Lectio divina

Vangelo di Giovanni
Capitolo 6
Silvano Fausti

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Gv 6

Da dove compreremo pane?
6,1–15

1. Messaggio nel contesto

Da dove compreremo pane?”, chiede Gesù a Filippo. “Da dove” indica l’origine, la natura. Si tratta di un pane che il discepolo ancora non conosce, come la samaritana non sa da dove viene l’acqua (cf. 4,11), Nicodemo da dove viene il vento (cf. 3,8) e il maestro di tavola da dove viene il vino (cf. 2,9). È un pane che, a differenza dell’altro, si mangia senza denaro e senza spesa (cf. Is 55, 1ss), che sazia e fa vivere.

Abbiamo visto che la Parola, diventata carne (c. 1), rinnova alleanza e tempio (c. 2), fa nascere dall’alto (c. 3) e offre l’acqua (c. 4) che fa camminare nella libertà del Figlio (c. 5). Ora ci rivela da dove viene e qual è il pane che mantiene quest’esistenza nuova, in cui si beve “il vino bello”, si diventa “casa del Padre”, si riceve “il vento” dello Spirito, si beve l’“acqua viva” e si “cammina” nell’amore. Questo pane è Gesù stesso, il Figlio che si dona ai fratelli e li mette in comunione con il Padre.

Il racconto è narrato sei volte nei vangeli, rispettivamente due volte in Mc e Mt e una volta in Lc e Gv. Al di là delle differenti accentuazioni – nello stesso diamante ognuno vede bagliori diversi –, tutti gli evangelisti interpretano il fatto in senso eucaristico: il pane prefigura il corpo di Gesù dato per noi, fine della sua e principio della nostra vita filiale e fraterna. L’eucaristia è il modo proprio di vivere del Figlio, il cibo di cui si nutre l’uomo risorto, che porta la sua barella e cammina nel sabato.

L’episodio, situato nel tempo di pasqua, presenta una grande folla che segue Gesù, in un passaggio che va oltre il mare, sul monte. Sono chiare allusioni all’esodo. Con Gesù si compie l’esodo definitivo: si pone “il mare” tra sé e la schiavitù della morte, si arriva sul “monte”, dove si riceve la Parola che diventa pane di vita. In questo cammino c’è sempre la “tentazione ” di sfiducia: come vivere nella libertà, quale cibo garantisce di non morire?

Tutto il c. 6 è un gioco di equivoci sul pane, come prima con Nicodemo sul “nascere” e con la samaritana sull’“acqua”. L’equivoco nasce da un doppio senso: una parola ha un significato comune, ma anche un altro più importante da scoprire, di cui il primo è segno. La lettura simbolica della realtà fa la differenza tra l’uomo e l’animale. Ogni cosa non è solo se stessa, ma anche rimando ad altro. Chi non lo coglie, è un “uomo animale”, che non capisce le cose di Dio (cf. 1Cor 2,14), ma neppure quelle dell’uomo. Il cibo e il sesso, per esempio, servono all’animale per conservare la vita dell’individuo e della specie; per l’uomo invece sono relazione all’altro e servono non per conservare, ma per dare la vita. In un caso sono beni da possedere per vivere, nell’altro sono da donare per amore. L’uomo infatti salva la vita se la dona e la perde se la vuol possedere.

Il testo vuol chiarire che il pane, che sazia la fame dell’uomo, è la vita filiale e fraterna. Ne mangia chi accoglie Gesù, il Figlio amato dal Padre che ama i fratelli.

Il c. 6 forma un’unità articolata, da leggere di seguito. Inizia con due racconti, uno sul monte (vv. 1-15) e l’altro nel mare (vv. 22-25); segue il discorso/dibattito sul vero pane (vv. 26-59), che porta all’accettazione o al rifiuto di Gesù, alla confessione di Pietro o al tradimento di Giuda (vv. 60-71). Come sempre, il fatto è un segno: il discorso/dibattito non solo ne chiarisce il significato, ma è l’impatto tra l’ascoltatore e la Parola, che opera in lui ciò che il racconto dice. La Parola, come è principio della creazione, lo è anche della ri-creazione: fa esistere ciò che c’è, mettendolo in relazione con la sua sorgente.

Al centro del capitolo c’è “il pane”, nominato 21 volte (su 25 in tutto il vangelo di Giovanni). Come l’acqua da cui si nasce e l’aria che si respira, anche il pane è simbolo primordiale di vita: lo si mangia per vivere. Ma, a differenza dell’acqua e dell’aria, non è solo dono della terra e del cielo; è anche frutto di lavoro, condito di gioia e fatica, di speranza e sudore. In esso è iscritto, nel bene e nel male, il destino dell’uomo, unica creatura chiamata a collaborare con il creatore per portare a compimento la creazione.

Gesù ha già parlato ai discepoli del suo cibo, che è fare la volontà del Padre e compiere l’opera sua (cf. 4,32-34). Egli vive di questo cibo, che è l’amore del Padre da comunicare ai fratelli, perché passino dalla morte alla vita. Il suo pane è amare com’è amato; la sua opera è dare la vita ai fratelli.

Il testo manifesta “da dove” viene questo pane. Solo allora si capisce cosa è, come lo si mangia e cosa produce. La domanda di Gesù a Filippo serve ad aprire la mente al mistero di ciò che sta per compiere. È facile scambiare il Signore per un fornitore di pane a buon mercato; per questo la gente lo vuole proclamare re. È invece difficile capire che il pane è segno del dono della sua vita di Figlio di Dio. Non si tratta né di comperarlo né di fare i conti con la propria insufficienza, bensì di accogliere colui che solo ha parole di vita eterna.

Il racconto, parallelo al miracolo di Eliseo (cf. 2Re 4,42-44), richiama il dono della manna nel deserto (cf. Es 16,1ss) e ha sullo sfondo il banchetto della Sapienza (cf. Pr 9,1-6; Sir 24,18-25) e il banchetto messianico (cf. Is 25,6-10a; 55,1ss). Dio dà la vita; ma qual è la vita che dà, se non la sua?

I vv. 1-4 presentano i personaggi (Gesù, folla e discepoli), il luogo (oltre il mare, sul monte) e il tempo (è vicina la pasqua). I vv. 5-10 preparano la lettura del fatto con un dialogo tra Gesù, Filippo e Andrea. I vv. 11-13 raccontano il dono del pane, con chiaro riferimento alla cena del Signore. Gesù prende il pane, rende grazie e distribuisce; la gente mangia ed è sazia, mentre i discepoli sono invitati a radunare il sovrappiù. I vv. 14-15 mostrano l’equivoco delle folle: hanno mangiato, ma non hanno capito il pane.

Il racconto inizia con Gesù che va oltre il mare fin sul monte, seguito dalla folla, e mette alla prova i discepoli per indurli a capire il pane che darà; termina con Gesù che abbandona la folla, si ritira da solo sul monte e sfugge alla tentazione di chi lo vuole re. Da questa lontananza, in intimità col Padre, soccorrerà i discepoli nel mare in tempesta (vv. 16–21); rivelerà di essere lui il vero pane, proprio perché non vuole regnare su nessuno, ma pone la sua vita a servizio di tutti.

A differenza degli altri vangeli, Giovanni non racconta l’istituzione dell’eucarestia, che ci dà la vita del Figlio. È infatti l’argomento di tutto il suo vangelo. Però nel c. 6 ne illumina il mistero e nei cc. 13-17 ne esplicita le conseguenze per la chiesa che vive nell’attesa del suo Signore.

Gesù è il Figlio che ha in sé la vita come dono del Padre. Ora la dona ai fratelli perché ne vivano. Il gesto che fa e le parole che dice illustrano la sua vita di Figlio: prende il pane, rende grazie e distribuisce ai fratelli, saziando la loro fame.

La Chiesa vive di questo pane: è l’eucaristia, centro della sua vita. Non solo si sazia, ma ne raduna il “sovrappiù”, perché non vada perduto. È infatti la salvezza sua e del mondo intero.

2. Lettura del testo

v. 1: dopo queste cose. È una connessione esplicita con il brano precedente, dove si parla dell’uomo risorto, che porta la barella e cammina (cf. 5,8.9.10.11), dell’uccisione di Gesù e della sua rivelazione di Figlio (5, 18-47). Si preannuncia la sua “ora”, quando darà la sua vita di Figlio ai fratelli.

andò al di là del mare. C’è una rottura nel racconto: nella scena precedente Gesù era a Gerusalemme, ora lo troviamo in Galilea. È l’inizio del nuovo esodo, l’uscita dalla schiavitù del peccato alla libertà del Figlio. La decisione di ucciderlo è l’occasione di questo esodo, in cui darà il suo pane.

di Galilea, di Tiberiade. Espressione insolita, che vari manoscritti interpretano. Non si tratta di una ridondanza: si intende quell’ansa del lago di Galilea che sta tra Cafarnao e Tiberiade, che può essere attraversata in barca o percorsa a piedi sulla riva (cf. Mc 6,33).

v. 2: lo seguiva molta folla. Così avverrà dopo la risurrezione di Lazzaro (cf. 12,9) e nel suo ingresso a Gerusalemme prima della passione (cf. 12,12). Il popolo compie l’esodo al seguito del Figlio.

perché vedevano i segni, ecc. Richiama i “segni” che Dio ha operato con Mosè.

v. 3: andò sul monte. Mosè salì sul monte, dove furono date le dieci parole di vita. Ora la Parola stessa si darà come pane di vita. Solo su questo monte si può vivere la libertà offerta da Dio. Qui il Signore imbandirà il suo banchetto, strapperà il velo che copre la faccia di tutti i popoli, eliminerà la morte per sempre e farà vedere il suo volto (cf. Is 25,6-10).

là sedeva con i suoi discepoli. Gesù è il maestro, anzi la Parola stessa di cui tutti siamo discepoli. Come sedette sul monte per annunciare la volontà del Padre (cf. Mt 5,1ss), ora siede per compierla, offrendo il suo cibo. Così tutto si compie (cf. 19,30).

v. 4: era vicina la pasqua. Questa indicazione esplicita le precedenti allusioni all’esodo e illustra il significato del pane, donato nell’ultima Pasqua, quando Gesù istituì l’eucaristia. Nella prima Pasqua annunciò la distruzione e la ricostruzione del tempio (cf. 2,13-21); nell’ultima lo uccideranno (cf. 11,55-57). Ora anticipa simbolicamente il dono che egli ci farà del suo corpo, perché ne viviamo e diventiamo nuovo tempio.

v. 5: alzati gli occhi, ecc. Nei racconti paralleli si dice che “alzò gli occhi al cielo” (cf. Mc 6,41; Mt 14,19; Lc 9,6); qui invece li alza sulla folla. Gesù non leva gli occhi verso il Padre, perché li ha sempre rivolti verso di lui, per compiere la sua stessa opera (cf. 5,19ss). Alza gli occhi verso i fratelli (cf. Lc 6,20), perché si è posto più in basso di loro: si è fatto il più piccolo e servo di tutti.

da dove. È la domanda di Gesù a Filippo. Ci sono pani diversi secondo l’origine diversa. La domanda di Gesù richiama quella di Mosè che si lamenta con Dio per il popolo che mormora e chiede “da dove” prendere la carne per sfamarlo (cf. Nm 11,10-15).

compreremo. Tra gli uomini tutto è oggetto di compravendita. Tranne le cose essenziali: la vita, l’amore e il pane condiviso. L’invito al banchetto messianico, preparato dal Signore su questo monte per tutti i popoli (cf. Is 25,6ss), dice di comperare e mangiare senza denaro e senza spesa, di non spendere i propri beni per ciò che non sazia (cf. Is 55,1ss). In esso risuona l’invito della Sapienza a mangiare il suo pane, che fa vivere e camminare nella via dell’intelligenza (cf. Pr 9,1-6; Sir 24,18-25).

pane. L’uomo ha la vita, ma non è la vita. La sua vita non è sua: viene da un altro e si mantiene con altro da sé, con il pane.

