IL MISTERO PASQUALE E I GOLGOTA DEL NOSTRO TEMPO
Parte 1
P. Carmelo Casile

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1. PARTECIPARE E CELEBRARE IL TRIDUO PASQUALE

1.1 Il Triduo Pasquale nella comunità cristiana

La celebrazione del Mistero Pasquale occupa un posto di primo piano nella comunità cristiana, come pure nella vita d’ogni battezzato. Infatti, il messaggio della Pasqua costituisce l’unica ragione dell’essere della Chiesa: “Se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e rimanete ancora nei vostri peccati” (1Cor 15, 17).

Il Triduo Pasquale, in cui è annunciato, realizzato e portato nel vissuto della vita quotidiana il Mistero della morte-risurrezione di Gesù (= Mistero Pasquale), è il momento forte della vita della Chiesa. Tutti gli anni la Chiesa celebra la memoria di un Venerdì, di un Sabato, di una Domenica: tre giorni che lei chiama “santi” perché li considera decisivi per la sua stessa esistenza e per la storia del mondo.

La Chiesa, “ricordando in tal modo i Misteri della Redenzione, offre ai fedeli le ricchezze delle azioni salvifiche e dei meriti del suo Signore, in modo tale da renderli come presenti a tutti i tempi, perché i fedeli possano venire a contatto con essi ed essere ripieni della grazia della salvezza“ (SC 102).

Celebrare la memoria, pertanto, non è misurare la distanza tra il presente e un avvenimento passato, ma eliminare questa distanza.

Celebrare la memoria, commemorare, è far rinascere il passato, è far presente il passato. Nel caso del Triduo Pasquale è far presenti i primi tre giorni dell’anno zero della vita della Chiesa, per lasciarsi interpellare e coinvolgere nel Mistero di una Croce, di una Tomba e di una Mensa: i luoghi dove si realizzò e continua a realizzarsi l’incontro pieno e definitivo tra Dio e gli uomini, nel Signore Gesù; i luoghi dove nacque la Chiesa e nei quali continuamente deve rimanere per mantenersi in vita e continuare la peregrinazione fino alla Terra Promessa.

Dio-Amore, infatti, non solo ha creato il mondo, ma è anche entrato nel mondo ed è vissuto nel tempo nella “onnidebolezza”, in quanto non ha niente da opporre al male del mondo se non la sua infinità carità.

La storia registra tra i suoi «grandi» un uomo, che non è soltanto uomo, ma è anche Dio: Gesù di Nazaret. Nella vita di Gesù c’è un momento culminante, la «sua ora». In quest’ora, si sono compiuti degli avvenimenti attraverso i quali operava Dio, per la nostra redenzione. Questi eventi sono la passione, la morte e la risurrezione di Cristo. È il mistero della Pasqua, il «passaggio di Cristo da questo mondo al Padre», ossia la buona novella dell’amore che vince il dolore e la morte.

«La morte di Cristo, accettata per obbedienza d’amore verso il Padre e per amore verso l’uomo, è la suprema attività» (Th. De Chardin), che vivifica la storia; essa, infatti, «non è la povera e oscura sofferenza patita come miseria e insopportabile peso delle tante croci della storia, ma sofferenza d’amore, libertà di un Cuore che accoglie donando, che offre soffrendo, che salva patendo. “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). “Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con Lui?” (Rom 8,32). “In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il Suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10)» (B. Forte).

