)

Chi segue Gesù trova la strada vera che porta alla vita
Ermes Ronchi

Non abbiate paura, non sia turbato il vostro cuore, sono le parole di apertura del Vangelo, le parole primarie del nostro rapporto con Dio e con la vita, quelle che devono venirci incontro appena aperti gli occhi, ogni mattina.
Gesù ha una proposta chiara per aiutarci a vincere la paura: abbiate fede, nel Padre e anche in me. Il contrario della paura non è il coraggio, è la fede nella buona notizia che Dio è amore, e non ti molla; la fede in Gesù che è la via, la verità, la vita. Tre parole immense. Inseparabili tra loro. Io sono la strada vera che porta alla vita.
La Bibbia è piena di strade, di vie, di sentieri, piena di progetti e di speranze. Felice chi ha la strada nel cuore, canta il salmo 84,6. I primi cristiani avevano il nome di “Quelli della via” (Atti 9,2), quelli che hanno sentieri nel cuore, che percorrono le strade che Gesù ha inventato, che camminano chiamati da un sogno e non si fermano. E la strada ultima, la via che i discepoli hanno ancora negli occhi, il gesto compiuto poco prima da Gesù, è il maestro che lava i piedi ai suoi, amore diventato servizio.
Io sono la verità. Gesù non dice di avere la verità, ma di essere la verità, di esserlo con tutto se stesso. La verità non consiste in cose da sapere, o da avere, ma in un modo di vivere. La verità è una persona che produce vita, che con i suoi gesti procura libertà. «La verità è ciò che arde» (Ch. Bobin), parole e azioni che hanno luce, che danno calore.
La verità è sempre coraggiosa e amabile. Quando invece è arrogante, senza tenerezza, è una malattia della storia che ci fa tutti malati di violenza. La verità dura, aggressiva, la verità dispotica, «è così e basta», la verità gridata da parole come pietre, quella dei fondamentalisti, non è la voce di Dio. La verità imposta per legge non è da Dio. Dio è verità amabile.
Io sono la vita, io faccio vivere. Parole enormi che nessuna spiegazione può esaurire. Parole davanti alle quali provo una vertigine. Il mistero dell’uomo si spiega con il mistero di Dio, la mia vita si spiega solo con la vita di Dio. Il nostro segreto è oltre noi.
Nella mia esistenza c’è una equazione: più Dio equivale a più io. Più vangelo in me vuol dire più vita in me, vita di una qualità indistruttibile.
Il mistero di Dio non è lontano da te, è nel cuore della tua vita: nei gesti di nascere, amare, dubitare, credere, perdere, illudersi, osare, dare la vita… La vita porta con sé il respiro di Dio, in ogni nostro amore è Lui che ama.
Chi crede in me anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste. Falsa religione è portare Dio nella nostra misura, vera fede è portare noi stessi nella misura di Dio.

Avvenire 

“Chi ha visto me, ha visto il Padre”
 Enzo Bianchi

Nell’ultimo pasto consumato con i suoi discepoli prima della cattura che lo avrebbe consegnato alla morte, Gesù ha consegnato le sue parole come un testamento, come manifestazione delle sue ultime volontà. Il quarto vangelo ci dà la testimonianza di come le parole di Gesù sono state meditate e approfondite, in una crescita di sovraconoscenza (epígnosis) del mistero del suo esodo da questo mondo al Padre. Ecco dunque, nella cena i cui Gesù lascia ai suoi “il comandamento nuovo”, ultimo e definitivo (cf. Gv 13,34; 15,12), le domande di tre suoi discepoli e le risposte di Gesù. Nel brano liturgico odierno ci mettiamo in ascolto di alcune parole di Gesù e delle obiezioni a lui rivolte da Tommaso e Filippo.