Ma c’è pane e pane. C’è quello che si compra e si vende, per il quale si litiga e si uccide. Non è certo questo che fa vivere; ad esso, anzi, si sacrifica la vita. C’è però anche quello che si riceve dal Padre e si condivide con i fratelli, in reciproco amore, che fa dei nostri bisogni il luogo di relazione e di comunione. Questo pane non solo mantiene la vita, ma ci dona la vita stessa del Figlio.

perché costoro mangino. Il fine del lavoro dell’uomo è mangiare: vivere. Ma come si mangia? L’animale consuma il suo pasto da solo alla greppia, o contende la preda con il rivale. L’uomo invece è fatto per mangiare abitualmente attorno alla mensa, con i fratelli. Il fast food, consumato in solitudine, soddisfa la fame dell’animale, ma non quella dell’uomo. La sua vita e la sua morte dipendono da come si rapporta con il pane.

v. 6: diceva questo per tentarlo. Il pane è per noi il primo oggetto di tentazione, come lo fu anche per Gesù nel deserto. In Nm 11,13 Mosè tentava il Signore perché non sapeva come procurare il pane ed era sfiduciato. Qui il Signore “tenta” il discepolo per provocarlo a cogliere l’alternativa che egli offre “al pane che si compera”. Infatti sa cosa sta per fare. Dare questo pane è il senso della sua vita: è la sua carne data per noi.

v. 7: duecento danari di pane, ecc. Servono duecento danari, duecento giornate lavorative, per procurarsi questo pane di sudore (cf. Sal 127,2). Il discepolo ignora “da dove” venga il pane che Gesù sta per dare. Non è da acquistare con fatica: è dono del Padre al Figlio, che a sua volta condivide con i fratelli.

All’economia violenta dell’appropriarsi per possedere, Gesù sostituisce quella del Figlio che dà come riceve e ama come è amato. La prima è l’economia di morte del vecchio Adamo, la seconda è quella del nuovo Adamo, che fa risorgere i morti e fa vivere.

v. 8: Andrea, il fratello di Simon Pietro. Dopo Filippo, si nominano altri due: sono i primi tre che seguirono Gesù. Nel dono del pane i discepoli hanno un ruolo importante. Stanno sul monte con Gesù, fanno le loro proposte, ricevono l’ordine di far accomodare la folla e, alla fine, di raccogliere il sovrappiù. Al centro sta il gesto di Gesù, che essi continueranno a fare in sua memoria.

v. 9: c’è un ragazzino qui. Un ragazzino, insignificante, sta all’origine del dono per tutti. Ragazzo in greco significa pure “servo”. Questo piccolo ha messo il suo pane a servizio degli altri. È immagine di Gesù, il Figlio venuto per servire e dare la vita per i fratelli, chiamando i discepoli a fare altrettanto.

cinque pani d’orzo. È il pane dei poveri. Richiama 2Re 4,42-44, dove uno offre ad Eliseo venti pani d’orzo e di farro per sfamare cento persone. Là ci sono venti pani per cento persone: un pane basta per cinque. Qui ci sono cinque pani per cinquemila persone. Il dono del Figlio è due volte cento maggiore di quello del profeta. È veramente eccessivo!

due pesciolini. È il companatico del bambino. Quanto egli ha, è sufficiente solo per lui; è la sua vita di quel giorno. Ma, una volta donato, sarà cibo sovrabbondante per tutti. Questo piccolo è come Giuseppe, il fratello minore, che sfamerà i fratelli.

Mentre Filippo fa i conti con ciò che si può comprare “da fuori”, Andrea fa i conti con ciò che è disponibile “dentro”. Se i soldi sono insufficienti per il pane che manca, il pane che c’è basta per una sola persona. Ma sarà proprio il dono di uno solo che sazierà tutti. Ognuno infatti, dando ciò che ha, realizza pienamente l’essere figlio del Padre e fratello degli altri. Questo, e non altro, è il pane che sazia. Non occorre averne di più; basta condividere quello che c’è: la vita del figlio è la relazione che viene dal pane condiviso.

L’equivoco del pane è lo stesso della vita. Si pensa che manchi o si debba acquistarlo; quello che c’è, è sempre insufficiente: basta per uno solo e per un solo giorno. L’uomo pensa sempre a un pane da possedere, comprandolo e accumulandolo per domani. Ma è come la vita, che c’è solo “oggi” ed è un dono: c’è solo se la si dona. È come il respiro, che non può essere trattenuto o accumulato: c’è solo come dono e abbandono.

Si può notare che i pani sono cinque e i pesciolini due: la loro somma è sette, numero che richiama il compimento della creazione. Questo poco cibo condiviso è la vita del settimo giorno, fine della creazione stessa.

v. 10: fate adagiare gli uomini. Il Signore prende l’iniziativa del banchetto e agisce in prima persona. Mangiano adagiati, non semplicemente seduti: è un banchetto solenne, quello messianico.

c’era molta erba. L’erba secca e appassisce, ma la parola di Dio dura sempre (cf. Is 40,7); anzi fa fiorire il deserto (cf. Is 35,1ss). Ciò che il Figlio sta per dare è un cibo che non perisce, ma che rimane interno (cf. 6,27).

nel luogo. Il “luogo” del pane (cf. 6,10.23) richiama quello dove si adora il Padre in Spirito e verità (cf. 4,20) e dove il Figlio ha guarito il fratello infermo (cf. 5,13), quello dove Gesù fu catturato (cf. 18,2), condannato (cf. 19,13) e crocifisso (cf. 19,17.20.41), quello dove sono deposti i segni della morte (cf. 20,7) e dove sono le ferite del Risorto, da vedere e toccare (cf. 20,25). È il luogo dove l’uomo sta di casa, quello che Gesù è venuto a prepararci (cf. 14,2-3).

circa cinquemila. Cinque sono i pani, cinquemila le persone. Un solo pane basta per mille, per un’infinità di persone.

v. 11: prese i pani. L’uomo “prende il pane”, la vita. Si può prendere come Adamo, che rapì per possedere in proprio. Allora il pane è avvelenato di morte: ci divide dal Padre e dai fratelli.

avendo reso grazie (alla lettera: avendo fatto eucaristia). Gesù prende in modo diverso da Adamo: è il Figlio, che tutto, anche il proprio io, riceve come dono dell’amore del Padre, anzi come il Padre stesso che si dona a lui.

Si può prendere il pane con il morso dell’animale o il pugno chiuso nel possesso, oppure con la mano aperta che riceve e dona. Nel primo caso c’è l’arresto, nel secondo il fluire della vita.

li distribuì. In quanto prende ringraziando, Gesù è il Figlio che ha in sé, come dono, la vita del Padre. Ma il Figlio non è solo uno che riceve passivamente: è uguale al Padre perché è capace, come lui, di distribuire ai fratelli ciò che ha ricevuto. È nel “distribuire” che si vede concretamente come uno “prende”, se come dono o come possesso. Il problema dei beni è sempre la distribuzione: da essa dipende la vita dell’uomo.

Mentre gli altri vangeli parlano di Gesù che “spezza e dà” il pane, Giovanni dice solo che “distribuisce”. È implicito, ma non è detto, che abbia “spezzato”. “Spezzare” richiama la croce, la fatica della morte, “distribuire” sottolinea la gioia della vita partecipata, la risurrezione. In questo modo l’evangelista fa vedere la stessa croce come gloria.

“Prendere il pane”, “rendere grazie” e “distribuire” sono le parole dell’eucaristia, che restituiscono ad ogni pane la sua realtà profonda. Nell’eucaristia si compie la creazione e si realizza ogni desiderio di Dio e dell’uomo, ogni promessa sua e attesa nostra: riceviamo la vita del Figlio e diventiamo figli e fratelli.

Queste parole trasformano in vita eterna ogni pane: sono come la farina che Eliseo mette nella pentola avvelenata della nostra esistenza, disinnescando la morte che nasconde (cf. 2Re 4,41).

L’eucaristia fa, di ogni “briciola” di pane, la pienezza di vita. Per essa il creato torna ad essere “bello” come era al principio; proprio perché l’uomo che prende, rende grazie e distribuisce, è “molto bello” (cf. Gen 1,31), immagine e somiglianza di Dio.

quanti ne volevano. Ognuno mangia di questo pane secondo il proprio appetito (cf. Es 16,17). Più uno ne desidera, più ne ha; senza esaurirlo, perché il dono è infinito.

v. 12: furono saziati. Solo questo pane sazia la fame dell’uomo. Altro pane non sazia: dà nausea a chi ce l’ha e morte a chi non ce l’ha.

Mangiare pane che non sazia è la grande maledizione, che oggi noi comprendiamo bene. Infatti gran parte dell’umanità non ha da mangiare perché una piccola parte accumula un pane che, più si mangia, più lascia affamati. Ciò che sazia è la relazione, ciò che fa morire è la sua assenza.

radunate. È importante per il discepolo “radunare” il “sovrappiù” del pane. Se ne parla con insistenza in due versetti, primo come ordine del Signore e poi come esecuzione dei discepoli. Questi sono coloro che non si accontentano di saziarsi del pane: sono chiamati a radunare il sovrappiù, ciò che va oltre la sazietà materiale.

Radunare” (in greco synágo) richiama la “sinagoga”, l’assemblea, la comunità. Essa si forma attorno a questo “sovrappiù” di pane, che la raduna mentre lo raduna.

i pezzi che sono in sovrappiù. La manna, raccolta in sovrappiù del bisogno quotidiano, si corrompeva e periva (cf. Es 16,4.20). Solo quella raccolta il sesto giorno si conservava per il sabato (cf. Es 16,21s) e solo quella posta nell’Arca, davanti alla Presenza, si conservava sempre (cf. Es 16, 32-34). Ciò che Gesù ci dà non è solo il pane quotidiano. In esso cogliamo qualcosa di più: è il cibo del sabato, che ci introduce alla Presenza, nell’intimità con Dio. Per questo ordina di radunare il sovrappiù. Infatti il pane diviso con i fratelli non solo soddisfa la fame animale dell’uomo; ha un’eccedenza – è la sua eccellenza – che deborda oltre ogni appetito. Di questo “sovrappiù” Gesù vuol suscitare il desiderio: di questo bisogna aver fame, non del pane che perisce (cf. 6,27). Il pane donato, come ogni dono, è “segno” di questo “sovrappiù”.

perché non vadano perduti. Questo sovrappiù non deve andare perduto: è la vita del Figlio, salvezza di tutto e di tutti.

v. 13: radunarono. I discepoli eseguono l’ordine e si disperdono tra la folla per radunare questo sovrappiù. Infatti c’è dappertutto, perché tutto fu creato per mezzo del Figlio ed è in lui, vita di tutto ciò che è. La comunità dei discepoli non è semplice custode di questo sovrappiù: è costituita dal suo cercarlo dappertutto.

I discepoli eseguono l’ordine del Signore, anche se ancora non hanno capito. Chi mai può capire questo dono? Eppure lo conservano e ce lo tramandano giorno dopo giorno, pur senza capirlo bene, come vedremo subito dopo sulla barca. Dio si è già donato a noi; attende che viviamo di lui, come lui di noi.

colmarono. Di “sovrappiù” c’è una pienezza stracolma, che indica la benedizione di Dio.

dodici ceste. Dodici sono i mesi dell’anno, dodici le tribù di Israele: di questa pienezza ce n’è per sempre e per tutti. Del pane condiviso sovrabbonda una quantità perfetta, che abbraccia la totalità del tempo e delle persone.

v.14: visto il segno (cf. v.2). il fatto è intuito come un “segno” di Dio. Chi può infatti dare questa abbondanza di pane? Non hanno però capito il “significato”. Per loro questo vuol dire che potranno mangiare a sazietà pane che perisce. Non hanno colto il sovrappiù. Vogliono solo il pane, non la gioia di colui che dà la vita e la comunione con lui. È l’ambiguità di tutti i miracoli.

è veramente il profeta. Identificano Gesù con “il profeta” simile a Mosè, promesso in Dt 18,15. Ma non gli danno ascolto; infatti non sanno che in quel pane c’è la vita del Figlio.

v. 15: stavano per venire a rapirlo. Come si rapisce il pane, così si rapisce colui che lo dà, per avere le mani sulla sorgente della vita. È l’antico e ripetitivo gesto di Adamo, che vuol impadronirsi del dono, negando colui che dona.

per farlo re. Il re è uno che ha le mani su tutto e su tutti. È l’uomo ideale, ciò che ognuno vuol essere. Gesù invece è il re, il Figlio uguale al Padre, perché si mette nelle mani di tutti, come il pane appena distribuito. Non domina nessuno; anzi pone la sua vita a servizio di ciascuno, perché sia libero. Difatti otterrà il titolo regale, scritto in ebraico, greco e latino, proprio sulla croce (cf. 19,20).

si ritirò di nuovo sul monte. Ritirarsi, in greco anachoréo (da cui “anacoreta”), significa separarsi andando in alto, in una regione superiore. Gesù vince la tentazione di diventare re (cf. Lc 4,5-8), ritirandosi sul monte, in intimità con il Padre. Cerca la sua gloria, non la propria. E la gloria di Dio è l’uomo libero, a sua immagine e somiglianza. Gesù non si serve del pane per asservire gli uomini, ma si fa loro servo per liberarli.

lui solo. Il Figlio, anche da solo, non è mai solo: è sempre con il Padre (cf. 8,16; 16,32). Per questo sa alzare gli occhi sui fratelli, condividendo con loro la sua vita di Figlio.

