Non è sempre facile incontrare un missionario disposto a parlare della sua vita religiosa. Quando lo incontri, ti ritieni fortunato. Se poi è uno che sa raccontarsi con umorismo e maestria, come padre Nazzareno (“Neno”) Contran, allora è gioia vera. È stato a lungo direttore di Nigrizia, poi di New People a Nairobi, in Kenya. Oggi dirige Afriquespoir, a Kinshasa, nella Repubblica democratica del Congo.
(da Comboninsieme, notiziario n. 19 del 1 aprile 2023)
L’occasione è speciale: il cinquantesimo della sua professione religiosa. Dice: «A quel tempo — si era agli inizi degli anni Cinquanta – la professione era la tappa più importante prima dell’ordinazione sacerdotale».
Sono trascorsi cinque decenni da quel momento. Gli chiediamo: «Qualcuno ha scritto che, mentre i giovani hanno memoria ma non ricordi, i vecchi hanno ricordi ma non memoria». Sorride: «Io faccio ormai parte della seconda categoria, e devo tenerne conto. Per non esagerare nei ricordi e non forzare o arrotondare troppo la memoria».
Continua: «Quando ripenso al fatidico 9 settembre 1951, la parola che mi viene subito spontanea è “cambiamenti”. Quant’è cambiata la mia vita e quant’è mutato il mondo da allora ad oggi! È una percezione scontata, ma mi sembra la più sincera e la più vicina alla realtà, anche se contraddetta dal fatto che, nonostante tutto, io sono quello di cinquant’anni fa». Dopo una breve pausa, riprende: «Evidenziando le mutazioni avvenute, riuscirò forse a capire un po’ meglio il senso della strada percorsa e la grandezza della bontà di Dio».
All’inizio del noviziato, si riceveva l’abito…
Io ho ricevuto devotamente non solo l’abito, ma anche la fascia e il copricapo con soli due “corni”. Il tricorno era riservato ai chierici. Erano riti e tappe che accendevano la fantasia e che aiutavano a entrare in una certa struttura, a farti sentire membro di una comunità più vasta e identificata.
Parlaci di te in quei momenti.
Ero adolescente. Le idee che giravano per la testa erano tutt’altro che chiare e distinte, per cui ero capace di far mie certe pedanterie e di riderci sopra poco dopo. Ricordo che, nel primo esercizio di correzione, un connovizio osservò che, talvolta, avevo atteggiamenti da ateo!
In fondo, volevamo essere guidati, condotti, senza darlo a vedere. Il padre maestro ci liquidava asciutto: «SI, fratello, avete altro?». Dai colloqui settimanali con lui, uno usciva con l’impressione di non essere riuscito a dire quello che voleva e di non essere stato capito. In verità, ci aiutava a essere indipendenti, a comprendere che ciò che volevamo dire era quasi niente; che non era lui il nostro “maestro”, ma un Altro. Indubbiamente, aveva dei doni di contemplazione e ce li voleva passare con l’esempio. Temo non sia riuscito più di tanto!
Oggi, credo di capire un po’ meglio ciò che diceva santa Teresa del Bambin Gesù: «Le piccole cose sono piccole cose. Ma la fedeltà nelle piccole cose è una grande cosa». Le pratiche dettagliate, la lettura del Rodriguez, un manuale di esercizio di perfezione e di cristiane virtù pubblicato nel 1609, con tanti avvisi e regole, perfino le norme di galateo, intendevano fare di noi degli individui corretti, metodici, con riflessi acquisiti una volta per tutte. Ma già a quel tempo, che non era certo quello del dopo Concilio Vaticano II, si avvertiva l’incongruenza di alcune indicazioni.
Vita religiosa significa “voti”. Il primo è la povertà.
Se penso a come vestivamo, agli inverni gelati dell’antico noviziato dei gesuiti di Gozzano, in quel di Novara, al lavoro manuale di cui eravamo capaci… la povertà non sembrava una cosa impossibile. C’era parecchia povertà, anche di strumenti di formazione e d’informazione. C’era un solo formatore per una settantina di novizi. Oggi, ce ne sono due per una manciata di individui.