Avendo Gesù annunciato il tradimento da parte di uno dei Dodici (cf. Gv 13,21-30) e la sua partenza ormai prossima (cf. Gv 13,33), i discepoli sono invasi da paura. Gesù non sarà più in mezzo a loro e con loro: sono dunque nell’incertezza e nell’aporia, sapendo che uno di loro è un traditore e che Pietro, “la roccia” (Gv 1,42), verrà meno nella sua saldezza (cf. Gv 13,38). È davvero notte, non solo esteriormente: è notte nei loro cuori, è l’ora della prova della fede, è la crisi della comunità, immersa in quella solitudine angosciata e tragica in cui sembra impossibile nutrire fiducia.

Gesù allora fa un invito autorevole: “Credete in Dio e credete anche in me”. Per quegli uomini avere fede in Dio era un’operazione in cui erano esercitati: erano credenti, figli di Abramo, in attesa del suo “Giorno”, dunque queste parole di Gesù suonano per loro come un invito a confermare il loro attaccamento, la loro adesione al Dio vivente, sapendo che solo così non si sarebbe stati scossi nella prova (cf. Is 7,9). Ma Gesù chiede la stessa fede anche in lui, nella sua persona. Solo nella fede si può accogliere questa richiesta “eccedente”, senza scandalizzarsi: davanti ai discepoli c’è Gesù, totalmente uomo, anzi carne fragile (sárx: Gv 1,14), e chiede di mettere in lui la stessa fede che si mette in Dio! Ecco la novità della fede cristiana rispetto alla fede dei credenti nel Dio dell’alleanza e delle benedizioni: credere in Gesù di Nazaret come si crede in Dio. Ma questa è la fede della chiesa del quarto vangelo, è la nostra fede.

Qui Gesù rivela che nella casa di suo Padre – immagine da lui stesso applicata al tempio, che cessava però di essere tale in seguito alla sua venuta e alla sua purificazione (cf. Gv 2,13-17) – ci sono molte dimore, c’è posto per molti. La paternità di Dio non è solo paternità verso il Figlio, Gesù, ma anche verso i suoi discepoli, dunque la casa di Dio li può accogliere, può essere casa loro come lo è di Gesù: accoglienza che non richiede meriti, ma accoglienza gratuita, paterna, che accoglie tutti i figli con lo stesso amore. Gesù se ne va, lascia visibilmente i suoi discepoli, ma, “passato da questo mondo al Padre” (cf. Gv 13,1), prepara presso di lui i posti, aprendo la via di accesso all’intimità filiale con Dio.

Queste parole devono risuonare come una promessa per i discepoli che restano nel mondo. Basta che credano in Gesù, e vedranno la loro attesa e la loro speranza fondate, perché Gesù verrà di nuovo, per prenderli con sé, in modo che dov’è lui siano anche i suoi. Colui che era chiamato ‘Immanuel, Dio-con-noi (Is 7,14; Mt 1,23), nel quarto vangelo è colui che viene a prenderci con sé, per vivere un’intimità, un’amicizia, un’inabitazione reciproca senza fine. Questa coabitazione di Gesù e dei discepoli, proprio attraverso l’esaltazione, la glorificazione di Gesù nella sua Pasqua, nel suo esodo, sarà più intensa di quella vissuta fino ad allora. Così Gesù chiede di non essere preda della paura, ma di entrare in una nuova modalità di comunione con lui. Sarà una coabitazione alla quale si accede attraverso un cammino che i discepoli conoscono: la via percorsa da Gesù, quella dell’amore vissuto fino alla fine, fino all’estremo. Proprio l’esodo di Gesù da questo mondo era stato dscritto come amore fino alla fine (cf. Gv 13,1): vivere concretamente l’amore, spendendo la vita e deponendola per gi altri, è il cammino tracciato da Gesù per andare al Padre.