Io sono, non abbiate paura
6,16-21

1. Messaggio nel contesto

Io-Sono, non abbiate paura”, dice Gesù ai suoi nella barca. Hanno raccolto, ma non hanno colto “il sovrappiù” del pane: hanno visto il segno, ma è loro sfuggito il significato. Non hanno capito il fatto dei pani, commenta Mc 6,52. Il seguito del c. 6 ci farà entrare nel mistero del pane che Gesù ha dato: è il dono supremo del Figlio, che ci offre la sua stessa vita.

Anche i discepoli, come la folla, volevano che Gesù diventasse re. Finalmente sarebbe garantito il pane, e senza sudore. Ignorano il suo cibo, che è fare la volontà del Padre (4,34). Vogliono un re che domini su di loro (cf. 1Sam 8,1ss; Gdc 9,7-15), non il Figlio che fa camminare i fratelli verso la libertà. Vogliono solo mangiare, ma ignorano quel pane che li porta ad amare come sono amati. Eppure la loro barca ne è stracarica, sino ad andare a fondo. Possiamo infatti supporre che abbiano portato con sé le dodici ceste piene.

Anche Paolo viaggerà, prigioniero, su una barca carica di frumento. I duecentosettantasei passeggeri stavano digiuni da quattordici giorni, sbattuti dal vento e dalla tempesta. L’Apostolo li esorta a prendere cibo, necessario per la loro salvezza. E “prese il pane, rese grazie a Dio davanti a tutti, lo spezzò e cominciò a mangiarne. Tutti si sentirono rianimati, e anch’essi presero cibo” (At 27,34-37). Quel poco di frumento, preso con rendimento di grazie, condusse tutti gli uomini in salvo, a terra. Il resto del carico finì nel mare, quasi un’eucaristia cosmica, capace di placare l’abisso.

La situazione dei discepoli è simile a quella che sempre incontrerà la comunità cristiana, anzi la comunità degli uomini. Siamo infatti tutti nella stessa barca, carcerati e carcerieri, come Paolo e i suoi compagni di viaggio. Gesù ha dato il suo pane: la sua vita per noi. Di questo cibo è pieno il mondo. Ma serve solo ad andare a fondo, sino a quando non lo si prende rendendo grazie, lo si spezza e lo si dà a tutti. Questa è la sua nuova presenza da quando è scomparso sul monte, ritornato in comunione con il Padre.

I discepoli, dopo che Gesù si è ritirato, sono rimasti sul posto con gli altri, aspettando che tornasse. Ma non succede nulla. Si sentono soli e abbandonati: viene la sera e abbandonano il Signore. Se ne tornano in città, facendo a ritroso il cammino dell’esodo. Per questo sono presi dalla tenebra. Dopo una giornata di luce, ritornano alla schiavitù dalla quale erano usciti. La delusione li ha indotti ad abbandonare il luogo del pane; la tentazione li ha vinti. Il Signore, dov’è? Non pensa più a loro? Fanno un’esperienza di morte, anticipo dello smarrimento che li coglierà quando Gesù avrà consegnato il suo corpo come pane per la vita del mondo.

La barca dei discepoli si trova immersa nel buio, tra cielo e abisso – nella notte non si distingue l’uno dall’altro e pare di essere sospesi nel vuoto –, con il pericolo di essere sommersa dall’acqua. Infatti un grande vento, mentre la spinge verso il basso, le solleva contro il mare. È un vento ben diverso dallo Spirito che fa nascere dall’alto.

Anche se hanno abbandonato il loro Signore, egli non li abbandona: li ama e non li lascia in preda alle tenebre. Viene loro incontro come colui che cammina sulle acque, vittorioso sulla morte. È lui, “Io-Sono”! Come al mattino di pasqua, si squarcia la notte che avvolge i discepoli: lo accolgono sulla barca e subito, come d’incanto, raggiungono la meta.

Questo racconto, incastonato tra il fatto dei pani e il discorso sul pane di vita, mostra la potenza divina di quel “sovrappiù” che va oltre la sazietà materiale: è la misteriosa presenza dell’assente, il Signore stesso che ci comunica la sua vita, ci salva dall’abisso e ci dà la forza di giungere alla meta desiderata. Il passaggio dal mare alla terra è il passaggio dalla morte alla vita.

Il testo inizia con la “sera” e la “discesa” dei discepoli nel “mare”, sorpresi dalla tenebra e termina nella luce di “Io-Sono”, con il quale “se ne vanno” sino alla “terra”. Questa traversata è metafora dell’esistenza umana: sera e tenebra, barca e mare, vento e terra, scendere e venire, camminare sulle acque e andarsene, sono parole evocative per tutti.

Gesù è assente, sul monte presso il Padre. Dopo il dono del pane è presente ai suoi, che non lo hanno capito e lo abbandonano, come colui che viene loro incontro camminando sulle acque, per portarli a salvezza.

La Chiesa, simboleggiata dalla barca, in assenza di Gesù sperimenta la solitudine, la paura e l’incapacità di compiere la traversata. Ma sperimenta anche la sorpresa della presenza di lui che cammina sulle acque, il ricongiungimento con lui e l’approdo sicuro.

2. Lettura del testo

16: quando fu sera. Dopo il suo dono, Gesù è scomparso; si è ritirato, in solitudine, sul monte. I discepoli sono rimasti per un po’ in attesa del suo ritorno, forse sperando in una sua manifestazione spettacolare – come quella propostagli da satana sul pinnacolo del tempio – che avrebbe confermato che Dio è con lui. Allora le folle lo avrebbero acclamato re e avrebbero avuto il tanto sospirato Messia. Le tre tentazioni che Gesù ebbe nel deserto (cf. Mt 4,1-11; Lc 4,1-13), per Giovanni si concentrano qui, attorno al pane, che dà sazietà, potere e gloria. Come sono sue, sono anche nostre.

La situazione dei discepoli è la stessa della chiesa, che aspetta il ritorno glorioso del suo Signore. Ma viene inesorabilmente la sera. Ogni realtà, avvolta nell’ombra da cui il giorno l’ha tratta, quasi mangiata dal nulla, perde i propri contorni e scompare nella notte. Come per i nostri padri, così anche per noi e per tutti viene la sera. E ci chiediamo: “Dov’è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi, tutto rimane come al principio della creazione” (cf. 2Pt 3,4). In realtà il Signore ha fatto ciò che ha promesso; aspetta solo che noi scopriamo quel pane che ci ha donato in abbondanza, perché viviamo come lui che “prese, rese grazie e distribuì”.

discesero i suoi discepoli sul mare. Egli è salito sul monte; essi scendono al mare. È una defezione, una separazione da colui che sembra essersi separato. Ma cosa può fare l’uomo, giunta la sera, se non scendere nel mare, tornare là da dove è uscito? I discepoli compiono, a ritroso, il cammino che li ha portati sul luogo del pane.

v. 17: entrati in una barca. Questo temine esce otto volte nei vv. 16-24. La barca – instabile, piccolo appoggio di legno che fluttua tra l’alto e il basso – è simbolo della chiesa. Affidata all’acqua che la sostiene e al vento che la muove, ciò che la sostiene è lì pronto per sommergerla, ciò che la muove è lì pronto per rovesciarla. Ma questa è pure la condizione di ogni uomo. Tutti infatti compiamo la medesima traversata incerta, con il desiderio di approdare e la paura di naufragare, segnati dallo stesso destino. Ce lo richiamano incessantemente il comune desiderio e la comune paura.

venivano al di là del mare. Con Gesù hanno compiuto l’esodo da Cafarnao a Tiberiade, fin sul monte dove hanno ricevuto il dono del pane. Ora, senza di lui, fanno il controesodo. Sono caduti nella tentazione costante dell’uomo: non vivere la libertà, tornare alla schiavitù di prima.

già si era fatta tenebra. Venuta la sera sono colti dal buio: “li aveva afferrati la tenebra”, dicono importanti codici. La tenebra non soffoca la luce (1,5), né chi segue Gesù (8,12; 12,46); prende però l’uomo che non crede in lui e non diventa figlio della luce (12,35-36).

Gesù non era ancora venuto da loro. Nell’attesa del suo ritorno, abbandonano il monte e vanno là da dove erano partiti. Non sanno che la presenza definitiva dell’assente non è il pane consumato o da consumare, ma l’amore che si fa condivisione con il fratello. Questo è il “sovrappiù”, che va oltre la sazietà materiale ed è cibo che non perisce. È infatti la vita stessa del Figlio, che ci mette in comunione con il Padre e i fratelli. Dove la Parola si fa pane, dove si ascolta il suo comando di amarci gli uni gli altri (13,34), lui e il Padre vengono per prendere dimora presso di noi (14,23).

v. 18: il mare. È nominato tre volte (vv. 16.18.19). Richiama le acque primordiali del caos, vinte da Dio nella creazione, e le onde del Mar Rosso, aperte per lasciar passare il popolo. L’acqua del mare, salmastra e infeconda, si oppone all’acqua sorgiva, dolce e feconda, che disseta e dona vita. Uscire dalle acque è nascere; entrare nelle acque è regredire nella morte.

spirando un grande vento. Come c’è acqua e acqua, così c’è vento e vento, spirito e Spirito. Lo spirito dei discepoli, che abbandonano il Signore, è opposto a quello che li ha condotti sul luogo del pane. In noi sperimentiamo sempre i due spiriti: quello che apre alla vita e quello che conduce alla morte. Chi non conosce l’acqua e il pane del Figlio, conosce il mare e il vento di morte. Questo è lo spirito minaccioso che insidia la nostra traversata.

si ridestava. La parola greca indica il ridestarsi e sollevarsi tumultuoso delle onde, ed è un composto della parola “destarsi” che indica la resurrezione. Ma qui non è la vita, bensì la forza di morte che si risveglia, per risucchiarci nell’abisso. Se abbandoniamo il Signore della vita, giunta la sera siamo catturati dalla tenebra, in balia dell’abisso e del vento. È una situazione di smarrimento, che tutti proviamo. Sarà particolarmente forte la burrasca che sperimenteranno i discepoli dopo che Gesù, fattosi pane, si ritirerà definitivamente. Sarà la tenebra del venerdì santo.

v. 19: venticinque o trenta stadi. Sono circa cinque chilometri. La barca è quindi a metà del lago, nella situazione più critica, lontana sia dal punto di partenza che da quello di arrivo.

vedono Gesù. È un’epifania di luce, vista dalla parte dei discepoli. Vedono Gesù solo ora; ma lui di fatto è sempre stato con loro. Prima, immersi nella tenebra, sentivano solo il mare, che apriva sotto di loro la bocca, e il vento gagliardo che dall’alto ve li scagliava dentro.

Quando i discepoli vedono Gesù, non si nomina più né tenebra né vento né burrasca, neppure per dire che sono cessati. Giovanni mette in evidenza non tanto il miracolo delle acque che si placano, quanto il placarsi dei discepoli alle parole di Gesù. Sarà la sorpresa del mattino di Pasqua, che muta la loro veste di sacco in abito di gioia (Sal 30,12).

camminare sul mare. Solo Dio cammina sulle acque: ha il dominio perfetto sul caos e sulla morte (cf. Gb 9,8; Sal 77,20; Is 51,10). Camminare sulle acque è il sogno impossibile dell’uomo, suo limite invalicabile: vincere la morte, avere la vita piena. È quanto dona quel pane che essi non hanno ancora capito e che Gesù spiegherà subito dopo. È quel pane che lui stesso ci dona attraverso la sua morte e risurrezione. i discepoli sono chiamati a mangiarlo, per camminare come lui ha camminato e passare dalla morte alla vita.

farsi vicino alla barca. Il Signore si fa vicino a chi si è fatto lontano da lui. La sua apparente lontananza – la sua morte – sarà la sua massima vicinanza a noi: si farà nostro pane.

ebbero paura. I discepoli passano dalla paura della morte alla paura del Signore della vita. È la reazione che coglie l’uomo non solo davanti a ciò che teme, ma anche davanti a ciò che desidera. Questa paura è antica quanto il peccato, quanto la sfiducia nel Padre (cf. Gen 3,10).

v. 20: Io-Sono. Gesù rivela la sua identità. I sinottici dicono che lo credono un fantasma e fanno della scena un miracolo di salvezza. In Giovanni tutto è concentrato sul “vedere” e riconoscere Gesù presente. “Io-Sono”, espressione cara a Giovanni, richiama “il Nome” con cui il Signore si rivelò a Mosè (Es 3,14). Non è un’illusione il pane che Gesù ci ha dato: è Dio che salva.

non abbiate paura. Se l’uomo, fin dall’inizio, ha paura di Dio, sempre Dio, quando appare, dice: “Non aver paura”. Dio è amore; e l’amore perfetto scaccia il timore (1Gv 4,18).

v. 21: volevano prenderlo nella barca. Questo prenderlo non è un “rapirlo”, come al v. 15; è invece il modo stesso con cui Gesù “prese” il pane al v.11. I discepoli prendono Gesù: anche se ancora non lo comprendono, lo accolgono con sé. Si aprono così al mistero che “Io-Sono” rivelerà subito dopo a Cafarnao. Quando lo “vogliamo prendere” perché ci interessa lui, invece di rapirlo perché ci interessa il pane, allora giungiamo subito alla terra.

subito la barca fu sulla terra. come in un sogno, si annulla ogni distanza. Con Gesù non c’è più né notte né mare né vento: c’è subito la terra. La terra è dove si vive: con lui la nostra barca approda subito alla vita (cf. Sal 107,30). È lui, infatti, il pane di vita.

verso la quale se ne andavano. La “discesa” dei discepoli al “mare” termina con l’approdo alla “terra” verso la quale “se ne andavano”. Questo verbo indica il cammino di Gesù verso il Padre (7,33; 8,21; 13,3.33.36; 14,4-5.28; 16,5-10.17), da cui è disceso (3,13). Lui stesso è il cammino che conduce al Padre (14,4-6). Il dono del pane, che ha appena fatto, è il viatico di questo cammino. Anche di Lazzaro Gesù dice: “Scioglietelo e lasciate che se ne vada” (cf. 11,44).

