Vita cristiana ed ecclesiale

Non è raro che i “princìpi teologici” siano usati con poca attenzione. Essendo “proposizioni generali” essi hanno il vantaggio di orientare verso una sintesi necessaria, ma proprio per questo possono anche dirottare gravemente la interpretazione della tradizione. La cosa più delicata è, in questi casi, la relazione tra il principio e i fatti a cui si applica: spesso si può notare una scarsa considerazione del contesto in cui viene usato un principio. Infatti quando esso manca, ciò impedisce l’uso corretto del medesimo principio. Se i principi entrano in campo in ambiti delicati e in evoluzione, è ovvio che il controllo del loro utilizzo deve essere più accurato. Questo vale in modo speciale quando si affrontano temi nuovi per la tradizione: in questi casi non è raro che un principio funzioni da “copertura” per altri principi, che non si possono più ripetere, ma che vengono in qualche modo supportati da un uso diverso del principio invocato. Vorrei presentare qui, molto brevemente, due casi di scuola, che prevedono l’utilizzo forzato di un principio, per giustificare la tradizionale esclusione delle donne dal ministero ordinato. Si cerca di trasformare il “fatto” in un “dovere”. E si invoca o un principio ecclesiologico (ossia la dialettica di Von Balthasar tra principio mariano e principio petrino) o un principio di sacramentaria (elaborato da S. Tommaso d’Aquino). Provo ad esporre alcune perplessità sul modo di impiegare questi “princìpi”.
A. La dialettica tra principio mariano e principio petrino
Da tempo accade che, per uscire dall’imbarazzo nel giustificare una tradizione intorno alla rilevanza del sesso nella ordinazione ministeriale, cosa che non trova più una evidenza nella cultura e nella società, si pretende di desumerla dalla tradizione, utilizzando il ricorso ad un “duplice principio” (petrino e mariano) che caratterizzerebbe in modo generale tutta la storia della Chiesa e che dovrebbe perciò essere rispettato normativamente anche oggi. Secondo questa lettura nella Chiesa il principio petrino sarebbe riferito al ruolo degli uomini maschi, mentre il principio mariano sarebbe riferito al ruolo esercitato dalle donne. Provo a mostrare la debolezza di questo ragionamento, in cui si mescolano, inavvertitamente, il piano del giudizio con il piano del pregiudizio. Illustro prima di tutto la funzione per cui è nata la elaborazione di questi due principi (§.1), ne presento gli usi coerenti e quelli incoerenti (§. 2) e verifico alla fine le possibilità di sviluppo del dibattito attuale (§.3), su basi meno pregiudicate.
1. La funzione ecclesiale dei due principi
Legato alla difesa apologetica del “primato petrino” nel contesto del dialogo ecumenico (per superare il “complesso antiromano”) la coppia di principi serviva alla teologia di Von Balthasar per sottolineare due approcci alla tradizione non incompatibili, e nei quali la sovraordinazione del rapporto spirituale al rapporto istituzionale permetteva di alimentare la speranza di capovolgere la percezione di un cattolicesimo ridotto alla difesa del “primato di Pietro”. La dialettica tra Maria e Pietro, tra principio spirituale e principio istituzionale, assumeva i nomi, metaforici, di principio mariano e di principio petrino. Perciò è evidente che in origine la differenza tra principio petrino e principio mariano era stata escogitata da Von Balthasar per mettere in luce una tensione originaria tra logica istituzionale petrina e logica carismatica mariana. Questo non ha niente a che fare, in partenza, con la differenza tra maschile e femminile. Se poi anche von Balthasar ha usato il doppio principio come sostegno al pregiudizio di un “essenzialismo” maschile e femminile, addirittura di una “permanente gerarchia dei sessi”, questo resta un elemento secondario. Del principio mariano partecipano sicuramente anche i maschi. Non si vede perché mai del principio petrino non dovrebbero partecipare anche le donne. I due principi non spiegano affatto questo pregiudizio culturale e antropologico.
