Formazione Permanente 2023
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OSTACOLI DA SUPERARE NEL CAMMINO SPIRITUALE 
DEL DISCEPOLO MISSIONARIO COMBONIANO (4)
P. Carmelo Casile

Introduzione
1. La nostra vita spirituale appare debole e bisognosa di discernimento 

  • 1.1. Il formalismo pietistico
  • 1.2. Il formalismo religioso di stampo ideologico
  • 1.3. La spinta della “spiritualità della liberazione” al superamento del formalismo pietistico e ideologico 
  • 1.4. Il cammino di vita spirituale proposto nel Documento Conclusivo di Aparecida 

2. Un malinteso concetto di consacrazione circola anche in mezzo a noi
3. La provocazione dell’assenza e dell’abbondanza delle vocazioni nel nostro Istituto
4. Un errore fatale: identificare il carisma con il progetto apostolico
5. Ripercussione della visione riduttiva del carisma nel cammino formativo
6. Un’attenzione costante: tenere saldi i pilastri della vita di consacrazione missionaria 
7. Un rischio da evitare
8. Ruolo della cura della vita interiore dei membri della comunità
Conclusione: La lezione di Hetty Hilesum: la dedizione agli altri come esito della vita spirituale.

5. Ripercussione della visione riduttiva del carisma nel cammino formativo

Quando in vari modi enfatizziamo tra noi come «proprio» della vita missionaria comboniana l’impegno a rispondere alle grandi sfide dell’umanità, che si concentrano soprattutto nel Sud del Mondo, allora la consacrazione perde la dimensione spirituale di chiamata gratuita da parte di Dio e di risposta generosa in libertà e gratitudine a questa chiamata (Cfr RV 20), e diviene una consacrazione di tipo moralista, soltanto funzionale, che priva il Carisma del suo nucleo generatore, che è l’aspetto cristologico del Carisma stesso da cui nascono le motivazioni decisive per un impegno a vita nel servizio missionario. A sua volta la proposta formativa diviene riduttiva, cerca prevalentemente la gratificazione personale sia degli animatori sia dei giovani, e si sviluppa intorno al volontarismo (moralismo) e all’esperienzialismo, in una prospettiva ideologica. 

A questo punto la significatività del Carisma si diluisce fino a divenire insignificanza

Certamente, alla presenza di tale tendenza, i giovani ci ammirano e nel loro cammino formativo concentrano le loro forze sulla preparazione “professionale” con lo studio e l’attività apostolica. Il risultato è mortifero: una vita consacrata missionaria mediante i consigli evangelici (RV 1; 11), ridotta ad una semplice vita generosa (= filantropica), non giustifica le rinunce che richiede e finisce per aprire il cammino verso una doppia vita, con i risvolti dolorosi che non è difficile immaginare…

6. Un’attenzione costante:
tenere saldi i pilastri della vita di consacrazione missionaria 

L’impostazione del nostro cammino formativo di base e permanente è segnato dall’impegno a formare alla vita del Vangelo “qualificata dagli ideali e dall’esperienza del Comboni come sono vissuti nell’Istituto” (RV 81) e quindi, nello stesso tempo, a coinvolgere i giovani nel servizio missionario alla luce dei segni dei tempi.

Tale impegno purtroppo si rivela illusorio, come possiamo costatare dallo scarso indice di perseveranza dei nostri candidati e da improvvisi episodi di vita scadente, in cui non si capisce che fine ha fatto non solo la vita evangelica che ci proponiamo di vivere, ma perfino il senso morale

Da qui nasce per noi formatori la necessità di perseverare con serietà nel lavoro per aiutare i giovani in formazione a vivere una prossimità autentica al Signore Gesù (RV 21; 21.1-2; 3-5). Non sarà un lavoro facile né gratificante, perché non saremo graditi a tutti gli Scolastici e forse non saremo compresi da confratelli maggiori, ma daremo una mano allo Spirito Santo, perché porti a termine la sua opera in quelli che sono fedeli al «Sì» che gli hanno dato. 