Io-sono il pane della vita
6,22-47

1. Messaggio nel contesto

Io-Sono il pane della vita”, dice Gesù alla folla che è accorsa da lui. Il suo è un linguaggio “mistico”; illustra infatti un “mistero”, quello dell’eucaristia, centro della fede cristiana. Mistica e mistero evocano per noi qualcosa che sa di magia e irrealtà. Ma questa non è che una deviazione, purtroppo facile, del grande destino dell’uomo: l’uomo è di sua natura un mistico, alla ricerca del mistero celato in ogni cosa. Per lui infatti ciò che vede è da capire e interpretare: è un segno del cui significato lui solo tiene in mano la chiave. L’universo è un libro aperto, che è tale se qualcuno lo sa leggere. Nell’uomo il segno trova il suo significato, la realtà la parola che la fa venire alla luce. In lui giunge a compimento l’opera della creazione, che ritrova quella parola dalla quale e per la quale fu fatta.

Quando Gesù afferma di essere il pane della vita, ovviamente dice una metafora. Metafora significa che “porta al di là”. Il linguaggio è sempre metaforico: porta al di là di se stesso, sino alla realtà da capire e da comunicare. Se non siamo dei mistici che colgono il mistero dei segni, non siamo ancora essere umani; sentiamo solo dei suoni che associamo a un oggetto o a una serie di oggetti, come fa anche il nostro cane. Una certa mentalità positivistica non va oltre questo livello, anche se conosce molte più associazioni, che le permettono di dominare, ma non certo di capire il mondo.

Gesù dice che il pane, simbolo della vita, è lui, il Figlio che ama il Padre e i fratelli. La vita dell’uomo infatti è costituita da quelle relazioni di amore che la rendono umana e vivibile: “Chi non ama dimora nella morte” (1Gv 3,14b). Gesù applica a sé le caratteristiche del pane, che è insieme dono del cielo e frutto di lavoro: umile e utile, appetibile e disponibile, semplice e gustoso, faticoso e gioioso, forza di chi lo assimila e comunione tra chi lo mangia.

Le folle cercano Gesù perché hanno mangiato. Vogliono garantirsi la vita materiale; non hanno ancora capito che la vita dell’uomo è entrare in relazione con lui e vivere come lui, il Figlio che si fa pane per i fratelli. Non desiderano tanto lui, quanto ciò che da lui viene; e vogliono impadronirsi della sorgente del pane. Sono come i polli, che vanno dietro alla massaia per amore del becchime. Sono ancora animali, intenti al cibo che perisce. Ignorano il pane che non perisce, quello che mette in comunione con Dio e con gli uomini.

Israele, il primo giorno che entrò nella terra promessa, disse: “Che buono Dio!”; e danzò e tacque di stupore. Il secondo giorno disse: “Che buono Dio, che ci ha dato la terra!”; e cantò e guardò con gioia il cielo e la terra. il terzo giorno disse: “Che buona la terra che Dio ci ha dato!”; e guardò con piacere la terra e il cielo. Il quarto giorno disse: “Che buona la terra!”; e guardò con avidità la terra. il quinto giorno tacque, dimenticò il Padre e guardò con invidia il vicino. Nel sesto giorno ognuno cominciò a litigare con il fratello, per ampliare i propri confini. Così ebbe inizio, e continuò, tutto ciò che leggiamo nei libri di storia e sui giornali: furti e omicidi, imbrogli e menzogne, violenze e ingiustizie, oppressioni e mali di ogni tipo. Il giardino divenne deserto e tutti finirono in esilio, senza terra, senza Padre e senza fratelli.

Il pane che Gesù vuol darci è quello del settimo giorno, che ci riporta dal deserto al giardino, dall’esilio alla patria. Questo pane è la sua stessa vita: il suo amore di Figlio per il Padre e per i fratelli. Solo questo ci mantiene liberi e ci fa abitare in tranquillità la terra (cf. Lv 25,18s).

Ad ogni uomo il Signore ha fatto tre doni. Il primo è l’universo intero, il secondo è il suo proprio io, il terzo è Dio stesso. Fine di ogni dono infatti è il dono di sé. Tutto gli è dato gratuitamente, senza che faccia nulla; sta però a lui riceverlo con gratitudine e vivere in esso il dono che Dio gli fa di se stesso.

Il pane alimenta la vita, ma non è la vita. La vita è accogliere il mondo e il proprio io come dono d’amore di Dio. La relazione con lui è la felicità che ognuno desidera: la vita eterna è dire sì a chi da sempre è sì per ogni sua creatura.

Chi fa del pane, di se stesso o di qualunque altra cosa, compresa la legge e l’alleanza, il proprio feticcio, è come uno che si innamora dell’anello di fidanzamento e non di chi gliel’ha dato. Allora ciò che è segno perde il suo significato, ciò che è mezzo diventa fine: la vita si riduce a un accumulo di segni senza significato e di mezzi senza scopo. Si mangia pane che perisce. Anzi, pane avvelenato, che fa perire.

Il pane, che Gesù ha “preso rendendo grazie e distribuendo”, è lui stesso, il suo corpo dato per noi. In quanto “pane”, egli ci conferisce la sua vita di Figlio; “mangiarlo” significa assimilarlo, o meglio, esserne mangiati e assimilati, per vivere di lui e come lui. Nel dialogo sono strettamente intrecciati il pane e la fede in Gesù.

In un lungo discorso che occupa il resto del capitolo, Gesù spiega cos’è questo pane (vv. 22-47) e come lo si mangia (vv.48-58). Più che un discorso è, come sempre in Giovanni, un dialogo tra la Parola e noi che ascoltiamo. Nel dialogo escono le varie reazioni, che alla fine determinano la presa di posizione nei confronti di Gesù: o si decide per lui o ci si recide da lui, che solo ha la parola di vita eterna (vv. 59-71).

Il testo è unitario e articolato, con una progressione continua ma graduale, verso un livello sempre più alto.

Questa prima parte inizia con la folla che, non trovando più né Maestro né discepoli, va in cerca di Gesù (vv. 22-24). Quando lo trovano, Gesù li rimprovera di cercarlo per il pane che perisce e li esorta a darsi da fare per quello che non perisce, che porta su di sé il sigillo del Padre (vv. 25-27). Per procurarsi questo pane bisogna credere in lui (vv. 28-29). Alla richiesta di un segno, simile alla manna, perché possano credere in lui (vv. 30-31), Gesù risponde che la manna del deserto, come il pane che hanno appena mangiato sul monte, è segno del vero cibo che viene dal Padre: il dono del Figlio che dà la vita al mondo (vv. 32-33). Alla domanda di avere questo pane, Gesù rivela: “ Io- Sono il pane della vita”, che sazia pienamente la fame e la sete dell’uomo (vv. 34-36), perché è il Figlio che fa la volontà del Padre, testimoniando il suo amore per i fratelli sino a dare la vita; aderire a lui è avere la vita eterna (vv. 37-40). Per credere in lui bisogna superare “lo scandalo” della sua carne, nella quale si compie ogni dono di Dio all’uomo (vv. 41-47).

Gesù cerca di far cogliere, a folla e discepoli, il “sovrappiù” del pane che hanno mangiato. Ci sono due modi opposti di considerare il cibo, che sono due modi opposti di vivere: l’animale lo fa oggetto di preda e lo contende al vicino, il figlio lo prende come dono d’amore del Padre e lo condivide con il fratello. Il primo nega l’umanità dell’uomo: gli dà fame di sempre altro pane che, lungi dal saziarlo, lo fa morire, rendendo impossibile la vita sulla terra. il secondo realizza la sua umanità: lo sazia, rendendolo figlio del Padre e fratello di tutti. La nostra esistenza quotidiana può essere un inferno o un paradiso: possiamo vivere da homo homini lupus, oppure da homo homini Deus!

Gesù dice di sé: “Io-Sono il pane della vita”. è infatti il Figlio che comunica ai fratelli la vita del Padre, il suo amore. questo non è qualcosa di impalpabile e vago, ma il modo concreto di “mangiare il pane”, ogni pane: invece di consumarlo in solitudine, lo si condivide con i fratelli attorno alla mensa del Padre, “prendendo, rendendo grazie e distribuendo”.

La Chiesa vive in pienezza sempre maggiore il “sovrappiù” del pane che ha raccolto nel dono di Gesù. Facendone memoria, compie un continuo esodo da un egoismo che disumanizza a un amore che divinizza l’uomo, dandogli la sua vera identità di figlio nel Figlio.

2. Lettura del testo

v. 22: Il giorno dopo la folla rimasta al di là del mare, ecc. La folla è rimasta sul luogo del pane, in attesa del seguito di ciò che aveva sperimentato. Si accorge però che l’unica barca, sulla quale Gesù era venuto con i suoi discepoli, non c’è più. Il Maestro è scomparso da solo sul monte per non diventare re; i discepoli nel frattempo se ne sono andati per conto loro, delusi della sua assenza. Gesù, discepoli e folla, uniti nel dono del pane, sono ora separati tra di loro.

Il testo, un po’ complesso nella formulazione, può sembrare superfluo: ai fini del racconto basta il v. 24. In realtà sottolinea bene lo smarrimento della folla che non sa più dove trovare il Signore quando la sua comunità abbandona “il luogo” del pane. È lo sconcerto di chi vede noi, suoi discepoli, lontani da quel pane che ci fa testimoni del Signore.