Davanti alla ferita del Cuore di Gesù sempre aperto, rivelazione di Dio-Amore, «viene a tacere il chiasso della protesta e la rinuncia della rassegnazione: in Lui e da Lui si è contagiati ad amare, e perciò anche a fare del nostro dolore, come della storia della passione del mondo, storia di amore, itinerario di speranza, di carità e di giustizia» (B. Forte). L’onnipotenza divina che si è manifestata nella creazione, si manifesta ancor di più nella ricreazione dell’uomo, nella rigenerazione della persona e della società nel perdono e nella pace. Questa rigenerazione è integrale, abbraccia cioè tutte le dimensioni della vita umana, a livello personale e sociale. Dal Cuore di Gesù sempre aperto nasce così la passione per Dio come risposta al suo abbraccio di amore nel Crocifisso-Risorto che ci introduce nella gioia della sua “eternità”, e la passione per l’uomo, intesa come annuncio gioioso della sua salvezza realizzata nella morte-risurrezione del Signore. Da quest’annuncio nasce e si sostiene l’impegno per la liberazione integrale dell’uomo, promovendo i suoi diritti fondamentali, la giustizia e la pace, sottolineando la dimensione sociale del Vangelo, che include la dimensione economica, perché essa è una componente essenziale della vita e fu quindi redenta dal mistero dell’amore del Calvario.

Se ci lasciamo coinvolgere nella «suprema attività» di questa “ora”, nel mistero dell’amore del Calvario, per mezzo della celebrazione del Triduo Pasquale, avremo il coraggio di dire al mondo paralitico ciò che Pietro e Giovanni hanno detto all’uomo paralitico che giaceva alla porta del tempio di Gerusalemme: “Non abbiamo né oro né argento, ma ciò che abbiamo te lo diamo: nel nome di Gesù alzati e cammina” (At 3,6).

1.2 Il Mistero Pasquale nel vissuto di Oscar Romero

La tensione “vita dopo la vita e impegno per la vita in questo mondo”, propria del Mistero Pasquale, c’è trasmessa da Oscar Romero in questi termini:

«Tutto ciò che spargiamo nel mondo in giustizia, in pace, in parole d’amore, in buon senso, tutto questo lo ritroveremo trasfigurato nella bellezza della ricompensa eterna […] Sin dalla sua risurrezione [Dio] ci sta dicendo che il cristiano è abitante dell’eternità, è pellegrino su questa terra, che egli lavora perché deve darne conto a Dio, e però la sua patria definitiva è dove Cristo vive per sempre, dove saremo felici con Lui […]. Fratelli non siate deboli quando parlate della fede in Cristo. Nessuno ha la forza di un cristiano quando ha fede nel Cristo che vive ed è energia di Dio. Quale guida dell’umanità può dire a tutti i suoi seguaci che vive eternamente? Quale vittorioso del mondo può dare a tuta l’umanità la grande vittoria della sua morte e della sua resurrezione»1

1.3 Il Mistero Pasquale nel vissuto di san Daniele Comboni

La stessa tensione ci è trasmessa da san Daniele Comboni nell’introduzione alla 1ª edizione del Piano (Torino, dicembre 1864, p. 3-4):

Il cattolico, avvezzo a giudicare le cose col lume che gli piove dall’alto, guardò l’Africa non attraverso il miserabile prisma degli umani interessi, ma al puro raggio della Fede; e scorse colà una miriade infinita di fratelli appartenenti alla sua stessa famiglia, aventi un comune Padre su in cielo, incurvati e gementi sotto il giogo di Satana.

Allora trasportato egli dall’impeto di quella carità accesa con divina vampa sulla pendice del Golgota, ed uscita dal costato di un Crocifisso, per abbracciare tutta l’umana famiglia, sentì battere più frequenti i palpiti del suo cuore; e una virtù divina parve che lo spingesse a quelle barbare terre, per stringere tra le braccia e dare il bacio di pace e di amore a quegl’infelici suoi fratelli” (S 2742-2743).

In questo testo Comboni svela nella Trinità le misteriose Sorgenti, che danno origine e sostengono il suo amore “così tenace e resistente” per l’Africa fino al sacrificio della propria vita. Il profondo “senso di Dio”, vissuto abitualmente da Comboni, diviene qui comunicazione di vita sul Mistero Trinitario in intima connessione con il Mistero Pasquale, cioè con il Mistero del Crocifisso-Risorto e con la sua passione missionaria.

Il punto di partenza della comunicazione di Comboni è il Cuore Trafitto di Gesù, Buon Pastore (Cf S 2742).