Nella nostra azione formativa non possiamo perdere di vista in nessun momentoche il carisma missionario comboniano (RV 1-9) poggia su tre pilastri, da cui nasce l’identità del missionario comboniano o la personalità comboniana

  • consacrazione ( = esperienza di Dio in Cristo => esperienza mistica => vita spirituale): RV 2-5; 20-35; 46-55; 
  • comunione (= vita comunitaria => senso di appartenenza): RV 36-45;
  • servizio missionario (= progetto apostolico): 56-79.

La vita spirituale, cioè l’esperienza di Dio in Cristo, la vita comunitaria e la missione sono unificate dal cammino ascetico

La vita spirituale è l’esperienza fondante, da cui nasce l’esperienza mistica, cioè l’esperienza di Dio in Cristo, nella quale il comboniano sperimenta che cosa Dio opera in lui, quando si mette in sintonia con il carisma di san Daniele Comboni: Dio lo ama e lo salva attraverso il Cuore Trafitto di Gesù Buon Pastore e lo fa sacramento di quest’amore per la Nigrizia (S 2742).

L’esperienza mistica attraverso l’interiorizzazione del carisma di Comboni è percepita, quindi, anzitutto come una nuova rivelazione ed iniziazione al Mistero Salvifico di Dio, in cui è messo in risalto un aspetto della infinita ricchezza divina in ordine ad una particolare azione salvifica, che Dio vuole realizzare in favore dell’umanità bisognosa di salvezza, qui e ora. In questa esperienza il comboniano sente come Dio lo ama e lo salva e nello stesso tempo lo sceglie come strumento di questa stessa salvezza, affidandogli una missione specifica da compiere, che lo lega strettamente al suo piano di salvezza del mondo.

L’esperienza mistica, per tanto, si concretizza nella consacrazione e crea nel comboniano il senso di appartenenza al carisma e alla comunità di persone che l’hanno ricevuto assieme a lui ( = vita di comunione di con-vocati nella comunità-cenacolo).

La consacrazione a sua volta s’incarna in un concreto servizio missionario, che diviene la ragione della vita del missionario comboniano (AC ‘91, 6; 6.1-6; 9; RV 56).

La vita spirituale, la vita comunitaria e la missione maturano e progrediscono attraverso il cammino ascetico. 

Il cammino ascetico o cammino nello spirito è la naturale conseguenza dell’esperienza mistica: “La passione per Gesù Cristo, crocifisso e risorto, contemplato specialmente nel mistero del suo Cuore che ‘dona la sua vita per le pecore più abbandonate’, perché diventino soggetti e protagonisti della propria storia e della salvezza già avvenuta” (AC ‘91, 13.1), fa nascere nel missionario comboniano l’esigenza profonda di conformarsi a questo mistero contemplato.

Questa è precisamente l’ascesi, che deve essere intesa come cammino di formazione di base e permanente. In questo cammino unificante, il servizio missionario, definito dal carisma comboniano, costituisce il punto di riferimento costante, la tensione ideale, verso la quale il missionario, per mezzo della consacrazione, orienta la sua comunione con Dio, il suo amore fraterno nella comunità e il suo cammino ascetico.

Il cammino ascetico, che innerva il cammino formativo, deve essere inteso «come una graduale assimilazione della “sequela Christi” vissuta dal Comboni, concretizzata nel servizio missionario “ad gentes” secondo i segni dei tempi. La missione, come afferma il Fondatore nell’introduzione alla Regola del 1871, illumina e determina l’iter formativo, affinché i missionari siano “santi e capaci”. Oggi più che mai queste parole sono attuali e degne della massima attenzione» (AC ‘91, 34; cfr. Ratio 4-5). Infatti, l’esperienza carismatica di san Daniele Comboni viene personalizzata, cioè comincia a coinvolgere e a segnare la personalità del missionario giovane o adulto, quando provoca in lui un processo di interiorizzazione dei contenuti di questi tre pilastri attraverso il cammino ascetico (cfr. AC ‘91, 9; 12.3). 