Nei vv. 22-24 si parla quattro volte di “barca”. L’attenzione è tutta sulla barca dei discepoli, scomparsa senza il Maestro, e sulle altre barche che vengono per cercare Gesù.

v. 23: altre barche[tte] vennero da Tiberiade, ecc. Anche altra gente ha saputo ciò che è capitato e accorre sul “luogo” del pane. Ci si aspetta una ripetizione dell’evento. Ma il Signore non viene incontro alle loro attese. Attorno al pane Giovanni concentra le tre tentazioni che i sinottici pongono nel deserto, dopo il battesimo di Gesù: quella del pane (cf. v. 5s), quella del potere (v. 15) e ora quella di un segno dal cielo (v. 30).

mangiarono il pane dopo che il Signore aveva reso grazie. Con un linguaggio, che per il lettore è chiaramente eucaristico, si riferisce in sintesi ciò che è accaduto il giorno prima: “mangiare il pane” (non i pani!) e “rendere grazie”. Gesù è chiamato “il Signore”, cosa eccezionale fuori dal discorso diretto (solo qui e in 11,2; 20,20; 21,12). Nel dono del pane infatti il popolo saprà chi è il Signore suo Dio (cf. Es 16,12b).

v. 24: quando dunque la folla vide ecc. La folla, venuta sul “luogo”, vede che non c’è né Gesù né i suoi discepoli: non trova ciò che attende. Allora torna a Cafarnao, da dove era partita. Lì, come da una mano invisibile, sono riunificati quelli che hanno partecipato al dono del pane. Il dialogo, che Gesù farà con loro nella sinagoga, li porterà a cogliere il significato di ciò che era avvenuto il giorno prima.

per cercare Gesù. La folla cerca Gesù, come già i primi due discepoli (1,38) e poi Giuda e la Maddalena (18,8; 20,15). La ricerca ha esito diverso, secondo lo spirito che la muove: può portare a dimorare presso di lui e abbracciarlo, oppure a rapirlo e tradirlo.

v. 25: trovatolo al di là del mare. Nel suo lavoro di liberazione dei fratelli, il Figlio è paziente con loro: li conduce nell’esodo, ma li segue e si fa trovare anche nel controesodo.

gli dissero. È la prima volta che la folla parla con Gesù. Il pane del Figlio, di cui tutti abbiamo bisogno, ci fa tutti suoi interlocutori.

quando sei venuto qui? Cercano di conoscere i movimenti di Gesù. Vogliono, se non possedere, almeno controllare la sorgente del pane.

v. 26: amen, amen vi dico. Gesù non risponde alla loro domanda, ma a ciò che la muove. Sposta l’attenzione a un altro livello: è il Signore che parla, con l’intento di raddrizzare l’ambiguità della loro ricerca.

mi cercate. Cercare Gesù è cercare il pane, la vita.

non perché vedeste dei segni, ecc. Si può cercare Gesù solo perché garantisce il pane materiale per sopravvivere, oppure perché si è visto nel pane il “segno” di lui che si dona. Si può cercare il dono del Signore oppure il Signore del dono. Gesù vuol “e-ducarli” (e-ducare = e-ducere, tirar fuori: questo è il vero esodo!) dal loro orizzonte egoistico perché accolgano il suo amore.

v. 27: operate non per il cibo che perisce. L’uomo è chiamato a “coltivare e custodire” la terra (Gen 2,15), a faticare, dopo il peccato, per procurarsi il pane (cf. Gen 3,17b-19). Ma questo pane perisce, come anche chi lo mangia.

ma per il cibo che dimora per la vita eterna. La vita dell’uomo infatti è la comunione con Dio (Dt 30,19s). Questa è data a chi, nel suo lavoro quotidiano, opera secondo la sua parola. Il cibo che dà la vita è l’ascolto della “legge di vita e di intelligenza” (Sir 45,5). L’uomo infatti non vive di solo pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca del Signore (cf. Dt 8,3). “Non le diverse specie di frutti nutrono l’uomo, ma la tua parola conserva quelli che credono in te” (cf. Sap 16,26); “quanto sono dolci al mio palato le tue parole: più del miele per la mia bocca” (Sal 119,103). Il vero cibo dell’uomo, che lo distingue dall’animale, è la parola, che dà senso ad ogni realtà e crea relazione tra le persone. Per questo dice la Sapienza: “Venite e mangiate il mio pane”, “abbandonate la stoltezza e vivrete” (Pr 9,5s).

Il cibo di cui si parla non è un’ambrosia o un nettare che garantisce l’immortalità; è invece un modo concreto di vivere il pane di ogni giorno, come parola d’amore scambiata con il Padre: è il dono dello Spirito, che ci fa vivere da figli e da fratelli.

quello che il Figlio dell’uomo vi darà. Questo cibo è il dono del Figlio dell’uomo, sul quale si apre il cielo (1,51). Ce lo “darà”, al futuro, nel suo “corpo dato per noi”. Il pane che hanno mangiato il giorno prima è segno anticipato di questo dono. Esso viene solo da lui e lo ottiene chi aderisce a lui: è lui stesso, la sua carne.

su di lui il Padre pose il suo sigillo. Il sigillo indica consacrazione, appartenenza, autentificazione. Si tratta del segno che il Padre ha posto su Gesù nel battesimo: il dono dello Spirito, che lo autentica come Figlio (3,33).

v. 28: che facciamo per operare le opere di Dio? La folla capisce che deve cercare il pane che non perisce e che esso consiste nell’osservare la parola del Signore, “operando le opere di Dio”. Per questo chiedono cosa fare per eseguire il suo beneplacito. In altre parole: come vivere in concreto il comando dell’amore, suo precetto fondamentale? È la domanda, e il dramma, di chi vuol essere giusto (cf. Rm 7,14ss).

v. 29: questa è l’opera di Dio. Alle tante opere nostre, Gesù contrappone “l’opera” di Dio, quella che veramente a lui piace e che lui stesso compie in noi (cf. v. 37).

che crediate a colui che egli inviò. La grande opera che Dio fa è che accogliamo il dono del Figlio (cf. 3,16), in cui si compie la salvezza della creazione intera. Accogliere Gesù, Parola del Padre, luce e vita del creato (cf. 1,1ss), è realizzare il disegno di Dio, che ci vuole tutti figli nel Figlio.

v. 30: che segno fai tu? La richiesta di un segno è vista dai sinottici come incredulità (cf. Mt 12,38; 16,1; Mc 8,11; Lc 11,16). Gesù ha appena offerto il segno del pane; invece di darne uno nuovo, dà la spiegazione di quello che ha operato, perché vediamo in esso il compimento dell’opera di Dio e crediamo in lui.

v. 31: i nostri padri mangiarono la manna nel deserto. Come la Samaritana al pozzo parla dell’acqua data dal padre Giacobbe (4,12), come più avanti si parlerà del padre Abramo (cf. 8,53), la folla parla ora dei “nostri padri”, ai quali fu data la manna. Gli interlocutori di Gesù riconoscono l’azione di Dio nel passato, ma sono incapaci di vederla nel presente. Non colgono che ciò che Dio ha compiuto per i padri è segno di ciò che compie ancora per noi. È questo il salto della fede, che permette di guardare oltre il semplice fatto per leggerlo come segno della mano e del cuore del Padre, sempre all’opera per i suoi figli.

sta scritto: pane dal cielo diede loro da mangiare. Questa citazione non c’è alla lettera nella Bibbia. Si parla di pane dal cielo in Esodo 16,4 e nel Salmo 78,24 (cf. Sap 16,20; Sal 105,40). Si tratta della manna, il cibo dell’esodo, che sta al centro del dialogo tra Gesù e la folla.

v. 32: amen, amen vi dico: non Mosè ha dato a voi il pane dal cielo, ma il Padre mio dà a voi, ecc. Gesù sposta l’attenzione da Mosè a Dio stesso (chiamato “Padre mio”), dal passato (“vi ha dato”) al presente (“vi dà”) e dai “padri” a “voi”, gli ascoltatori. Il pane dal cielo non viene da un uomo, non è qualcosa di passato e non riguarda i nostri padri: è dal “Padre mio”, che lo “dà” al presente a “voi” che mi ascoltate, dice Gesù.

il pane dal cielo, quello vero. Per tre volte di seguito si nomina “il pane dal cielo”. La manna è un pane dal cielo, ma non quello vero. Essa è un segno che preannuncia il pane vero, quello che non perisce e dà vita eterna. Gesù aiuta i suoi ascoltatori a leggere i doni del passato come rimando a ciò che Dio opera adesso per loro.

v.33: il pane di Dio è colui che scende dal cielo e dà vita al mondo. Invece di “è colui” si può tradurre anche “è quello”. Però nel v. 35 c’è l’identificazione tra il pane e Gesù. Egli non è solo “pane dal cielo”, ma “pane di Dio”: è Dio che scende dal cielo e si fa pane per comunicare la sua vita al mondo intero (cf. 3,16; 4,42).

v. 34: dacci sempre questo pane. Come la Samaritana chiese l’acqua che zampilla per la vita eterna (4,15), questi chiedono quel pane che compie l’opera di Dio e dà vita al mondo.

L’andamento del dialogo nella sinagoga di Cafarnao è simile a quello davanti al pozzo di Giacobbe: è un gioco di provocazioni e reazioni, che culmina nell’autorivelazione da parte del Signore e nel desiderio del suo dono da parte di chi lo ascolta.

v. 35: Io-Sono il pane della vita. Gesù identifica se stesso con il pane di Dio che scende dal cielo e dà la vita al mondo. È tipico di Giovanni far dire a Gesù: “Io-Sono”, seguito da un predicato (6,35.51; 8,12.18.23; 10,7.9.11.14; 11,25; 14,6; 15,1.5), oppure anche senza (8,24.28.58; 13,19; cf. anche 6,20; 18,5.8). “Io-Sono” è “il Nome” con il quale Dio si è rivelato a Mosè (Es 3,14). Il predicato, quando segue, rivela chi è e cosa fa questo Nome. Qui il predicato è il pane, che comunica la sua vita a chi lo mangia. Siamo al livello più alto della comprensione del segno. Il pane, la vita che desideriamo e riceviamo, è Gesù stesso, il Figlio che dà la vita per noi.

chi viene a me. Venire a Gesù indica il movimento della fede, che si compie nel “mangiare e bere” lui, per vivere di lui.

non avrà più fame/sete (cf. 4,14; 7,37-39). Fame e sete indicano quel bisogno di vita, felice e piena, cui l’uomo aspira. “Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono di me avranno ancora sete”, dice la sapienza (Sir 24,20), sottolineando la qualità del suo dono, che suscita sempre maggior desiderio senza mai nauseare. Qui invece Gesù sottolinea l’appagamento; diversamente sarebbe una frustrazione continua. È saziato addirittura il desiderio originario di Adamo: diventare come Dio (Gen 3,5).

v. 36: pur avendo visto [me], tuttavia non credete. I suoi ascoltatori “vedono” il pane della vita, di cui quello nel deserto e quello sul monte sono segno, e tuttavia non credono in lui. La loro non è semplice ignoranza del dono (cf. 4,10). Hanno visto i segni e ne hanno ascoltato il significato. C’è nel loro cuore un impedimento a credere, che non c’era nella Samaritana. Il Signore non può essere il loro pane, fino a quando altri pani sono il loro signore: non possono credere in Dio, finché il loro dio è il proprio io (5,44). Preferiscono la tenebra alla luce, perché le loro opere sono malvagie (3,19ss). Le resistenze che abbiamo nel credere al Figlio vengono dalla menzogna che ci impedisce di accettare che Dio è Padre e noi suoi figli.

v. 37: tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me. L’opera di Dio, in quanto Padre, è attirare tutti, nessuno escluso, al Figlio, nel quale lui ci è Padre e noi gli siamo figli. venire al Figlio e unirsi a lui è il fine dell’uomo, fatto al sesto giorno perché in lui la creazione attinga il settimo e Dio sia tutto in tutti (1Cor 15,28).

non (lo) espello fuori. Gesù non “espelle” e “non perde” (v. 39) nessuno dei suoi fratelli che il Padre gli ha dato. Anzi, dà loro la vita eterna e li risusciterà nell’ultimo giorno (vv. 39-40).

v. 38: perché sono sceso dal cielo. Gesù è il pane che scende dal cielo, inviato dal Padre e sempre in comunione con lui, per comunicarci la sua vita. La sua discesa è il suo divenire carne per manifestarci e donarci il Padre.

v. 39: questa è la volontà di chi mi inviò, ecc. La volontà del Padre è comunicare la propria vita ai suoi figli. Gesù, scendendo dal cielo, compie l’opera del Padre, perché non vada perduto nulla di quanto egli ama, così che l’ultimo giorno sia per tutti vita e non morte.

v. 40: questa è la volontà del Padre mio ecc. Lui è il Figlio (“Padre mio”), che conosce la sua volontà. Questa parola esce quattro volte nei versetti 38-40. “Volontà” significa amore, non solo come passione, ma anche come capacità di azione. La volontà del Padre è darci il Figlio, perché in lui “vediamo” il suo amore per noi e lo accogliamo.

lo risusciterò nell’ultimo giorno (cf. v. 39). Aderire al Figlio è avere già ora la vita eterna, che consiste nell’amare il Padre e i fratelli. questo amore è vittoria sulla morte e caparra della risurrezione futura: uniti a lui, siamo in comunione con il principio stesso della vita.

v. 41: allora i giudei mormoravano. Gli ascoltatori, anche se siamo in Galilea, sono chiamati “giudei”, che in Giovanni ha una connotazione negativa. Infatti “mormoravano” contro il Signore, come il popolo incredulo nel deserto. Alle sue mormorazioni per la mancanza di cibo (Es 16,2.7.8.12), Dio risponde inviando dal cielo pane e carne, in modo che conoscano che il Signore è il loro Dio (Es 16,11). Il popolo si lamenta che i suoi occhi “non vedono che questa manna” (Num 11,6), senza accorgersi che è un cibo pieno di ogni delizia (Sap 16,20). Qui i giudei mormorano contro “il pane” che vedono, chiedendo come possa essere disceso dal cielo: non colgono nell’umanità di Gesù la rivelazione di Dio. Eppure, se Dio vuole comunicarsi a noi, non può che farsi carne e sangue, come noi.