Ma ecco che Tommaso, il discepolo “gemello” (Dídymos: 11,16; 20,24; 21,2) di ciascuno di noi, rivolge a Gesù un’obiezione: “Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere il cammino?”. Proprio lui, che con entusiasmo si era dichiarato disposto a morire con Gesù (cf. Gv 11,16), mostra in realtà di non sapere ciò che aveva detto. Per Tommaso, come per noi, non è certamente facile comprendere che la morte stessa, se è atto d’amore, azione del non conservare egoisticamente la vita ma di donarla per amore degli altri, è la strada, il cammino per vivere con Gesù in Dio. Gesù allora non risponde direttamente alla sua domanda (“Dove vai?”), ma dice: “Io sono il cammino, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”.

Parole densissime e inaudite sulla bocca di un uomo! Gesù ricorre alla metafora del cammino per dire: “Io stesso sono la strada da percorrere per andare verso il Padre; io stesso sono la verità come conoscenza del Padre; io stesso sono la vita eterna, la vita per sempre come dono del Padre”. E non ci sfuggano le parole: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”. Dopo la rivelazione di Gesù, che ci ha raccontato (exeghésato: Gv 1,18) il Dio invisibile, che nessuno ha mai visto né può vedere, non si può credere, aderire a Dio se non attraverso di lui, “immagine” unica e vera “del Dio invisibile” (Col 1,15).

E qui sorge una domanda: noi cristiani prendiamo sul serio queste parole? Oppure le ripetiamo senza la consapevolezza necessaria? Ormai non si può avere una conoscenza di Dio se non si conosce Gesù Cristo, non si può credere nel Dio vivente senza credere in Gesù Cristo, non si può avere comunione con Dio se non si ha comunione con Gesù Cristo. A volte mi chiedo se noi cristiani, eredi del mondo greco, non finiamo per professare un teismo con una patina cristiana. Dobbiamo avere il coraggio di dire che per noi cristiani Dio è una parola insufficiente. Scriveva significativamente già Giustino, un padre della chiesa del II secolo: “La parola ‘Dio’ non è un nome, ma un’approssimazione naturale all’uomo per descrivere ciò che non è esprimibile” (II Apologia 6,3). Ebbene, ciò che è decisivo per la fede cristiana non sta in Dio quale premessa, ma si rivela quale meta di un percorso compiuto dietro a Gesù Cristo e con lui, non caso definito dall’autore della Lettera agli Ebrei “l’iniziatore della nostra fede” (Eb 12,2). Non si può dunque andare a Dio e poi conoscere Gesù Cristo, ma il cammino è esattamente l’inverso: si va al Padre attraverso Gesù che gli dà un volto, che ce lo spiega e ce lo rivela.

Comprendiamo allora le parole successive: “Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete visto”. Che cos’è la vita eterna? È la conoscenza del Padre, unico e vero Dio, e di colui che egli ha inviato, Gesù Cristo (cf. Gv 17,3), una conoscenza progressiva, amorosa, penetrativa, non una conoscenza intellettuale. Essa avviene attraverso la relazione, l’ascolto, l’intimità, la coabitazione, l’amore vissuto. Conoscere Gesù significa entrare nella sua comunione attraverso l’amore vissuto, l’amore del “comandamento nuovo”: come Gesù ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri.

Ma ecco la seconda obiezione, quella di Filippo: “Signore, mostraci il Padre, e ci basta”. Anche Filippo che, invitato a seguire Gesù, lo aveva fatto confessandolo come colui che era stato preannunciato da Mosè e dai profeti (cf. Gv 1,43-45), non ha compreso la vera identità di Gesù. Vede in Gesù “l’Inviato di Dio”, “il Veniente nel Nome del Signore”, ma ancora non sa che Gesù è il racconto, la narrazione del Padre. Filippo è un uomo di grande fede: come Mosè, chiede di vedere il volto di Dio (cf. Es 33,18), e aggiunge che ciò sarebbe per lui sufficiente. Egli non cerca altro se non di vedere quel volto che tutti i credenti dell’antica alleanza avevano desiderato di scorgere o vedere. Vedere il volto di Dio è l’anelito del salmista (“Quando verrò a contemplare il volto di Dio?”: Sal  42,3), è il desiderio di ogni cercatore di Dio e di tutti i credenti…