La Croce alla quale Comboni aderisce, è la Croce “gloriosa”, cioè quella che è causa della Risurrezione di Gesù. L’immagine di Gesù che domina nella sua vita, è quella del Cristo glorioso, che continua a operare la salvezza del mondo, servendosi della collaborazione umana. Il suo “guardare l’Africa al puro raggio della fede” è “un giudicare delle cose con lume che gli piove dall’Alto”, dove il Risorto sta alla destra del Padre, vittorioso. Si comprende il Mistero Pasquale che è al centro della vita di Comboni, precisamente partendo dalla Risurrezione.

Nel vissuto del Mistero Pasquale in Daniele Comboni, è presente tutta la Sacrosanta Trinità, che è da lui la percepita pellegrina nel cammino degli uomini… Questa percezione che inonda il suo spirito, rende in lui sempre più forte il sentimento di Dio e sempre più saldo il legame di solidarietà con la Nigrizia, fino a farlo suo “sposo” e liberatore; questa percezione è la vena nascosta che dà ragione e forma alla sua “passione” per la Nigrizia, per cui ci può dichiarare con verità che come missionario viene dal cuore della Trinità.

Viene dal coinvolgimento nel dinamismo dello Spirito Santo, “Virtù divina”, che gli rivela nel Cuore Trafitto di Gesù sulla Croce il segno e lo strumento perenne dell’amore salvifico che eternamente sgorga dal cuore del Padre, e la via della solidarietà con la vita di tutti gli uomini. Viene così introdotto nell’inesauribile dialogo e comunione tra il Padre che ama tanto il mondo da decidere di inviare il Figlio, e il Figlio che risponde con la sua obbediente consegna redentrice fino alla fine in Croce, e gli merita il dono di questa stessa “Virtù divina” come fiamma di Carità che sgorga dal suo Cuore Trafitto.

All’essere coinvolto nell’azione salvifica della Trinità mediante questa fiamma di Carità, viene tratto fuori dal “buio misterioso” che ricopre l’Africa e dalla paura del passato in cui “rischi d’ogni genere e scogli insormontabili sgominarono le forze e gettarono lo sgomento” tra le file missionarie. La Nigrizia si trasfigura ora davanti al suo sguardo: comincia a vederla ”come una miriade infinita di fratelli aventi un comun Padre su in cielo”. L’abbraccio di Dio Padre lo esperimenta segnato dalla sofferenza di questi suoi figli africani, e nel bisognoso africano scopre un fratello, che ancora non usufruisce della benedizione del Padre che scaturisce dalla Croce…, per cui ha bisogno di essere incamminato verso di Lui.

Sotto l’influsso dello Spirito Santo, esperimentato come fiamma di Carità che sgorga dal costato del Crocifisso sul Gólgota, sente che i palpiti del suo cuore si fondono con quelli di Gesù e si accelerano. In questa sintonia di cuori percepisce come il Padre, attraverso il suo Figlio incarnato, morto e risorto, ascolta il grido di quella miriade di figli suoi che vivono in Africa ancor “incurvati e gementi sotto il giogo di Satana” ed entra con tutto il suo essere nella loro storia e nel loro dolore.

Questa Carità lo fa sentire figlio amato dal “comun Padre” che si prende cura di lui allo stesso modo che dei suoi fratelli più abbandonati fino alla consegna del suo proprio Figlio; è questa Carità che lo trasporta e lo spinge a stringerli tra le braccia e dar loro il bacio di pace e d’amore; lo spinge, cioè, ad assumere la loro storia e il loro dolore divenendone parte e facendo “causa comune con loro”, anche con il rischio della sua vita.

È un incontro con dei fratelli in cui si cela il volto di Gesù nello sconcertante mistero della sua identificazione con gli esclusi della storia (Mt 25, 42-43). Nei suoi fratelli africani oppressi gli si rivela il volto colpito, dolorante e sfigurato del Crocifisso, che fissa il suo sguardo su di lui e lo chiama ad evangelizzarli e a lavorare per il loro progresso e per la liberazione dalla loro schiavitù. Nello stesso tempo continua a tenere lo sguardo fisso sul Crocifisso, per “capire sempre meglio cosa vuol dire un Dio morto in croce per la salvezza delle anime”.