v. 42: non è costui Gesù, il figlio di Giuseppe ecc. Gesù è uomo: come può essere di origine divina? Come mai chiama Dio: “Padre mio” e promette agli uomini la vita di Dio? Come può un uomo farsi eguale a Dio (5,18)? È il mistero di Gesù. Egli è carne, come tutti noi. Però è la Parola diventata carne, il Figlio di Dio che si è fatto Figlio dell’uomo, scandalo inevitabile perché ogni figlio d’uomo diventi figlio di Dio.

v. 43: non mormorate. Gesù non si giustifica né corregge. Chiede di non mormorare e di accettare questo scandalo, necessario alla nostra salvezza.

v. 44: nessuno può venire a me, se il Padre ecc. Gesù ribadisce che accogliere lui è dono del Padre, la sua opera per eccellenza (cf. vv.29.37): egli attira ogni uomo al Figlio, perché diventi figlio. Quest’attrazione del Padre, anche se misteriosa, è innata nell’uomo, proprio perché suo figlio; si esprime nelle molteplici richieste di senso che ciascuno si pone.

v. 45: è scritto nei profeti: e saranno tutti ammaestrati da Dio (Is 54,13). Tutti siamo istruiti direttamente da Dio, discepoli della voce interiore che testimonia della Parola, luce vera che illumina ogni uomo (1,6-9). Siamo “teodidatti”, ammaestrati da Dio (Is 54,13): egli agisce nel cuore di ogni uomo attirandolo verso la luce e la vita, verso il Figlio nel quale si dona a noi come Padre. Se prima c’era la legge, scritta su tavole di pietra, ora Dio stesso scrive nei nostri cuori la sua parola (cf. Ez 36,26s; Ger 4,4; 2Cor 3,2s), mettendo in noi un cuore nuovo, pieno del suo amore. chi ascolta questa attrazione interna, aderisce al Figlio e conosce il Padre. Senza di essa è assolutamente incomprensibile come uno possa diventare cristiano. Non certo per via di indottrinamenti o di crociate!

v. 46: non che alcuno abbia visto il Padre se non colui, ecc. (1,18). L’attrazione interna non ci fa vedere direttamente il Padre; ci porta invece al Figlio, l’unico che vede il Padre e lo può rivelare (1,18): vedendo lui, vediamo il Padre (14,9). Solo nel Figlio si conosce il Padre, perché lo si può conoscere solo in quanto figli. In fondo non possiamo conoscere se non ciò che siamo.

v. 47: chi crede [in me] ha vita eterna. Chi crede nel figlio ha vita eterna: la sua vita di Figlio, che è la medesima del Padre. Perché la vita eterna, il pane della vita, il pane disceso dal cielo, è il figlio stesso che ci dona la sua comunione con il Padre. I versetti seguenti avranno il tono di un’omelia eucaristica, che ci rivela come si “mangia” questo pane (vv. 48-58).

Il pane che io darò è la mia carne
per la vita del mondo
6,48-59

1. Messaggio nel contesto

Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”, dice Gesù dopo aver detto che lui è il pane della vita. Sin qui ha portato la folla a cercare quel pane che non perisce, che è lui. la manna, come ogni dono, è segno di quel pane che Dio vuol dare a tutti: la vita del Figlio, che ci fa figli.

ma la folla non accetta che lui possa essere il pane disceso dal cielo, che dà vita eterna. Non riconosce la sua origine divina, perché è un uomo, come tutti. Gesù rivela allora che la vita ci viene proprio dalla sua umanità, dalla sua carne offerta per la vita del mondo. Essa è il dono totale di sé che Dio fa all’uomo. Gesù infatti è la parola diventata carne, perché in lui ogni carne ritrovi la Parola.

I termini carne, carne e sangue sostituiscono la metafora del pane; “mangiare, masticare e bere” sostituiscono il verbo credere. Credere in Gesù, pane vivente, è mangiare e masticare la sua carne, bere il suo sangue. Dieci volte si parla di “mangiare” o “masticare”, sei volte di “carne” e quattro volte di “bere il sangue”.

Carne”, come “carne e sangue”, significa l’uomo nella sua umanità concreta. “Mangiare” non solo mantiene in vita – la funzione del cordone ombelicale è sostituita prima dal succhiare e poi dal masticare –, ma, ancor più profondamente, è un atto di comunione tra chi dà la vita e chi la riceve. Ciò che distingue il mangiare umano da quello animale è il suo essere comunicazione d’amore interpersonale, che culmina nella parola scambiata con l’altro. “Non di solo latte vive il bambino, ma di ogni parola che esce dalla bocca della madre”, disse qualcuno parafrasando il detto biblico: non di solo pane vive l’uomo, ma di quanto esce dalla bocca del Signore (Dt 8,3).

Mangiare la carne e bere il sangue – masticare e bere lui! – è un linguaggio molto crudo e duro (cf. v. 60). Ma ciò che significa è ancor più sorprendente: mangiare il Figlio dell’uomo significa assimilare il Figlio di Dio, sino a vivere di lui. mangiare infatti è assumere, metter dentro e assimilare il cibo. Credere in Gesù, aderire a lui e amarlo, qui è chiamato “mangiare”. L’uomo diventa ciò che mangia, o, meglio, ciò che ama. Il Figlio di Dio ci ha amati fino ad essere divorato dal suo amore per noi (cf. 2,17!) e diventare Figlio dell’uomo innalzato; noi, amando e mangiando lui, diventiamo figli di Dio.

Il testo ha due livelli di lettura. è sempre possibile una seconda lettura, perché ogni parola dice altro e, alla fine, dice l’Altro. Questo vale segnatamente per il vangelo di Giovanni, che, invece di raccontare la trasfigurazione, ne fa le lenti attraverso cui guardare tutto il resto. Osserva infatti con l’occhio e il cuore nuovo di chi ama, che in ogni cosa vede il volto dell’amato. questa visione, lungi dall’essere “visionaria”, è la più reale di tutte, perché è fatta alla luce di colui che è luce e vita di quanto esiste.

Il primo livello di lettura, per quanto scandaloso, è comprensibile anche per gli ascoltatori di Gesù. Affermando che lui è il pane di vita e che la sua carne è la vera manna del nuovo esodo, Gesù si attribuisce le prerogative della Parola. Si rivela così come il compimento di ciò che l’esodo e l’alleanza, e ancor prima la creazione, significano: il disegno di Dio di comunicare la sua vita all’uomo. Mangiare e assimilare lui, Figlio amato dal Padre che ama i fratelli, è la nuova legge. Si tratta di una ripresa del tema precedente, con uno sviluppo ulteriore e decisivo: a chi non crede che lui possa dare vita eterna perché è uomo, risponde che proprio la sua umanità è la rivelazione definitiva di Dio. Per questo chi non accetta lui, non compie le opere di Dio e non riceve la vita.

Il secondo livello di lettura è trasparente al lettore cristiano: si tratta di una vera e propria omelia sull’eucaristia. La sua carne non è metaforica: è realmente il suo corpo dato per noi. Chi mangia la sua carne, pane vero, e si alimenta di lui, riceve il dono supremo di Dio: il corpo e il sangue del Figlio, che lo mette in comunione di vita con lui e con il Padre. Giovanni, secondo lo stile che gli è proprio, non racconta l’istituzione dell’eucaristia, che i lettori conoscono; preferisce invece farne comprendere il mistero profondo, esplicitando ciò che gli altri vangeli lasciano implicito.

Parlando di carne e sangue si allude alla croce, dove Gesù darà il suo corpo e verserà il suo sangue. Proprio la sua umanità dona all’uomo ciò di cui tutto è segno: Dio stesso come dono di sé. Per essa entriamo in comunione con il Figlio di Dio che è diventato figlio dell’uomo. Ogni altro pane è simbolo di questo, che è la realtà. Per questo prendiamo ogni briciola di pane – ogni realtà, per quanto piccola sia – come segno d’amore del Padre, rendiamo grazie a lui e condividiamo con i fratelli, facendo circolare in tutto e per tutti la vita del Figlio. L’eucaristia è davvero salvezza nostra e del mondo intero. Infatti ci rende figli nel Figlio, in comunione con il Padre, con i fratelli e con tutto il creato. Ciò che non è oggetto di eucaristia, è morto e infetto di morte.

Questo finale del dialogo ci fa entrare nel mistero di quel “sovrappiù” di pane che ormai è presente in ogni frammento del creato: è Dio stesso che ci dona di vivere di lui, del suo amore. giova ripetere: chi dà una cosa, in realtà dà se stesso. Ogni dono, infatti, implica il dono di sé. Nel dono della carne e del sangue del Figlio si svela e si compie il dono di Dio: accogliamo lui come Padre e noi stessi come figli. e di questo gioiamo dicendo: “Amen”.

Creazione, esodo e alleanza trovano nell’eucaristia la loro pienezza: è la festa del settimo giorno, la libertà dei figli, le nozze tra Creatore e creatura, il riposo dell’uno nell’altro. Davanti a un Dio che si dona a noi – come può non donarsi, se è amore? – non c’è che stupore e gioia senza fine.

Gesù dà la sua carne e il suo sangue come cibo e bevanda del nuovo esodo. La sua umanità, totalmente offerta a noi, rende visibile quel Dio invisibile che è tutto e solo amore: in lui si celebra l’alleanza nuova e definitiva tra cielo e terra.

La Chiesa mangia e beve di lui, vero pane che ci assimila a lui e ci rende capaci di amare con lo stesso amore con cui siamo amati (13,34; 15,9; 17,23). Partecipiamo così della vita trinitaria, amore eterno tra Padre e Figlio che si espande su tutte le creature (cf. Sal 145,9), perché Dio sia tutto in tutti (1Cor 15,28).

2. Lettura del testo

v. 48: Io-Sono il pane della vita. il pane richiama la parola di Dio, principio di vita. Il vero pane è Gesù, Parola diventata carne. Nell’AT si parla di mangiare al banchetto della sapienza (Pr 9,5s; Sir 24,18-33; Is 55,1ss), addirittura di mangiare il rotolo della Parola (Ez 3,3). Le parole di Gesù sono comprensibili alla luce di questa tradizione biblica.

v. 49: i vostri padri nel deserto mangiarono la manna e morirono. La manna è il cibo dell’esodo. I “vostri padri” ne mangiarono, ma non giunsero alla terra promessa (Nm 14,21-23; Gs 5,6; Sal 95,8ss); fallirono nel cammino e non ottennero la vita eterna, perché non ascoltarono il Signore. Gesù parla dei “vostri padri”, in opposizione al “Padre mio”, della “manna” in opposizione al pane che scende dal cielo e del “morire” in opposizione alla “vita eterna”.

v. 50: questo è il pane che scende dal cielo. La manna venne dal cielo, ma solo nel passato; inoltre chi ne mangiò non ottenne la vita. Il pane di cui Gesù parla invece “scende” ora dal cielo, al presente, e chi ne mangia non muore.

affinché chi ne mangia, non muoia. Credere in Gesù, pane di vita, diventa ora “mangiarlo”: assimilando lui, Parola diventata carne, non moriamo, a differenza dei nostri padri.

v. 51: Io-Sono il pane vivente. Gesù, pane della vita (cf. v. 48), qui è il “pane vivente”, vivo e vitale, capace di trasmettere vita. La vita che è in lui è la stessa del “Padre vivente” (cf. v. 57).

che è sceso dal cielo. al v. 50 si dice “che scende”, qui “che è sceso”, per indicare quel momento preciso della storia in cui si è offerto: è l’ora della croce, anticipata nel suo farsi carne.

se uno mangia di questo pane vivrà in eterno. Chi ne mangia, ha vita eterna: vive da figlio e sarà risuscitato l’ultimo giorno (cf. vv. 40.54). Non si dice che non subisca la morte fisica, ma che questa sarà seguita dalla risurrezione (“vivrà in eterno”). La vita eterna, che già ora ha chi mangia di lui, è la comunione d’amore con lui; la morte, lungi dall’interromperla, la compirà pienamente.

il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo. Si passa dal pane, che richiama il dono della manna, alla carne, che richiama il sacrificio dell’agnello. Sono allusioni all’esodo e alla pasqua. Il pane che Gesù darà, quando sarà giunta la sua ora, è la sua carne: il suo corpo dato per noi. È un preannuncio della passione e del suo frutto. Gesù è l’agnello di Dio che toglie il peccato dal mondo (cf. 1,29), diventando, nel suo sacrificio, sorgente di vita e di benedizione per tutti (cf. 19,34).

La carne di Gesù, la sua umanità offerta sulla croce come dono totale di amore, è l’epifania di quel Dio che nessuno mai ha visto. In lui la Parola è diventata carne perché la carne stessa diventi Parola, racconto di Dio, presenza del suo Spirito che anima il mondo. Caro salutis cardo: la carne è il cardine della salvezza!