L’immagine più espressiva di questo cammino “è il Figlio che, sulla croce, dà al Padre la risposta più grata al suo amore eterno e dona agli uomini con amore gratuito la sua vita. E siamo al vertice del concetto di responsabilità cristiana. Salvati da quel gesto, infatti, siamo ora resi capaci di ripeterlo nella nostra vita, dando la stessa risposta, respons-abili della salvezza dell’umanità, liberi dalla preoccupazione egoistica della propria individuale salvezza. Mistero grande!”. 

7. Un rischio da evitare

Il grosso rischio nel cammino di formazione di base e permanente è di compromettere lo sviluppo armonico di questi tre pilastri, unificati dal cammino ascetico. 

Nell’ambito dello Scolasticato si può facilmente costatare che gli scolastici s’impegnano in primo luogo nello studio, poi nell’apostolato, quindi passano molto tempo al telefono o telefonini e a internet, un mondo tanto vasto che gestiscono da soli con criteri personali, a volte perfino contrari all’identità cristiana e religiosa…; per coltivare la vita spirituale si ha l’impressione che si accontentano di usare i residui di tempo o si occupano quando hanno tempo. In questo settore si nota la lacuna più grande, accompagnata dalla lamentela – giustificazione che non c’è tempo… 

Questa situazione si percepisce nel fatto che fanno fatica a narrare la loro esperienza spirituale e a impegnarsi nell’uso dei mezzi per riuscire in questo impegno. 

Lo scarso impegno nella vita spirituale impedisce di purificare e approfondire le proprie motivazioni, così da personalizzare il carisma e stabilire un rapporto nuziale con la comunità, superando il mero rapporto istituzionale – funzionale.

Inoltre, lo scarso impegno nella vita spirituale appiattisce la vita di comunione, che si alimenta di motivazioni superficiali, al massimo umaniste, per cui la vita di comunità invece di essere comunione fraterna è convivenza pacifica, tolleranza diplomatica o cameratesca. Viene così minato il fondamento della lealtà vicendevole e della fiducia e il suo ruolo costruttivo nella comunità, e comincia a insinuarsi tra i suoi membri una sensazione di estraneità reciproca e di diffuso individualismo. 

In questo clima, il rischio che si corre è di segare i fondamenti evangelici e spirituali della vita missionaria posti nel noviziato, dando per scontata una vita spirituale definitivamente acquisita, che in realtà è sempre incipiente per tutti e che, se non è coltivata adeguatamente, deperisce, portando all’atrofia o anoressia spirituale e quindi all’insignificanza vocazionale e all’affievolimento dell’identità … 

Non possiamo dimenticare, come ci ricorda Benedetto XVI, che «oggi vi è un’ipertrofia dell’uomo esteriore e un indebolimento preoccupante della sua energia interiore». 

Il quadro qui disegnato riflette situazioni che si vivono nell’Istituto in maniere molto evidenti da parte di missionari che già vantano parecchi anni di vita missionaria. 

Non è difficile renderci conto che tra gli scolastici alcuni si prendono certe licenze contrarie al nostro modo di vivere come persone consacrate nella Chiesa, perché vedono e sanno che ci sono missionari che fanno così e lo fanno impunemente. Tra loro commentano che a volte questo modo di comportarsi diventa un’occasione per essere mandati a studiare in qualche università… Commentano anche che da parte dei Superiori c’è più tolleranza per le mancanze dei confratelli occidentali che per quelli del Sud del mondo, per cui devono fare attenzione a non farsi scoprire o pescare.

Ancora una volta va ribadito che non basta proclamare e proporre valori, se contemporaneamente non esistono nelle comunità locali dell’Istituto modelli di riferimento, cioè persone in carne e ossa, che sono impegnati a vivere tali valori, cioè non esistono dei modelli di riferimento.

E questi modelli di riferimento siamo chiamati a esserlo tutti i membri della comunità: dai giovani agli anziani. 

Questo avverrà se ci educhiamo alla relazione, convinti che le condizioni per un cordiale rapporto con le persone dipendono anzitutto da noi stessi. 

Le persone ci accolgono e ci vogliono bene nella misura in cui ci presentiamo con una personalità sufficientemente matura ed equilibrata, cioè con un “normale funzionamento psichico” e morale, e occupati a migliorarci tramite un paziente e costante impegno di lavoro su noi stessi (ascesi). 