Comboni, infatti, ha percorso il suo pellegrinaggio missionariotenendo gli occhi fissi nel Crocifisso-Risorto. L’unione con Gesù crocifisso la visse in modo particolarmente intenso nelle varie situazioni e tappe della sua vita missionaria, e ha raggiunto il vertice nell’ultimo periodo della sua vita, consumata sulla breccia in un lento e sempre più martoriato olocausto, che lo rende tanto simile al Crocifisso del Gólgota. La vita del Comboni fu una vita profondamente segnata dal Mistero della Croce; una Croce accettata, cercata e soprattutto amata, conseguenza della certezza della sua vocazione, che ha temprato il suo carattere, lo ha educato alla santità e ha plasmato il suo esuberante zelo missionario. Questa Croce, abbracciata da Comboni come sua sposa indivisibile ed eterna (Cf S 1710; 1733), ha reso la sua vita simile ad una “via crucis”, percorsa coscientemente fino al Calvario, per la redenzione della Nigrizia2.

a) Il Venerdì Santo di Comboni

Nella tensione morte-risurrezione del Mistero Pasquale, il Venerdì Santo di Comboni è la sua anima sola, vuota, in aridità e angoscia… È la sua anima innamorata-consegnata e senza comprensione, senza compagnia… È la sua situazione di un uomo “solo” disposto a dare mille vite per l’amata Nigrizia; l’esperienza del suo cuore che comincia a battere più rapidamente contemplando l’impeto della Carità che si accese con divina vampa sulla pendice del Gólgota e si effuse dal costato di un Crocefisso; quella “virtù divina” che lo avvince, che gli stringe il cuore e lo spinge tra le braccia della Nigrizia per essere guida-servo della sua rigenerazione…

In Comboni, questa esperienza forte di Dio nel Cuore trafitto di Cristo trabocca nell’esuberanza del dono totale di sé alla causa della rigenerazione della Nigrizia, che così fortemente attira la nostra attenzione. Il nostro Fondatore e Padre, prima di essere un uomo conquistato dalle cose da fare per Dio, è un uomo conquistato e contagiato dal Mistero di Dio, da un Dio-Cuore, manifestato in pienezza nell’Evento della Croce, che associa le vittime del male del mondo alla Pasque Eterna del Risorto.

L’orizzonte in cui Comboni vive il Mistero Pasquale è l’eternità, intesa come esperienza profonda, dinamica e perseverante del Mistero di Dio-Trinità.

Perdendo di vista l’eternità, l’impegno missionario è ridotto a semplice attività filantropica e perde lo slancio divino della sua origine ed il suo significato ultimo, per cui il missionario è il primo a rimanere esposto ad una specie di vuoto e isolamento intollerabile (cfr. Regole 1871, Cap. X).

“La forte e straordinaria presenza della beata Trinità in Comboni, (come appare all’inizio del Piano: S 2742-43), divenne sorgente della sua apertura e spinta missionaria, e così diventò servizio, ministero fino al martirio a quelli che per lui parvero i più poveri e abbandonati del suo tempo, cioè gli Africani dell’Africa Centrale” (Missione in Africa, p. 78).

Nell’esperienza carismatica e spirituale di Comboni, la missione non è una filosofia della vita o un’avventura filantropica causata dai problemi umani degli Africani, ma un’offerta di salvezza, presenza dell’Amore Assoluto, che produce la gioia propria del Regno di Dio, nel costatare che è presenza rigeneratrice dell’uomo oppresso. Il missionario è partecipe di questa gioia, sentendosi amato e inviato da Dio per essere suo strumento in quest’opera di ri-generazione. Far presente in mezzo agli ultimi della terra l’amore rigeneratore di Dio, che sgorga dalla ferita del Cuore di Gesù sempre aperto, ed esperimentare questo stesso amore nella propria vita, è lavorare per l’eternità.