L’espressione: “la mia carne per la vita del mondo” corrisponde a quella di Lc 22,19: “il mio corpo dato per voi”, che Gesù ha detto nell’ultima cena (cf. Mc 14,22; Mt 26,26). Giovanni preferisce “carne” a “corpo”, come nel prologo; esplicita “per” con “per la vita” e dice “mondo” invece di “voi” (cf. “molti” di Mc 14,24, riferito al sangue): chiarisce, con termini a lui cari, il significato dell’eucaristia che la comunità celebra in memoria del suo Signore.

v. 52: i giudei litigavano. Se nel v. 41 mormoravano, ora c’è una discussione più vivace, un litigio.

come può costui darci la [sua] carne da mangiare? Prima mormoravano perché Gesù, essendo uomo, si fa come Dio dicendo di essere “dal cielo”. ora litigano perché dice che la vita divina viene dal mangiare la sua carne di uomo. È lo scandalo fondamentale dell’incarnazione: Gesù è Parola e carne, Dio e uomo. La salvezza viene proprio dal fatto che lui è insieme Figlio dell’uomo e Figlio di Dio.

v. 53: amen, amen vi dico. Invece di rispondere, Gesù ribadisce la sua affermazione con autorità divina. Quanto ha detto è chiaro e vero. È solo da accettare.

se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo. Gesù non solo è il vero pane, cibo per il cammino dell’esodo; in quanto Figlio dell’uomo crocifisso, è anche “carne” dell’agnello, cibo che ci fa uscire dalla schiavitù (cf. Es 12,1-14). Solo chi lo mangia ha la vita che Dio vuole dargli.

e non bevete il suo sangue. È un richiamo alla morte in croce, da dove scaturisce il sangue dell’agnello che salva dalla morte (cf. Es 12,13). Il sangue per i semiti è la vita e la vita appartiene a Dio; per questo è vietato “bere” il sangue. Gesù invece afferma che chi “mangia” la carne del Figlio dell’uomo, “beve” il suo sangue: chi assimila la sua vita di Figlio di Dio, è ebbro del suo Spirito.

non avete vita in voi. Mangiare la carne e bere il sangue del Figlio dell’uomo ci comunica la sua vita di figlio, che, come il Padre, ha in se stesso la vita (cf. 5,26). Partecipiamo alla vita del Padre e del Figlio, al loro amore reciproco.

v. 54: chi mastica la mia carne, ecc. Gesù ribadisce in positivo ciò che ha appena detto in negativo: lui, e solo lui, il Figlio, ci dona la vita eterna. Qui “mangiare” (in greco è “phágô” o “esthíô”) diventa “masticare, triturare con i denti” (in greco “trôgô”). La sua carne è da masticare per essere assimilata bene, in modo da ricevere la sua energia vitale. Queste espressioni, per quanto crude, sono comprensibili agli ascoltatori di Gesù come metafore del credere in lui, inviato dal Padre per darci la parola di vita. per il cristiano invece sono pienamente trasparenti: nell’eucaristia mangiamo e viviamo del Figlio, siamo veramente divinizzati, come dice 1Gv 3,1: “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente”.

ha vita eterna. Il pane dà la vita fisica a chi lo mangia. Il Figlio di Dio dà la sua vita a chi lo mangia: già nel momento presente lo fa vivere del suo amore eterno per il Padre, che si rivela a noi in quello che ha verso i fratelli.

e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Gesù ribadisce che il dono del Figlio non è solo vita eterna al presente, ma anche risurrezione nel futuro. La vita eterna consiste nel vivere da figli amando il Padre e i fratelli, con un amore più forte della morte. Questo amore è pegno di risurrezione nell’ultimo giorno: “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, se amiamo i fratelli” (1Gv 3,14a). Infatti, se è vero che “chi non ama rimane nella morte” (1Gv 3,14b), è altrettanto vero che chi ama non rimane nella morte, perché dimora in Dio, che è amore (1Gv 4,8b).

v. 55: la mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda. Ogni altro cibo e bevanda sono “segno”, simbolo o metafora, della carne e del sangue del Figlio, la “realtà” che ci dà la vita ed è la nostra vita (cf. 1,1ss).

Per il popolo che camminava nel deserto la manna era il cibo che garantiva la vita fisica, la legge era il cibo che garantiva la vita eterna. Ora Gesù si propone come vero cibo e vera bevanda, compimento della vita che ha nella creazione il suo inizio, nell’esodo il suo riscatto e nella comunione con Dio il suo fine.

v. 56: chi mastica la mia carne e beve il mio sangue. Si ripete che è necessario mangiare, anzi masticare e assimilare la sua umanità, per bere il suo Spirito.

dimora in me e io in lui. il frutto del mangiare e bere lui è il dimorare nostro in lui e suo in noi. È la prima volta che esce “dimorare in” (cf. 15,4.5.7.9). Significa la comunione di vita, propria dell’amore. L’amore infatti non è mai con-fusione che annulla le persone, né cannibalismo per cui uno sopprime l’altro. È invece comunione tra due che restano distinti. Qui si parla di reciproco dimorare dell’uno nell’altro : amare significa accogliere l’altro in se stesso, farsi sua casa. Questa è la presenza reale dell’uno nell’altro, nell’amore reciproco. Per questo un bue che mangia pane eucaristico non entra in comunione con il Signore, perché non lo ama né lo capisce – come tanti che partecipano all’eucaristia senza sapere quello che fanno.

v. 57: io vivo grazie al Padre. Gesù, il Figlio amato e inviato ai fratelli, è tutto “dal” e “del” Padre: vive grazie a lui, di lui e per lui. Egli è venuto a comunicarci, come nostra vita, questa sua relazione con lui, che è la sua essenza di Figlio.

chi mastica (di) me, vivrà grazie a me. Masticare lui è necessario per vivere “grazie” a lui: da lui, di lui e per lui. Mangiando lui, siamo come mangiati e assimilati da lui. Questo è il mistero dell’amore: l’amato diventa la vita di chi lo ama, “informando” tutto il suo essere, dal suo sentire al suo pensare, dal suo volere al suo agire. dice Paolo: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). Realmente questo cibo ci dà la vita del Figlio!

v. 58: questo è il pane che è sceso dal cielo. è la battuta riassuntiva del dialogo (cf. vv. 32.48.50). Gesù ha parlato del vero pane che comunica all’uomo la vita di Dio: quel pane è lui, la sua umanità di Figlio di uomo data per noi, perché diventi la nostra umanità di figli di Dio.

non come (quello che) mangiarono i vostri padri e morirono (cf. v. 49). A chi gli aveva chiesto un segno dal cielo come la manna, Gesù risponde che questa è un segno transitorio di ciò che lui ci dà. Il pane, che il giorno prima hanno mangiato sul monte, è ben più eccellente della manna: bisogna raccoglierne e coglierne il “sovrappiù”. Questo sovrappiù è la realtà stessa di cui il dono del pane, come ogni altro dono, è segno: il dono di sé che Dio fa ad ogni carne nella carne del figlio dell’uomo.

chi mastica questo pane vivrà in eterno (cf. vv. 50-51a). la vita eterna è la pienezza di vita, propria di Dio. Essa è data a chi “mastica” di questo pane, che è il Figlio, e vive di lui, sino a dire: lui è la mia vita (cf. Fil 1,21).

v. 59: queste cose disse in sinagoga, insegnando a Cafarnao. alla fine si dice il luogo della rivelazione. Questo pane, come è concreto, così lo si capisce in un tempo e un luogo concreto: in quel tempo e in quel luogo in cui ascoltiamo queste parole. Gesù le ha dette a Cafarnao, in sinagoga (cf. v. 22), dove si ascolta la parola di Dio, vita dell’uomo.

Questo vi scandalizza?
6,60–71 

1. Messaggio nel contesto

Questo vi scandalizza?”, chiede Gesù ai suoi discepoli di allora e di sempre, che all’improvviso subentrano ai “giudei” che prima “mormoravano” e poi “litigavano” (vv. 41.45). Gesù ha parlato di sé come del pane sceso dal cielo (vv. 32-47): mangiare la sua carne e bere il suo sangue ci fa vivere del suo amore verso il Padre e i fratelli (vv. 48-58). Ora che si è pienamente rivelato, chiede adesione a sé. Trova però il muro dell’incredulità non solo presso i giudei, ma anche presso i discepoli. Sono colti da una crisi che porta molti ad allontanarsi da lui.

Dono di Dio e incredulità dell’uomo hanno una storia antica che tende a ripetersi, soprattutto davanti a quel dono supremo che è il dono di sé. Già la caduta di Adamo nel giardino e di Israele nella terra promessa è l’incredulità davanti al dono. Questo comunque è originario e irrevocabile, come l’amore da cui scaturisce.

Gesù, dopo l’entusiasmo suscitato, ha deluso le loro attese messianiche. Oltre che un fatto storico, è un ammonimento alla comunità cristiana. Si può essere affascinati dalle sue opere, ma non accogliere la sua persona ed essere apostati, lontani da lui. Addirittura tra i dodici serpeggia il tradimento (vv. 64b.71). Giuda rappresenta per la comunità il risvolto ultimo, oscuro e minaccioso, dell’incredulità.

È un dialogo serrato tra Gesù e i suoi, messi in crisi dal fatto che il pane di cui si vive è la sua “carne data per la vita del mondo” (v. 51). La salvezza dell’uomo passa attraverso la croce del figlio dell’uomo! Neppure Pietro l’ha accettata (cf. Mc 8,31-33; Mt 16,21-23) e nessuno dei discepoli l’ha capita (cf. Lc 9,44s; Lc 18,31-34). Lo scandalo, che toccò ai discepoli davanti alle predizioni della passione, colpisce anche noi davanti all’eucaristia. Infatti mangiare la sua carne e bere il suo sangue ci assimila a lui. Lo scandalo è duplice: da una parte Gesù non realizza, ma capovolge i nostri sogni messianici, dall’altra noi siamo chiamati ad essere come lui.

Sia per i giudei che per noi, sia per i discepoli che per i Dodici, la croce è il fallimento estremo. Invece del Messia glorioso, che ha in mano tutto e tutti, Gesù si mette nelle mani di tutti, come il pane. Invece di dominare si pone a servire e la sua realizzazione è la sua uccisione, in cui offre la sua vita per amore.

Sono in gioco due concezioni opposte di Dio e di uomo. Noi, come Adamo, vogliamo essere come quel dio sul quale proiettiamo il nostro egoismo, con la brama di avere, di potere e di apparire. Lui invece ha il volto dell’amore: è condivisione, servizio e umiltà. Noi vorremmo un dio a immagine e somiglianza della nostra carne, insufficienza in cerca di autosufficienza; siamo invece salvati se la nostra carne diventa immagine e somiglianza della sua, che è dono di sé fino alla morte.

La carne del figlio dell’uomo, che tanto ci scandalizza, lungi dal contraddire la sua origine divina, la rivela totalmente nel suo farsi dono d’amore, a salvezza di ogni carne. Veramente la sua “carne è il cardine della salvezza”. Chi l’accetta conosce chi è il Signore e ritrova la propria verità; chi non l’accetta, si allontana dalla vita e si pone nell’inautenticità.

Noi oggi possiamo non percepire lo scandalo della sua carne: possiamo celebrare l’eucaristia come un bel rito, senza riconoscere in essa il corpo del Signore e senza assimilarci a lui. Allora mangiamo e beviamo la nostra condanna, come quelli di Corinto (cf. 1Cor 11,29). Se non accettiamo di vivere della sua carne data per noi, non abbiamo il suo spirito nella nostra carne; siamo ancora nella morte, come quei discepoli che si allontanano dal pastore della vita, come Giuda che lo tradisce.

Ma questo è il grande mistero: chi lo rifiuta (e chi lo accetta davvero?) confeziona il “suo” pane. Infatti lo uccide. Ma lui dona la sua vita a chi gliela toglie e si fa pane per tutti. Innalzato sulla croce, manifesta la sua gloria e si rivela “Io-Sono” (8,28), perché chiunque lo vede e crede in lui, abbia la vita eterna (3,14s). Guardando a colui che abbiamo trafitto (19,37), vediamo quanto Dio ama il mondo, fino a dare il suo proprio Figlio unigenito per salvarlo dalla morte (3,16).

Nei vv. 60-63 Gesù conferma, senza mezzi termini, lo scandalo della croce. Nei vv. 64-66 denuncia l’incredulità di alcuni discepoli, che poi diventano “molti” (vv. 64a.66); nei vv. 67-69 provoca i Dodici a riconoscerlo, insieme con Pietro, come il Santo di Dio, che ha parole di vita eterna. Eppure, anche tra loro, Gesù sa che c’è un traditore (v. 70s).