La povertà veniva presentata soprattutto come dipendenza, come messa in comune dei beni a disposizione. Adesso che un certo comfort si è installato in molte comunità, si parla di povertà come “sfida”, come “bisogno di condivisione”, come “impiego di mezzi poveri”, come “vivere inseriti”, come “accoglienza”, “capacità di prescindere da cose ritenute necessarie”, “camminare con la gente”… Termini uno più bello dell’altro, sfide lanciate alla mia incapacità di vivere libero come gli uccelli dell’aria.
Ricordo quello che ha detto un giorno il “facilitatore” chiamato a un nostro capitolo generale degli anni Ottanta: «Si discute sui progetti, sui mezzi, sul bisogno di dare testimonianza. Poi, si finisce col finanziarli, come con il debito estero».
Avanzando negli anni, faccio più fatica a distinguere, nei miei atteggiamenti, fra povertà e avarizia, tra cose necessarie e quelle di cui mi circondo perché mi danno sicurezza. Ci pensano i poveri, che battono ogni giorno alla porta, a non lasciarmi tranquillo in questa materia.
Ricordo un testo di don Milani. Un giorno, un frate francescano si presentò alla sua canonica per la questua. A differenza dei frati di anni prima, questo viaggiava in Lambretta. «Se San Francesco vivesse oggi, si sposterebbe con questo mezzo», spiegò il frate. Conclusione di don Milani: «Mentre si allontanava, augurai che lo scooter gli si bruciasse sotto il sedere!».
Anche il voto di castità ha subito notevoli bombardamenti.
Ascesi, controllo dei sensi, mortificazione, penitenze… erano termini anticipatici, ma li si accettava, perché il desiderio di consacrarsi totalmente al Signore era sincero.
Poi, si cominciò a parlare di “integrazione affettiva” e di rapporti amichevoli con l’altro sesso. Si diceva che non bisogna vedere il male dappertutto e che le attività pastorali andavano fatte insieme. La veste talare fu appesa a un chiodo, con tutta la simbologia che si portava addosso, di custode della bella virtù, di segno distintivo, di — l’ho sentito in una predica — “cassa da morto” dell’individuo.
Tutto il mondo delle mie relazioni è stato condizionato o arricchito o indebolito da come ho vissuto, con maggiore o minore entusiasmo, questo voto.
C’è sempre materia per esami di coscienza. Nei mesi scorsi, sulla stampa americana e italiana sono apparsi articoli di critica severa alla vita di certi preti, religiose e religiosi africani. Non è, certo, letteratura per la promozione vocazionale ed evidenzia a suo modo, l’importanza di questo argomento e come nel nostro mondo, anche da parte di chi non ci crede, si pretende la coerenza.
La polemica, tuttavia, non mette giustamente in luce la fedeltà di tanti e di tante. Dio solo conosce il numero di coloro che -penso soprattutto all’Africa —, in questi decenni, hanno difeso fino alla morte la dignità del loro corpo.
Come vedi oggi il celibato?
Il celibato è una conquista. Presto o tardi nella vita, si presenta come una croce. Siamo costruiti così, neri, bianchi e gialli. Le migliaia di persone consacrate che negli ultimi cinquant’anni hanno fatto, a un certo punto, altre scelte, stanno a dimostrarlo.
Lungi dal giudicare gli altri, mi pare di poter dire che niente come questo voto rende veramente liberi per il servizio della missione. E da quello che conosco della vita, credo di poter aggiungere che, tutto sommato, la condizione delle persone sposate spesso è assai più dura di quella dei celibi per il Regno.
E l’obbedienza?
È stata scossa da più parti, messa in crisi da parole o frasi come “dialogo”, “ricerca dialogante della volontà di Dio”, “lettura dei segni dei tempi”, “discernimento”, “diritti dell’individuo”,”rispetto delle persone”… Quanta acqua fredda è stata gettata sull’autorità, ridimensionata nel suo ruolo da una critica resa possibile, o addirittura auspicata e prevista! E come non condividere, almeno in parte, la seguente constatazione: «Quando comandavano i superiori, io ero suddito. Adesso che comandano i sudditi, m’hanno fatto superiore»?
Nell’universo della vita religiosa è entrata molta psicologia.
Ai miei tempi l’inconscio era vasto, la forza dell’ambiente era grande e ti sosteneva molto più di adesso. Oggi uno non accetta nulla, se non è in grado di sperimentarlo prima.