Per tanto, per Comboni lavorare per l’eternità non significa che si dedica alla missione per comprare la felicità eterna per se stesso e per gli africani oppressi, ma che si dedica alla missione aperto alle necessità del mondo nell’ottica di Dio, mirando ad un futuro con speranza di risurrezione, perché sa che le uniche buone sono le mani di Dio, Amore “fontale” e finale di ogni vita umana: abbia successo o insuccesso nella missione, il Padre è sempre con lui ed è l’unico garante del suo Regno. Perciò egli può morire, ma l’opera che il Padre gli ha affidato non morirà. Al di fuori del coinvolgimento nell’Amore Trinitario, senza la dimensione escatologica, la vocazione missionaria di Comboni appare come una casa senza fondamenta e senza tetto.

b) L’«Inno alla Croce» e il «Sabato Santo» di Comboni e dell’umanità3

Nei diversi viaggi verso Khartoum con le bellezze di una natura vergine, che gli “destano nell’anima l’idea più sublime di Dio”, D. Comboni poteva osservare le rovine di antiche civiltà e dei primordi del cristianesimo in quelle terre, soprattutto “…. Tebe, Karnak, Luxor…” (S 200).

Possiamo ritenere, quindi, che l’“Inno alla Croce” sia stato ispirato a Comboni anche dalla vista delle rovine della città di Tebe e dei vicini imponenti templi di Luxor e Karnak. La città di Tebe della metà del XIX secolo era solo l’ombra di quella che era stata un tempo, ossia appariva come un agglomerato addossato al tempio di Amenofi III, un ammasso di rovine minacciate dalle inondazioni del fiume.

Questo scenario di decadenza è quanto vide Comboni; dai sui Scritti emerge anche che al tempo del suo arrivo in Alto Egitto in questi luoghi c’era una consistente presenza islamica, che interpella lo zelo del Missionario (S 4545; 4550).

Allora, davanti alle “rovine del paganesimo”, davanti ai popoli che ancora non conoscono il Signore Gesù, l’“Inno alla Croce” che Daniele Comboni intona, è una esaltazione della Salvezza universale nella morte in Croce di Gesù e, nello steso tempo, un processo alla “idolatria”.

Il silenzio che avvolge ancora queste “rovine del paganesimo” e le difficoltà che l’annuncio del Vangelo affronta anche oggi, ci rimandano al “Sabato Santo”, un tempo di attesa indefinita che si fa ricerca della Verità, mentre “Dio morto nella carne, è sceso nel regno degli inferi per chiamare Adamo ed Eva, a vita nuova”4, affinché in loro tutti quei “pellegrini nella notte” fossero inclusi nella Salvezza e l’ ”attesa” di tutti i tempi fosse colmata.

È il “sabato dei cuori”, un “vivere nella notte”, il “sabato dell’umanità” in attesa di giustizia e pace, perché non si vive più per il “fine” per il quale si è nati e allora si finisce “per lodare, riverire e servire” déi concepiti da mente umana e costruiti da mani di uomo.

In questo “sabato” in cui “l’umana miseria si adopera a togliere la pace del cuore e la speranza di una vita migliore, noi al fianco di Gesù Crocifisso che patisce per noi, tripudiamo in mezzo all’avversa fortuna, mantenendo intatta quella pace preziosa, che solo appiè della croce può trovare il servo di Dio…” (S 343).

2. IL NOSTRO COINVOLGIMENTO NEL MISTERO PASQUALE

Nel Triduo Sacro, nei giorni di Giovedì, Venerdì e Sabato Santo, così come in seguito nella Pasqua, ci viene indicata la legge fondamentale della nostra vita cristiana. Questi sono certamente i giorni più importanti dell’Anno Liturgico che vanno, quindi, celebrati con la massima attenzione. Per questo dovremmo prenderci tempo non solo per partecipare nella liturgia, ma anche per approfondirla personalmente nei suoi contenuti e significati. In quest’ottica, potremmo meditare sui simboli della liturgia, come il pane, il calice, la lavanda dei piedi, la Croce, il sepolcro. Tutti essi sono punti di riferimento per la nostra vita e, nello stesso tempo, immagini per la nostra salvezza.