2. Lo scivolamento del ragionamento sul piano del sesso
La grande metafora escogitata da Von Balthasar, con la forza del suo pensiero sistematico, correva però fin dal principio un grave rischio: di spostarsi da una argomentazione squisitamente ecclesiologica, ad una forma di antropologia normativa (biblica o magisteriale) del soggetto e del ministero. Come se il principio si spostasse dal piano di una “metafora biblica” della differenza tra chiesa istituzionale e chiesa spirituale ad una logica di genere che uniformava tutte le donne a Maria e tutti gli uomini a Pietro. Qui, come è evidente, è potuto accadere uno scivolamento grave dal piano del legittimo giudizio sistematico al piano dell’illegittimo pregiudizio culturale. Per dirlo meglio: il principio petrino veniva riferito in origine alla mediazione istituzionale del discepolato e dell’apostolato, a differenza del principio mariano, che era riferito invece alla mediazione carismatica e affettiva del discepolato e dell’apostolato. E’ chiaro che decisivo qui non è il sesso di Pietro e di Maria, ma la forma differenziata della relazione con il Signore e con la tradizione. Un esempio può essere utile per capire meglio questa differenza. Possiamo chiederci: in che senso Pietro è autorevole sul piano del perdono e della misericordia? Se ragioniamo secondo il principio petrino, la risposta è perché ha ricevuto il potere delle chiavi. Se invece pensiamo secondo il principio mariano, dobbiamo rispondere perché ha pianto amaramente dopo aver rinnegato il Signore. I due principi non dipendono dal sesso di chi li incarna, ma dalla forma del rapporto con cui si pongono nella tradizione del discepolato cristiano.
3. La ripresa della questione in prospettiva
La domanda sul ministero femminile non può essere affrontata soltanto rinviando a questa distinzione tra i due principi. Piuttosto, sarebbe utile riferirsi ai due principi per scoprire come, per gli uomini e per le donne, non vi sia soltanto una relazione istituzionale con la tradizione. La differenza tra principio petrino e principio mariano non riguarda, perciò, la legittimità con cui un uomo può incarnare il principio mariano o una donna il principio petrino. Riguarda, invece, la capacità di non esaurire né gli uomini né le donne sul piano della loro “prestazione istituzionale”. Per questa importante distinzione, la elaborazione del duplice principio risulta ancora preziosa. Se invece si pretendesse di usare i due principi, per delimitare lo spazio del maschile e del femminile nella mediazione della salvezza, questa sarebbe una operazione poco lungimirante, perché subordinerebbe il giudizio sistematico sulla chiesa ad un pregiudizio antropologico sulle persone. Si può dire, perciò, che la distinzione tra principio petrino e principio mariano non ha la intenzione originaria, e non è in grado neppure a posteriori, di trasformare un pregiudizio culturale contingente in un giudizio sistematico vincolante.
B. La donna ridotta allo schiavo: una fonte imbarazzante di “Inter insigniores”
Altrettanto interessante è esaminare come, già quasi 50 anni fa, l’uso dei “principi” fosse assunto in modo molto disinvolto dal magistero ecclesiale. Ecco una citazione tratta da Inter insigniores (1976), documento che interviene sul tema della “ordinazione della donna” e che trae il titolo dalla nota espressione formulata da Giovanni XXIII che scopre “tra le note più importanti” del mondo moderno la nuova dignità della donna nello spazio pubblico. Sarà paradossale, ma esemplare, scoprire lo stridente contrasto tra il titolo del documento e il contenuto della argomentazione che vado a presentare. Ecco il testo da esaminare:
“« I segni sacramentali – dice S. Tommaso – rappresentano ciò che significano per una naturale rassomiglianza ».Ora, questo criterio di rassomiglianza vale, come per le cose, così per le persone: allorché occorre esprimere sacramentalmente il ruolo del Cristo nell’Eucaristia, non si avrebbe questa « naturale rassomiglianza », che deve esistere tra il Cristo e il suo ministro, se il ruolo del Cristo non fosse tenuto da un uomo: in caso contrario, si vedrebbe difficilmente in chi è ministro l’immagine di Cristo. In effetti, il Cristo stesso fu e resta un uomo.”