Si sono moltiplicate le riflessioni sulla vita missionaria e sulla finalità dell’attività missionaria. Proprio giorni fa, leggevo che il “carisma” del missionario è quello di “aprire porte”: «Non è chiamato a costruire chiese, ma a fare un cammino». Di qui, l’inevitabile domanda: sono riuscito, con la mia vita, ad aiutare qualcuno, non dico a salvarsi, ma a porsi domande spirituali, essenziali?
La gente che ci avvicina può essere incoraggiata a credere o a non perdere quella poca fede che ha, se vede che ci vogliamo bene, che non siamo razzisti; se constata che ci crediamo noi per primi a quello che diciamo e che non siamo tristi o depressi. Sei uomo di spirito se preghi, non insidi la donna altrui, se contribuisci con qualche attività al bene comune.
Siamo anche chiamati a una vita comunitaria
La comunità era e rimane l’arena in cui si può combattere o danzare. Di fronte alle difficoltà giovanili di stare insieme come un piccolo battaglione compatto, ci veniva detto che i santi avevano provato le stesse difficoltà e avevano scoperto che la vita comunitaria batte per tre a zero tutte le altre penitenze.
Il linguaggio si è modificato. Alcuni anni fa, Jean Vanier ha scritto un libro dal titolo Comunità, luogo del perdono e della festa. Tra l’altro, scrive: «Una comunità non è mai per sé stessa. Essa appartiene a qualcosa che la supera: appartiene ai poveri, all’umanità, alla Chiesa, all’universo. Essa è un dono, una testimonianza da offrire a tutti gli uomini». Hanno ragione un po’ tutti.
Negli ultimi decenni, si sono fatte presenti altre realtà, come internazionalità, intercontinentalità, interculturalità. Sono problemi già esistenti al tempo di Daniele Comboni. La separazione fra comboniani italianofoni e germanofoni, nel periodo tra i due conflitti mondiali, dimostrò quanto tutto ciò fosse già complicato in altri tempi.
Adesso arriva la mondializzazione e le nostre comunità non potranno che adeguarsi e scoprire che, per ottenere il consenso quando si è in una comunità di gente di diversa origine, il processo è sempre impegnativo.
Sono passati cinquant’anni da quel giorno in cui emettesti i voti. Una valutazione.
Cinquant’anni non sono pochi. Andando avanti, c’è una parte di me che coglie sempre meglio la bontà di certe cose: il dovere di accettare gli altri, l’importanza della misericordia, il distacco nei confronti delle eccessive prese di posizione… Di questi cinquant’anni, me ne sono serviti molti per cominciare a capire che il Padreterno è all’opera e che — attraverso cose, persone, salute che se ne va, desideri più puliti d’un tempo — ti ricorda la radicalità promessa, di come dovresti essere e non sei stato.
Dio non ci imbroglia mai. Ci ha dato la possibilità di cavarcela. Anche gli apostoli, del resto, capivano quello che capivano. Molte cose le avrebbero capite dopo. E il Signore accettava questo cammino.
Non c’è istituto o famiglia religiosa che non abbia conosciuto crisi, tempi di decadenza, tentativi di riforme, rinascita. Lo stesso accade con le persone. Con me. Una storia mai finita.
Uno degli aspetti positivi, rispetto al passato: lo spazio che è stato dato a Comboni nella nostra famiglia religiosa e missionaria. In un incontro a Roma nel 1986, padre Pietro Chiocchetta, allora postulatore della causa di beatificazione, ricordò che, nel 1952, l’allora superiore generale gli aveva osservato: «La causa del Comboni è troppo complicata. Lasciala perdere! Sarà meglio puntare su padre Antonio Roveggio, un buon missionario e religioso». La Beatificazione, prima, e canonizzazione, poi, di Daniele Comboni mi hanno dato tantissima gioia.
C’è stato il passaggio al terzo millennio.
L’ho vissuto in letizia, senza fatica. Ho avuto la fortuna di accompagnare un gruppo di pellegrini in Israele. Professionisti, per la maggior parte, desiderosi di approfondire il Vangelo. Non so quello che sono riuscito a trasmettere loro, ma è certo che mi hanno edificato assai.
Previsioni per il 2008, il tuo 50° di ordinazione?
Lasciami pensare… C’è ancora del tempo. A meno che non arrivi prima l’eternità. Nel quale caso, le celebrazioni avranno luogo altrove e a un orario da stabilirsi.
da Comboninsieme notiziario