La qualità delle nostre relazioni, anche se condizionata da fattori personali, culturali e ambientali, è legata soprattutto alla cura e all’impegno che ciascuno mette nello sforzo di migliorare continuamente il proprio modo di rapportarsi con le persone che incontra. 

Tuttavia, la qualità delle nostre relazioni non può dipendere semplicemente dalla moralità (onestà) e dal galateo, cioè dalle buone maniere, che sono indispensabili, ma che sono legate ad una determinata cultura e alla mentalità del tempo.

Per i cristiani il criterio ultimo per stabilire la bontà delle proprie relazioni è Gesù Cristo. Le nostre relazioni interpersonali sono buone nella misura in cui esprimono quei sentimenti che sono del Signore Gesù e ne imitano gli esempi.

Per raggiungere questo obiettivo ci fa da guida san Daniele Comboni, che ci esorta a tenere fisso lo sguardo su Gesù Cristo, amandolo teneramente (cfr. S 2720-2721).

Gesù appare, infatti, «una persona nella quale l’umanità ha raggiunto il suo vertice; in lui si trova tutto ciò che fa grande l’uomo: magnanimità e umiltà, fortezza e dolcezza d’animo, libertà assoluta e disponibilità totale per Dio e per i fratelli, forte senso dell’amicizia e capacità di solitudine, comunione profonda con Dio e comunione con i poveri e i peccatori, conoscenza dell’animo umano, elevatezza di pensiero e semplicità nell’esprimersi. Una personalità straordinaria per quello che è stato e per quello che ha insegnato. Non si trova in lui alcuna forma di tattica o forme di astuzia. Non fa mai violenza alle persone, rispetta la libertà. Più che un organizzatore, egli irradia potere e fascino e le persone lo cercano.

Molto attivo e impegnato, è nello stesso tempo capace di riposarsi. Non cerca l’applauso o lo spettacolare. Dà prova di essere audacemente libero da interessi personali, dalla legge, dalla famiglia, dalle cose. Non si lascia condizionare dai giudizi altrui; è determinato nel perseguire i suoi obiettivi e chiaro nelle sue idee».

Lo sguardo fisso su Gesù Cristo ci porta ad approfondire la relazione con Dio.

Per Comboni, il missionario è un uomo assetato di Dio che sotterra la vita di prima e la centra in Lui solo, animato da un vivo interesse alla sua gloria e al bene delle anime; sazia la sua sete e centra la sua vita in Dio “col tener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo, amandolo teneramente, e procurando di intendere ognora meglio cosa vuol dire un Dio morto in croce per la salvezza delle anime”:

«La vita di un uomo, che in modo assoluto e perentorio viene a rompere tutte le relazioni col mondo e colle cose più care secondo natura, deve essere una vita di spirito e di fede. Il Missionario, che non avesse un forte sentimento di Dio ed un interesse vivo alla sua gloria ed al bene delle anime, mancherebbe di attitudine ai suoi ministeri, e finirebbe per trovarsi in una specie di vuoto e d’intollerabile isolamento» (S 2698). 

Il dialogo con Dio arricchisce la nostra vita spirituale e di conseguenza anche il nostro dialogo con le persone. San Doroteo di Gaza spiegava: «Pensate a un cerchio tracciato per terra. Il cerchio è il mondo e il centro è Dio. I raggi sono le vie degli uomini: quanto più essi avanzano, tanto più si avvicinano a Dio e più si avvicinano anche tra di loro. E viceversa».

San Daniele Comboni ci spiega il «viceversa» con l’icona del Cenacolo di Apostoli mettendo come Centro l’esperienza di Dio in Cristo: 

«Questo Istituto perciò diventa come un piccolo Cenacolo di Apostoli per l’Africa, un punto luminoso che manda fino al centro della Nigrizia altrettanti raggi quanto sono i zelanti e virtuosi Missionari che escono dal suo seno: e questi raggi che splendono insieme e riscaldano, necessariamente rivelano la natura del Centro da cui emanano» (S 2648).