Bisogna per lo più diffidare dell’assunzione di un “principio” tratto da un’opera di S. Tommaso, perché frequentemente si tratta di una apparenza di principio, che non corrisponde alla intenzione dell’autore. In questo caso, il documento Inter insigniores utilizza un testo di Tommaso, senza approfondirne né la fonte né il contesto. Ad un esame più attento, infatti, risulta facile riconoscere la debolezza della argomentazione magisteriale, che ricorre ad un testo il cui contenuto reale, di fatto, smentisce le premesse stesse del documento magisteriale. Cerco di esporre con semplicità il frutto della mia breve ricerca.
1. La donna e lo schiavo
La espressione di Tommaso citata da Inter insigniores appare nel Commentario alle sentenze di Pietro Lombardo (Super Sent., lib. 4 d. 25 q. 2 a. 2 qc. 1 ad 4) ed è parte di una risposta alla discussione, che non riguarda la ordinazione della donna, ma quella dello schiavo (l’articolo 2 si intitola infatti “Se la schiavitù sia impedimento alla ricezione dell’ordine”)! Il testo della citazione integrale, che è molto breve, suona così:
“ Ad quartum dicendum, quod signa sacramentalia ex naturali similitudine repraesentant; mulier autem ex natura habet subjectionem, et non servus; et ideo non est simile.”
Come è evidente, il riferimento alla “similitudo” non riguarda di per sé la “somiglianza maschile/femminile” rispetto al Signore, ma la somiglianza nella “condizione di schiavitù”, che lo schiavo ha per contratto o per convenzione, mentre la donna ha “per natura”. Per capire meglio questa risposta, tuttavia, bisogna leggere la obiezione cui risponde, che si trova qualche pagina prima;
La posizione che viene confutata nel “ad quartum” citato è la seguente, che sostiene la non ordinabilità dello schiavo, che sarebbe caso “più grave” rispetto alla donna:
“Sed contra, videtur quod (servitus) impediat quantum ad necessitatem sacramenti. Quia mulier non potest suscipere sacramentum ratione subjectionis. Sed major subjectio est in servo; quia mulier non datur viro in ancillam, propter quod non est de pedibus sumpta. Ergo et servus sacramentum non suscipit.”
2. Di quale “somiglianza” parla Tommaso?
Possiamo dunque scoprire che la “similitudo” di cui si parla, nel testo di Tommaso riguarda non il rapporto tra Cristo e il suo ministro ordinato, come la intende Inter insigniores, ma la somiglianza tra la condizione di schiavo e la condizione di donna. La “similitudo” negata da Tommaso è la relazione tra lo schiavo e la donna circa il “defectus eminentiae gradus”. E viene contestata proprio per il fatto che la “carenza di autorità” per lo schiavo è reversibile, mentre per la donna non lo è. La natura, per Tommaso, pone la donna in una soggezione insuperabile.
La controprova della non pertinenza del presunto principio tomista invocato da Inter Insigniores si ha leggendo i testi, che precedono quelli a cui abbiamo fatto riferimento, ossia quelli dell’articolo 1, dedicato specificamente alla questione “Se il sesso femminile sia un impedimento alla ricezione dell’ordine”. In questa parte del commento il principio invocato da Inter insigniores appare in forma diversa, ossia con un ragionamento leggermente più ampio, ma che chiarisce ancora meglio la “mens” di Tommaso e la sua profonda differenza dalla intenzione con cui Inter insigniores lo assume, in una prospettiva profondamente diversa.
Anche in questo caso la citazione utilizza la logica della “similitudo”, allegando anche un esempio, tratto dal sacramento della unzione degli infermi. Leggiamo il passo
“Unde etsi mulieri exhibeantur omnia quae in ordinibus fiunt, ordinem non suscipit: quia cum sacramentum sit signum, in his quae in sacramento aguntur, requiritur non solum res, sed significatio rei; sicut dictum est, quod in extrema unctione exigitur quod sit infirmus, ut significetur curatione indigens. Cum ergo in sexu femineo non possit significari aliqua eminentia gradus, quia mulier statum subjectionis habet; ideo non potest ordinis sacramentum suscipere.” (Super Sent., lib. 4 d. 25 q. 2 a. 1 qc. 1 co.)