Filippo confessa questo desiderio, ma Gesù gli risponde: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: ‘Mostraci il Padre’? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?”. Ecco il culmine della rivelazione, che in verità è il compimento della promessa fatta da Gesù a Natanaele, presentato a Gesù proprio da Filippo: “Vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo” (Gv 1,51). Ecco la rivelazione ultima: chi vede Gesù, l’uomo Gesù, in realtà vede il Padre, perché Gesù è l’immagine, il volto visibile di Dio, la gloria stessa di Dio. L’uomo Gesù è il Figlio di Dio; l’uomo Gesù glorificato nella resurrezione è Dio stesso, come confessa Tommaso: “Mio Signore e mio Dio” (Gv 20,28). Dio lo si incontra in Gesù uomo: nella sua umanità si può vedere Dio, guardando l’agire di Gesù e ascoltando le sue parole si può incontrare Dio. Questo è lo specifico, la singolarità della fede cristiana: scandalo per ogni via religiosa, follia per ogni saggezza umana (cf. 1Cor 1,22-23)!

L’ultima puntata. Quando sai che da domani non lo vedrai più!
Gaetano Piccolo

Quando una persona a cui siamo legati si separa da noi, sentiamo come una corda che si spezza e abbiamo la sensazione di precipitare nel vuoto. Gridiamo affinché qualcuno ci senta e possa riannodare quella corda.

La separazione da chi amiamo è accompagnata da emozioni che ci fanno sentire l’as-senza: ci sentiamo senza qualcuno. Ci portiamo dentro un vuoto che nessuno può colmare. È inutile provare a riempirlo: il vuoto c’è.

Nel tempo della separazione veniamo fuori per quello che siamo. È lì che emerge come abbiamo vissuto quel legame. È lì che si vede quanto abbiamo amato. È lì che emergono le nostre paure, quelle che fino ad allora siamo riusciti a coprire.

Le parole del congedo sono le parole essenziali. Non c’è più tempo, forse non avremo un’occasione in più per dire quello che ci portiamo nel cuore.

Questo passo del Vangelo racconta il momento del congedo di Gesù dai suoi discepoli. È da poco terminata la cena, l’ultima. È il tempo di dirsi le cose che contano. Ed è il tempo in cui emergono, senza controllo, le paure più profonde.

Innanzitutto la paura di restare soli. Abbiamo bisogno di essere rassicurati.

Nel mondo antico si era soliti spaccare in due un oggetto: ciascuno ne avrebbe tenuto metà, fino al giorno in cui ci si sarebbe incontrati di nuovo per unire (syn-ballo, metto insieme, da cui la parola simbolo) quelle due parti.

Conoscendo forse la nostra smemoratezza e il nostro disordine, Gesù non ci lascia un pezzo da custodire, ma ci lascia se stesso tutto intero, ci lascia il pane e il vino in cui riconoscere la sua presenza reale, il suo corpo e il suo sangue. Proprio nell’Ultima Cena, infatti, Gesù si consegna per essere ritrovato sempre, proprio quando i discepoli hanno paura di perderlo.

Le parole di Gesù sono rassicuranti: “vi prenderò con me”; “dove sarò io, sarete voi”. Sono le parole di chi vede la paura sul volto di chi resta.

Non c’è immagine più rassicurante della casa, infatti è lì che Gesù ci aspetta: nella casa di mio Padre ci sono molte dimore. La casa è il luogo dell’intimità e delle relazioni. Gesù parla infatti di una casa in cui c’è spazio. Una casa in cui essere accolti. Sappiamo bene come da sempre la casa sia una rappresentazione di noi stessi. Da bambini, una delle prime cose che cominciamo a disegnare, è la casa. Il bambino si rappresenta indirettamente attraverso la casa.