Se in questi giorni accompagniamo Gesù nel suo cammino, percorriamo nello stesso tempo la via della nostra liberazione e realizzazione umana. Questo cammino si sviluppa in quattro tappe: accettazione (Giovedì Santo), abbandono (Venerdì Santo), unificazione (Sabato Santo), rinnovamento (Pasqua).

a) Il Giovedì Santo

La Liturgia del Giovedì Santo si svolge intorno alla dimensione vitale dell’ ”accettazione”. Celebriamo l’inaugurazione dell’Eucaristia. Nell’Eucaristia, Gesù ci accetta in un modo perfettamente intenso. Condividere il pasto con un altro era già per i giudei accettare l’altro, unirsi a lui. Se io mangio con un altro, non posso avere niente contro di lui. Mangio dello stesso pane, bevo dello stesso calice e così mi unisco con l’altro. Gesù raccoglie questo simbolo, ma è Lui stesso che si dà nel pane e nel vino.

b) Il Venerdì Santo

La liturgia del Venerdì Santo è una vera rappresentazione del mistero della nostra salvezza, un vero psicodramma. La rappresentazione comincia con un profondo silenzio. Il sacerdote si stende sul pavimento. Deve prostrarsi davanti al mistero. L’unico modo con cui possiamo celebrare questo mistero della nostra salvezza, è quello lasciarci impressionare e rimanere muti, stupiti…

«Egli si è caricato delle nostre sofferenze […]. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati curati» (Is 53, 4ss).

In queste parole c’è data la chiave di come dobbiamo contemplare la Passione di Gesù: gli scherni e gli oltraggi che soffrì, le sue debolezze e il suo fallimento, il suo abbandono e la sua disperazione, queste sono le nostre ferite e quelle di questo mondo. Ma, nello stesso tempo, queste sono anche le ferite per mezzo delle quali saremo guariti. La storia della Passione è una storia unica della salvezza: la storia della guarigione delle nostre ferite interiori e dei mali che lacerano la convivenza umana; è nella Croce dove si accumulano le nostre ferite e necessità, da essa viene la salvezza al mondo d’oggi.

c) Il Sabato Santo

Anche il Sabato Santo ha una funzione importante nel cammino della nostra realizzazione umana. La Liturgia ci crede capaci di immaginarci per un’intera giornata Gesù morto nel sepolcro. E c’invita a scendere nella nostra tomba, nella nostra profondità, e lì otteniamo l’unificazione con il fondamento del nostro essere, con la radice della nostra vita. Gesù non solo ha esperimentato la nostra morte, ma rimase morto per tre lunghi giorni. Egli non poteva agire né sentire più; era senza vita, isolato da ogni genere di comunicazione. Nel sepolcro, Gesù esperimentò la morte come abbandono totale, come la solitudine più radicale, nella quale non c’è posto per nessuna parola d’amore.

Il Sabato Santo ci vuol assicurare che Gesù è penetrato nella nostra solitudine, nella nostra freddezza, nella nostra rigidità. E lì, dove l’unica cosa che comanda è la morte, l’unica cosa che vive è il suo amore. Lì, dove siamo isolati dalla vita, ci raggiunge Lui con la sua parola d’amore.

Nel Sabato Santo, si tratta del fatto che noi, assieme a Gesù, possiamo scendere nelle nostre ombre e ricuperare e rendere fecondo tutto quanto Dio ci ha dato in dono come possibilità di crescita. Il giorno del Sabato Santo dovremmo affrontare la nostra “situazione sepolcrale” e introdurre nella nostra angustia la fede nella risurrezione.