Come è evidente dal ragionamento proposto da Tommaso, la domanda non solo della “res”, ma della “significatio rei”, che in qualche modo equivale a quanto sostenuto a proposito della “similitudo” nel caso precedente, viene argomentata esclusivamente in rapporto alla “significatio” della “eminentia gradus”: il sesso femminile è escluso dalla ordinazione perché incapace di “significare ed esercitare la autorità”.
3. Le note più importanti…
E’ chiaro che la citazione utilizzata da Inter insigniores riconduce la argomentazione di Tommaso non alla somiglianza maschile tra il ministro e il Signore, nel suo lato oggettivo e formale, ma alla somiglianza tra rappresentanza della autorità e assenza di schiavitù. Così pare evidente la debolezza della argomentazione, che non fa altro che ribadire, con una petizione di principio, proprio quella impostazione classica che assume la relazione tra uomo e donna segnata non solo da una legittima differenza, ma da una strutturale subordinazione della seconda al primo.
Come accade non raramente, anche in questo caso un testo di Tommaso, sganciato dal suo contesto originario, serve a dare autorevolezza ad una posizione obiettivamente assai debole, e comunque molto diversa da quella sostenuta dal Dottore angelico.Tommaso non utilizza mai nella discussione sugli impedimenti alla ordinazione l’argomento della somiglianza, se non riferendola al “difetto di autorità”. In altri termini, lo schiavo non può essere ordinato perché privo di autorità. Ma lo schiavo può superare questo impedimento, che non gli deriva dalla natura, ma dalla tradizione. Invece la donna “ha la schiavitù per natura” e per questo non può essere ordinata. La ragione della dissomiglianza non è la “forma” o la “struttura” femminile, ma il “defectus eminentiae gradus”.
Se letta nel suo contesto, quindi, la affermazione sulla “somiglianza” – riproposta dal documento del 1976 – riafferma soltanto la prospettiva che per Tommaso risultava decisiva: ossia la “mancanza di autorità della donna” come principio antropologico e sociologico del suo tempo e che si imponeva anche alla discussione teologica, che si lascia istruire da questa evidenza culturale. Che però noi abbiamo superato persino nel titolo di Inter insigniores.
Essendo Inter insigniores introdotto dalla citazione con cui Papa Giovanni segnala in Pacem in terris la acquisizione della “donna nello spazio pubblico” come “segno dei tempi, sembra davvero paradossale che per dar seguito a questa nuova affermazione, si fondi la soluzione su un testo medievale che conferma precisamente ciò di cui dobbiamo oggi liberarci. Se si ribadisce in premessa che “per natura la donna non può comandare”, ogni discussione teologica risulta superata e senza alcuno spazio.
Una semplice esegesi tomista, condotta nel contesto da cui Inter insigniores trae la affermazione di Tommaso, libera il campo per argomentazioni davvero convincenti, che debbono essere nuove, giacché scaturiscono da un mondo trasformato dalla libertà e dalla eguaglianza. La debolezza obiettiva delle argomentazioni del magistero, di cui il teologo deve fare accurata rassegna, liberano il campo per una ricerca di argomentazioni più forti e più convincenti, che rispondano davvero alla questione sollevata da Giovanni XXIII e accettino che, in rapporto al femminile, qualcosa di decisivo è accaduto tra XIX e XX secolo, di cui il XXI secolo deve dar conto, senza ambiguità. La somiglianza richiesta da Tommaso è la “assenza di schiavitù”: possibile per lo schiavo, ma impossibile per la donna. Il suo testo, dunque, assume un orizzonte che non è più il nostro. Le “insigniores notas” che il mondo da 60 anni ci offre, dalle quali la Chiesa dovrebbe disporsi ad imparare qualcosa, e tra le quali sta la partecipazione delle donne alla “cosa pubblica”, esigono dal magistero e dai teologi “insigniores cogitationes”. Non è l’uso equivoco dei principi classici a poter aggirare il compito di elaborare nuovi principi, perché la tradizione rimanga sana.