8. Ruolo della cura della vita interiore dei membri della comunità

Nella comunità, per tanto un ruolo decisivo spetta alla cura della vita interiore dei suoi membri. 

La relazione con l’altro, infatti, è arricchente e gratificante nella misura in cui siamo persone interiormente ricche e sensibili. Il nostro andare incontro alle persone deve nascere da motivazioni nobili e valide; non deve nascere da un bisogno compulsivo di contatti umani e di approvazione, né dalla paura della solitudine, né dall’ansia, né da vanità o egoismo, ma da un cuore buono e sensibile, desideroso di dare e ricevere. Occorre ritrovare continuamente l’interiorità se si vuole che le nostre relazioni siano ricche e significative per sé e per gli altri. Tutto ciò è indispensabile per sottrarci alla banalità di tante conversazioni, alla insignificanza e alla superficialità di tanti incontri, al parlare vuoto e al pettegolezzo. 

Per creare un clima propizio alla cura della vita interiore dei membri della comunità, “la fede missionaria”, contenuta nei tre pilastri della vita missionaria comboniana, va continuamente proposta, mai presupposta in nessuna fase della vita del missionario comboniano, tanto meno nella fase dello Scolasticato. L’unico rimedio per superare la crisi in cui ci troviamo, che nell’Assemblea di Palencia 2005 fu definita “scisma bianco, una divisione tra linguaggio e vita”, è anche per noi “una nuova evangelizzazione”, per essere “discepoli missionari” nel nostro tempo nell’ottica del carisma dell’istituto (cfr. RV 99). Altre vie di uscita sarà difficile trovarle.

«La vita fraterna ci mette in condizione di lavorare su noi stessi e questo ci rende normalmente più comprensivi e anche più disponibili nei confronti degli altri. Di questo tipo di trasformazione lenta e progressiva potranno approfittare tutte le persone che avranno a che fare con noi. Per questo amo insistere perché nessuno si dispensi dalla fatica del vivere comune. Giustamente le costituzioni affermano che essa favorisce molto la formazione permanente. Questo ci aiuta a crescere verso un tipo di relazioni che possano dirsi realmente “redente” e che sono frutto sia della grazia che dell’impegno di ciascuno dei membri della fraternità. Lavorare su se stessi costa molta fatica, eppure è una condizione indispensabile per raggiungere una più grande maturità umana, specie nei rapporti con gli altri. Quante volte mi capita di accusare gli altri del mio stare poco bene! Agendo in questo modo, senza nemmeno rendermene conto, attribuisco agli altri un potere enorme nei miei confronti e indolente mi piace stare nel ruolo della vittima. Tutti i nostri tentativi di cambiare gli altri sono tempo perso! Le relazioni in seno a una fraternità migliorano dal momento in cui qualcuno inizia a lavorare su se stesso senza pretendere che gli altri facciano lo stesso. Constatando il cambiamento, anch’essi inizieranno a cambiare». (Fra Mauro Jöhri, ministro generale dei cappuccini). 

Per creare un clima propizio che permette lavorare su se stesi, la comunità ha bisogno di un servizio di animazione che sia capace di educare al silenzio e all’interiorità e creare un clima di scuola di preghiera. Tutto questo non è facile, ma un aiuto ci può venire se prendiamo in considerazioni le indicazioni che ci offre la nostra Regola di Vita, che definisce la comunità comboniana “orante” e le traccia un cammino di iniziazione alla preghiera: 46-55.

Siamo in grado di capire allora che buona parte della formazione di base e permanente passa attraverso le relazioni comunitarie e la vitalità della vita comunitaria centrata sulla preghiera. 

LA LEZIONE DI HETTY HILESUM:
LA DEDIZIONE AGLI ALTRI COME ESITO DELLA VITA SPIRITUALE 

[Cfr. A. Gentili, ‘Sarò io ad aiutare Dio!’. Il cammino spirituale di Hetty Hillesum, Ed. Ancora, 2014]. 

Alcuni pensieri di Hetty Hillesum possono illuminarci nel nostro cammino spirituale. 