Nella casa del Padre, dice Gesù, c’è sempre spazio. Cioè nella vita del Padre (e in quella di Gesù, che è la stessa vita) c’è sempre spazio. La sua vita è accogliente, è una vita per gli altri. Gesù sta dicendo ai suoi amici che ci sarà sempre spazio per loro nella sua vita.

Quando ci sentiamo abbandonati, ci accompagna anche la sensazione di perderci. L’assenza dell’altro fa venir meno i punti di riferimento. L’altro è una direzione. La sua mancanza ci getta nello smarrimento: cosa farò adesso?

Anche Gesù incontra lo smarrimento dei suoi discepoli. Tommaso cerca una via perché si sente perduto. A volte però quando ci perdiamo l’unica cosa che possiamo fare è aspettare che qualcuno ci venga a prendere.

Tommaso è la voce dell’autonomia e dell’autosufficienza: vorrebbe trovare la strada da solo, vuole essere il protagonista del suo cammino, vuole dimostrare di potercela fare da solo. Gesù lo invita ad aspettare e a riconoscere che “nessuno può venire al Padre se non per mezzo di me”. Gesù è la via. Occorre stare lì, sulla strada, e lasciarsi incontrare dal pastore che va in cerca delle sue pecore.

Quando ci sentiamo abbandonati, abbiamo l’impressione di restare orfani.

Filippo vuole vedere il padre, ha bisogno di ritrovare la sua origine, le sue radici, la sua storia. Cercare il padre vuol dire cercare chi sono, la mia identità, da dove vengo. Il padre è colui che ci consegna un’eredità e ci permette di costruirci un futuro.

Sentirsi abbandonati vuol dire non vedere più la possibilità di un domani. Sentirsi orfani vuol dire sentirsi privati del futuro, non solo del passato.

Forse per questo Gesù ha, in questo passo, parole di padre: “farete cose più grandi di me”. Sono le parole che ogni figlio vorrebbe sentirsi dire dal padre.

Come i discepoli, anche noi siamo attraversati da queste paure.

La vita infatti ci chiama continuamente a staccarci, a salutare, a dire addio o a voltare pagina. Ma in ognuno di questi passaggi non siamo mai soli, anche se la tentazione cercherà sempre di persuaderci che siamo soli, smarriti e orfani.

Leggersi dentro:
Quali sono le paure che mi attraversano in questo tempo della mia vita?
Come le affronto?

https://cajetanusparvus.com

Dalla paura al coraggio di essere comunità creativa
P. Romeo Ballan mccj

Le parole del Vangelo odierno hanno il sapore e l’emozione di un testamento, che Gesù affida ai discepoli dopo l’ultima cena, nelle ore prolungate dell’addio (Gv 13,31-17,26). Sono l’eredità che Gesù lascia ai suoi discepoli come prezioso insegnamento, poche ore prima di entrare nella sua via (v. 4.6): la via della croce-morte-risurrezione. Testamento ed eredità che, comunemente nella vita di tutti, diventano effettivi solo dopo la morte del testatore. Il caso di Gesù è diverso: non è il testamento di un morto, ma di un vivente. A ragione, quindi, la liturgia ci rivela questo testamento nelle domeniche dopo la Pasqua di Gesù, e ce lo fa gustare come parola viva del Risorto. Anzitutto, è una parola di conforto e di speranza per la comunità dei credenti, affinché non si lascino turbare ma siano forti nella fede (v. 1) e disposti a seguire i passi del Maestro sulla stessa via: il cammino verso la Pasqua, verso la casa del Padre. La casa del Padre, però, non è immediatamente il paradiso, ma è anzitutto la comunità dei credenti, dove pure ci sono “molte dimore” e c’è un posto per ciascuno (v. 2-3); dove i posti, le mansioni e i servizi da svolgere sono molti; dove il posto migliore è quello che permette di servire di più e meglio gli altri.