Gesù è il Figlio dell’uomo che dà la sua carne per la vita degli uomini. Lo scandalo della croce è giudizio e salvezza del mondo: ne svela la menzogna e lo salva, rivelandogli un Dio che ama sino a dare la propria vita per chi lo uccide.

La Chiesa patisce questo scandalo come tutti. Davanti all’eucaristia è chiamata a vivere della sua carne, che mangia. Anche se lo riconosce, è sempre esposta al rinnegamento e al tradimento, come Pietro e come Giuda.

2. Lettura del testo

v. 60: Allora molti dei suoi discepoli. Prima erano i giudei, ora sono i suoi discepoli, distinti dai Dodici, a non accogliere la Parola; alla fine sarà anche “uno dei Dodici”. La resistenza dei discepoli è la stessa del lettore davanti a quanto Gesù ha appena detto, la stessa che prova davanti all’eucaristia chiunque comprenda ciò che celebra.

dura è questa parola, ecc. La durezza sta nella sua parola o nel nostro cuore che non la accoglie? La sua parola di amore si scontra inevitabilmente con il nostro egoismo; esso ci acceca talmente che il bene ci sembra male e il male bene. Per questo dice il Signore: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri e le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55,8).

v. 61: Gesù, conosciuto in se stesso, ecc. Gesù conosce la nostra reazione in se stesso, ancora prima che dalla nostra parola: “La mia parola non è ancora sulla lingua e tu, Signore, già la conosci tutta” (Sal 139,4). Il figlio conosce l’incredulità dei fratelli davanti all’amore del Padre: è il male dal quale è venuto a guarirli, a costo della sua vita.

questo vi scandalizza? La parola “scandalizza” esce in Giovanni solo qui e in 16,1. Oggetto dello scandalo è che il pane di vita sia la sua carne data per la vita del mondo. È lo scandalo della croce. Essa, per i discepoli come per il mondo, è debolezza e stoltezza estrema, naufragio di ogni speranza; ma per Dio è la forza e la sapienza estrema dell’amore. Accettare la carne di Gesù data per noi è la nostra salvezza. È però importante avvertire lo scandalo, per superarlo. Chi non lo avverte, neppure si accorge della novità assoluta che ha davanti e la ridurrà sempre a qualcosa di ovvio. L’ovvietà religiosa è il primo nemico di Dio, che di sua natura è altro – è l’Altro! Lo riduce infatti a semplice proiezione dei deliri dell’uomo.

v. 62: se vedeste il Figlio dell’uomo salire dove era prima? Prima il figlio dell’uomo era in cielo, da dove è sceso (cf. vv. 33.38.41.42.50.51.58). La sua discesa è la sua venuta tra noi, il suo farsi carne. La sua salita è il suo ritorno, la sua glorificazione, che per Giovanni è la croce, dove il figlio dell’uomo si fa pane di vita. Lo scandalo, che i discepoli subiscono nella sinagoga di Cafarnao, anticipa quello che subiranno il venerdì santo, quando lo vedranno innalzato.

v. 63: lo Spirito è colui che dà vita; la carne non giova a nulla. Il senso immediato è evidente: la vita viene dallo Spirito, non dalla carne, che è viva solo per lo Spirito. Ma l’affermazione si riferisce a Gesù o ai discepoli? Dovrebbe essere una spiegazione del versetto precedente, che parla del figlio dell’uomo che sale dove era prima e da dove manderà lo Spirito. La sua carne terrena non può darci lo Spirito prima di “salire”, prima di dare la vita per noi. Il chicco di frumento, se non muore, non porta frutto (cf. 12,24). Potrebbe però riguardare anche i discepoli. Essi, per superare lo scandalo, devono prima vederlo innalzato sulla croce; solo dopo possono gustare la sua carne e bere il suo sangue, ricevere il suo Spirito e vivere di lui.

le parole che ho detto a voi sono Spirito e sono vita. Ci sono parole che tolgono il respiro, chiudono il cuore e uccidono; le sue parole, che noi consideriamo dure e inaccettabili, ci danno in realtà il respiro di Dio e ci aprono alla sua vita: sono parole di vita eterna, come dirà Simon Pietro (v. 68). Chi supera lo scandalo e accoglie la sua parola di figlio, ha il dono dello Spirito e della vita di Dio.

v. 64: ci sono tra voi alcuni che non credono. Al suo amore si oppone il nostro egoismo: uno capisce solo il proprio linguaggio, presta fiducia a ciò che conferma quanto già pensa. I motivi della fede e dell’incredulità non stanno nella testa ma nel cuore, non nella ragione ma nella situazione concreta che si vive. Solo chi è sufficientemente libero dall’egoismo e dalle paure, è capace di aprirsi a parole di amore e fiducia.

Gesù infatti conosceva dall’inizio, ecc. Si sottolinea, come spesso in Giovanni, la conoscenza divina di Gesù. Egli conosce il nostro male, che è l’incredulità. Il Maestro sta parlando ai discepoli; non si tratta quindi dell’incredulità del mondo, ma della chiesa stessa. Si può infatti celebrare l’eucaristia e non riconoscere il corpo di Cristo, perché il nostro agire è opposto al suo (cf. 1Cor 11,20-22). Si può essere discepoli a parole, senza credere alla Parola, alla Parola della croce che ci salva. Si può addirittura stare alla sua mensa e tradirlo (cf. 13,2.11.18.21-30). Eppure il Signore ci ha chiamati e amati, sapendo in anticipo chi siamo. Non i sani, ma i malati hanno bisogno del medico (cf. Mc 2,17p).

v. 65: nessuno può venire a me se non gli è dato dal Padre. (cf. v. 44). Gesù ribadisce che credere al Figlio è dono del Padre. Questo dono è offerto a tutti i suoi figli. Se così non fosse, Dio non sarebbe il Padre di tutti e Gesù non sarebbe il Figlio, per il quale tutto è stato creato (cf. 1,3).

L’incredulità è il grande mistero della libertà dell’uomo, che, schiavo dell’ignoranza e del vizio che ne consegue, è incapace di rispondere all’amore con l’amore. La “colpa” dell’incredulità, sia qui che al v. 44, sembra addossata al Padre più che ai suoi figli. È un paradosso attribuire a Dio la responsabilità ultima del nostro male; ma è anche l’unica possibilità di risolverlo. Se infatti a lui spetta l’ultima parola, è chiaro che non sarà cattiva come la nostra. Per questo il Figlio, che conosce il Padre, si addosserà sulla croce il male del mondo.

Se è Dio che dà la fede, tanti si chiederanno: “Perché a me non la dà?”. Se però fanno questa domanda, significa che già hanno il desiderio della fede. Si tratta di un seme, innato nel cuore di ogni uomo, che presto o tardi germinerà. Meglio presto che tardi.

v. 66: da questo momento molti dei suoi discepoli. Molti suoi discepoli, non solo “alcuni” (v. 64), non credono, perché trovano dura e scandalosa la Parola.

si tirarono indietro, ecc. Invece di andare dietro a Gesù, si tirano indietro da lui. Invertono la direzione della loro vita e non camminano più “con lui”: si allontanano dalla compagnia del Figlio, abbandonano la propria verità e tornano nelle tenebre. Questa crisi colse molti di quelli che all’inizio lo seguirono con entusiasmo, fino a quando videro che non realizzava le loro attese. La stessa crisi, anche inavvertitamente, prende ogni discepolo che non vive ciò che celebra nell’eucaristia. L’eucaristia infatti può essere un puro far memoria del Signore senza fare ciò che lui ha fatto. Per questo nell’ultima cena Giovanni non racconterà l’istituzione dell’eucaristia, bensì la lavanda dei piedi (13,1ss), per mostrare cosa essa comporta per la vita di ogni giorno.

Questi discepoli, pur avendo finora seguito il Signore, non hanno ancora il cuore convertito. Pensano e agiscono come gli altri: sono ancora “dal mondo”. È lento il cammino verso la libertà, con molte soste e cadute.

v. 67: Gesù disse ai Dodici: Non vorrete andarvene anche voi? I Dodici sono distinti dagli altri discepoli. Gesù chiede se lo vogliono abbandonare anche loro. Non è che voglia provocare una crisi: li provoca invece a riconoscerla, per risolverla. I più grandi tradimenti si consumano nell’incoscienza: il male è il frutto amaro del dolce sopore dell’oblio.

v. 68: rispose Simon Pietro: Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna. La risposta di Pietro, a nome dei Dodici, è un’adesione di fede, parallela a quella che Marco e Matteo pongono alla fine della sezione dei pani (cf. Mc 8,27-29; Mt 16,13-16), e Luca immediatamente dopo il fatto dei pani (cf. Lc 9,18-20). Pietro aderisce a lui e alla sua promessa di vita, anche se non ne capisce e condivide il modo (cf. Mc 8,31-33; Mt 16,21-23). Ama veramente Gesù e le sue parole, anche se non le comprende. Il suo è un inizio di fede, che si completerà nell’esperienza successiva, attraverso fughe e rinnegamenti. Solo dopo capirà chi è Gesù e cosa significano le sue parole.

v. 69: noi abbiamo creduto e conosciuto. Credere è qui esplicitato come conoscere, altrove come vedere. La fede è conoscenza e visione, non irrazionalità e oscurità. Chi non ha fiducia nel Figlio e nel Padre, non conosce la realtà: non vede sé come figlio, né gli altri come fratelli, né il creato come dono del Padre. Conosce e vede solo i propri deliri e le proprie paure, che proietta su tutto e su tutti.

il santo di Dio. L’espressione indica la massima vicinanza a Dio e corrisponde a “Figlio di Dio” (cf. Mt 16,16: “tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”). “Santo di Dio” e “Figlio di Dio” in Mc si trovano sulla bocca dei demoni, che conoscono l’identità di Gesù (cf. Mc 1,24; 3,11; 5,7). Il nostro modo di concepire Dio è sempre diabolicamente ambiguo: sarà sdemonizzato solo dalla croce, dove conosceremo “Io-Sono” (8,28). La fede di Pietro, pur nella sua ambiguità, è valida; rappresenta quell’attaccamento alla persona di Gesù e alle sue parole che, dopo la croce e il dono dello Spirito, potrà decantarsi dalle sue impurità e fiorire nella sua verità.

v. 70: non ho scelto io voi, i Dodici? Eppure uno tra voi è un diavolo. Nonostante che Gesù abbia scelto i Dodici e questi l’abbiano riconosciuto, anche tra di loro c’è un diavolo. Egli infatti ci sceglie tutti, così come siamo, perché suoi fratelli (cf. 13,18). Sta a noi scegliere lui. Dopo il primo annuncio della passione, Pietro diventa “scandalo” per Gesù (cf. Mt 16,23) ed è chiamato “satana”, perché non accetta la croce (cf. Mc 8,33; Mt 16,23). Giovanni, come pure Luca, non racconta questa scena; ma certamente la ricorda e vi allude. Parla di elezione in un contesto di defezione e tradimento, per mostrare che essa è irrevocabile: il Signore rimane fedele in eterno, al di là di ogni nostra infedeltà.

Tra i Dodici c’è sempre il diavolo; si manifesta in Giuda (cf. 13,27), ma insidia tutti (cf. Lc 22,31). Pietro e Giuda sono le due anime che sempre convivono in ogni credente: l’adesione a Gesù e il rifiuto della sua carne data per noi. Se non si accetta la sua carne, non si ha il suo Spirito (1Gv 4,2) e si fa della sua persona l’attaccapanni delle proprie false attese.

v. 71: Gesù parlava di Giuda di Simone Iscariota, ecc. Il c. 6, che è tutto sul pane di vita, si chiude con Giuda di Simone che tradisce. La sua figura, posta nel finale, acquista particolare rilievo. Il suo tradimento ha un ruolo determinante nel farsi pane di Gesù. “Tradire” (= consegnare) in Giovanni indica l’azione di Giuda (cf. 6,64.71; 12,4; 13,2.11; 18,2.5; 21,20) e la consegna di Gesù al tribunale e alla morte (cf. 18,30.35; 19,11.16), ma anche l’atto supremo di Gesù che ci consegna il suo Spirito (19,30).

uno dei Dodici. Si pone l’enfasi sul fatto che Giuda è uno dei Dodici. il lettore capisce che anche lui, come loro, è sempre aperto al tradimento. E in molte forme, che non è facile svelare. Comunque il dono del pane viene proprio attraverso il nostro tradimento: la croce è lo scandalo in cui il nostro rifiuto, sordo e ostinato, diventa il suo dono, consapevole e incondizionato.