Sono significativi alcuni pensieri del suo Diario. Etty Hillesum è una giovane donna ebrea che vive in Olanda e nel 1941 inizia a scrivere un diario. Esso ci mostra il suo percorso di crescita spirituale, in cui lei alimenta la sua capacità di resistenza creando degli spazi per sé, di bellezza e meditazione, e contemporaneamente esercita la sua solidarietà nella società. Etty lavora con il Consiglio Ebraico della città, entra in contatto con gli ebrei che vengono deportati, va poi per sua scelta nel campo di concentramento da cui partirà in treno per Auschwitz, dove anche lei morirà qualche mese dopo (novembre 1943).

Ragazza che «non sapeva inginocchiarsi», intraprese una ricerca interiore che la radicò in quel puro essere in cui percepì la presenza divina e accolse le vittime dello sterminio: «La mia vita è un ininterrotto “ascoltare dentro” me stessa, gli altri, Dio». Di fronte a un «inferno assoluto», sostiene che se Dio «non sarà più in grado di aiutare noi, saremo noi a dover aiutare Dio», conservandone le tracce nel cuore umano. 

I pensieri di Etty qui riportati esprimo molto bene il significato della vita spirituale messa al centro del cammino della vita umana e cristiana, vissuta nella logica di “aiutare Dio, aiutando gli altri”, di “immergersi in sé, per immergersi negli altri”, “distruggere in se stesso ciò che si ritiene di dover distruggere negli altri”.

«La mia testa è l’officina dove tutte le cose di questo mondo devono giungere a essere formulate in piena chiarezza. E il mio cuore è la fornace ardente nella quale tutto deve essere sentito e sofferto con intensità». 

«M’immagino che certe persone preghino con gli occhi rivolti al cielo: esse cercano Dio fuori di sé. Ce ne sono altre che chinano il capo nascondendolo fra le mani: credo che cerchino Dio dentro di sé».

«Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più volte essa è coperta di pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo». 

«Non vedo nessun’altra soluzione che quella di raccoglierci in noi stessi e strappar via il nostro marciume. Non credo più che si possa migliorare qualcosa del mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi».

«Non sono i fatti a contare nella vita, conta solo ciò che grazie ai fatti si diventa». 

« Cercherò di aiutarti (Dio), affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa però diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, ed in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare in questi tempi e anche l’unica che veramente conti è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi ad ogni battito del mio cuore cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi»

«Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane e l’ho distribuito agli uomini»:  

=> frase mirabile in cui si intravede l’abbozzo della confessione della valenza eucaristica impressa alla propria vita da questa giovane donna, che preferì essere «sola e per tutti». Ci ricorda che l’amore si fa dono, così da renderci pane spezzato per gli altri.

Hetty, come molti altri scrittori dopo Auschwitz, si rende conto che Dio, in qualche modo, non agisce, perché siamo noi a dover agire. Dio non agisce perché agisce attraverso di noi. Siamo noi a dover salvare lo spazio per Dio in questo mondo, siamo noi a dover avere cura di Dio nella nostra esistenza, nella nostra società e nelle relazioni con gli altri. Siamo noi a cui Dio si è affidato nella debolezza dell’incarnazione, e quindi, come dice Etty, siamo noi a dover aiutare Dio.

Non è un appello al nostro senso di onnipotenza, ma un richiamo profondo ed importante alla responsabilità che noi abbiamo nella storia! 

L’amore che noi possiamo esprimere deve essere capace di indignazione e di giustizia, deve essere capace di passione, capace di dire dei no, capace di porre dei limiti all’ingiustizia. Questo lo si fa anche attraverso una ricerca di spazi in cui sé e Dio possono coesistere. Quando Etty si prende cura di sé, sa che si prende cura di Dio dentro di sé, ed in questo modo lascia che Dio agisca in lei.

Prendersi cura della presenza di Dio nel mondo significa anche prendersi cura di noi, e viceversa: prenderci cura di noi significa aiutare Dio ad essere presente nel nostro mondo e nella nostra società». (cfr. Letizia Tomassone in «Prendersi cura di sé, degli altri, di Dio», Gabrielli Editori, p. 171s).

P. Carmelo Casile 
Casavatore, Gennaio 2015 / Marzo 2023