Nel Sabato Santo si tratta, inoltre, del ristabilimento della storia della propria vita, della guarigione dei ricordi. I monaci dell’Egitto hanno conosciuto un metodo che ci può aiutare per guarire il nostro passato carico di tante ferite. Si tratta di immaginarci che stiamo tre giorni nel sepolcro. Se avessimo il coraggio di rappresentarci questo una volta, che cosa abbandoneremmo nella nostra tomba? Quali pretensioni esagerate che ci mutilano la vita, quali ricordi, quali falsi motivi? Quali pezzi di pietra che avremmo potuto lasciare nella tomba trasciniamo inutilmente con noi? Quanti morti trasciniamo realmente in noi, nel nostro corpo, nei nostri sentimenti? Quante asprezze rimangono come briciole nel nostro stomaco? Tutto questo dovremmo lasciarlo nella tomba. Così, potremmo risuscitare meno preoccupati, più liberi, più naturali.

Dovremmo ripassare tutta la storia della nostra vita d’accordo con le esperienze che ci hanno danneggiato, le ingiurie e maltrattamenti che gli uomini ci hanno inferto, e dovremmo domandarci come abbiamo reagito davanti a queste offese. Forse non abbiamo voluto ammetterle in tutta la loro magnitudine, perché ci hanno danneggiato troppo. E allora abbiamo voluto stringere fortemente i denti e in questo modo ci siamo chiusi in blinde per non dover sentire il dolore. Per questo sono morte tutte queste cose. Adesso ne sentiamo la mancanza e le trasciniamo come pezzi rigidi e morti che in verità non ci appartengono.

Molte persone rifiutano il ristabilimento, la guarigione interiore. E forse scopriamo anche noi che non siamo disposti a lasciarci guarire incondizionatamente da Dio. Non vogliamo lasciarci sfuggire di mano tutte le scuse con le quali ci difendiamo da una trasformazione. Il rifiuto di ascoltare la chiamata di Gesù per uscire dal sepolcro, ci impedisce di cominciare a vivere da risorti e da “cirenei” per i più tribolati di noi in questo mondo.

Se in questi giorni accompagniamo Gesù nel suo cammino, percorriamo nello stesso tempo la via della nostra autentica liberazione umana, che porta all’accettazione di sé e della propria storia in profonda pace. Quest’accettazione è il risultato di una riconciliazione universale (con Dio, origine d’ogni realtà, con se stesso, con gli altri e con gli avvenimenti della propria storia) ed è condizione indispensabile per aprirsi agli altri mediante il dono di sé.

È vero, infatti, che «chi cerca di fare ed agire in favore degli altri, o del mondo, senza approfondire la conoscenza di sé, la propria libertà, integrità e capacità di amare, non avrà niente da dare agli altri. Comunicherà loro nient’altro che il contagio delle proprie ossessioni, aggressività, delusioni riguardanti fine e mezzi e ambizioni, egocentriche»5.

Seguendo i passi del Crocifisso-Risorto ognuno di noi, comincia a esperimentare in se stesso il potere dell’amore misericordioso di Dio rivelato in Cristo Crocifisso e Risorto, e raggiunge quell’unità interiore, che lo spinge a darsi ai fratelli, per farli partecipi della sua salvezza. Dall’accettazione di sé in Cristo, dall’abbandono nelle mani di Dio-Padre, nasce il dono di sé per gli altri in Cristo e come Cristo; nasce l’accettazione di sé per Cristo, per l’opera che Egli è venuto a realizzare, seguendolo nella via della Croce, cioè della fedeltà a Dio per la realizzazione del suo Regno, e diviene così partecipe con Lui nella gioia per la salvezza del mondo.

P. Carmelo Casile
Casavatore, Marzo 2012 / Febbraio 2022

1 Roberto Marozzo Della Rocca, Primero Dios. Vita di Oscar Romero, Mondadori, p. 342

2 Daniele Comboni, A servizio della missione, 10 Col sigillo della Croce, pp.278-233

3 Cf. Anna Maria Sgaramella SMC, In Egitto sulle orme di Daniele Comboni, Cairo 2003, p. 40-44

4 Liturgia delle Ore, Omelia del Sabato Santo

5 Cf Joyce Ridick, I Voti: un tesoro in vasi di argilla, PIEMME 1992, p. 32.