Aiutarsi come fratelli, lavarsi i piedi gli uni gli altri (Gv 13,14), senza titoli di classe, onore, prestigio… Tale era l’ideale e la forte testimonianza della comunità primitiva, nella quale c’era una differenza, l’unica, riconosciuta da tutti sin dall’inizio: la differenza in base al servizio (o ministero) richiesto e prestato alla comunità. È un appassionante tema missionario. Il messaggio del Vangelo di questa domenica e le esperienze della prima comunità cristiana (I e II lettura) contengono preziose luci per la missione della Chiesa. Il libro degli Atti (I lettura) presenta un quadro di difficoltà tipiche della missione, concrete e frequenti: riguardano la crescita numerica, la pluralità culturale della comunità (v. 1: conflitto fra ellenisti ed ebrei, con risvolti sociali ed economici), l’organizzazione dell’assistenza ai bisognosi… Per la soluzione vengono impiegati criteri che sono fondamentali per lo svolgimento della missione: ampia consultazione all’interno del gruppo (v. 2), ricerca di persone piene di Spirito e di sapienza (v. 3.5), definizione dei ministeri (v. 3.4.6) dei diaconi (servizio alle mense) e dei Dodici Apostoli (preghiera e servizio della Parola).

Oggi diremmo che la soluzione è stata trovata grazie ad un esercizio sinodale dell’autorità: nella collegialità e nella ministerialità, che hanno permesso di operare con pluralismo culturale e con decentramento. La Chiesa di Gerusalemme è uscita da quell’incidente più matura, arricchita di nuove forze per l’apostolato, più aperta alle esigenze culturali dei vari gruppi. È stata una soluzione creativa ed esemplare, che ha avuto immediati effetti di irradiazione missionaria: “e la parola di Dio si diffondeva”, con crescenti adesioni alla nuova fede in Gesù (v. 7). Si iscrive in questo contesto anche l’insistenza del Papa sulla preghiera per le vocazioni.

Soluzioni di quella natura si addicono a un popolo che San Pietro (II lettura) chiama regale, santo, eletto da Dio (v. 9), chiamato a stringersi al “Signore, pietra viva”, e quindi, un popolo composto da “pietre vive” (v. 4.5). Ritorniamo qui al tema dei ruoli o servizi nella casa di Dio: non ha importanza che si tratti di pietre di facciata o di pietre nascoste nelle fondamenta. S. Daniele Comboni raccomandava ai suoi missionari per l’Africa: “Il missionario lavora in un’opera di altissimo merito sì, ma sommamente ardua e laboriosa, per essere una pietra nascosta sotterra, che forse non verrà mai alla luce, e che entra a far parte del fondamento di un nuovo e colossale edificio, che solo i posteri vedranno spuntare dal suolo” (Regole del 1871, Scritti, n. 2701). Ciò che importa è essere parte della comunità dei discepoli, contenti di essere popolo ed essere attivi nel servizio alla missione di Cristo, accoglienti e solidali verso le persone lontane, straniere, sole.

Gesù non è venuto a toglierci la sofferenza, ma a darci forza per affrontare le paure profonde della malattia, del futuro, della solitudine, della morte… “Dio non è venuto a spiegare la sofferenza; è venuto a riempirla della sua presenza” (Paul Claudel). Nella conversazione con i discepoli (Vangelo), Gesù li invita a non lasciarsi turbare dalle paure (v. 1). Li esorta a credere in Lui, che è “la via, la verità e la vita” (v. 6). Parla della sua unità con il Padre, al punto che chi ha visto Lui ha visto il Padre (v. 9). Gesù è il primo missionario del Padre: lo ha rivelato e annunciato con la parola e con le opere (v. 11). Sorge qui la domanda fondamentale per la missione di tutti i tempi: oggi, a chi tocca rivelare il Padre e rivelare Gesù, il Salvatore del mondo? La sfida permanente del cristiano è poter dire: chi vede la mia vita e ascolta la mia parola, vede il Padre, vede Cristo! Qui ha le sue radici e la sua forza di irradiazione la missionarietà di ogni battezzato.