Formazione Permanente 2023
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OSTACOLI DA SUPERARE NEL CAMMINO SPIRITUALE
DEL DISCEPOLO MISSIONARIO COMBONIANO
P. Carmelo Casile
Introduzione
1. La nostra vita spirituale appare debole e bisognosa di discernimento
- 1.1. Il formalismo pietistico
- 1.2. Il formalismo religioso di stampo ideologico
- 1.3. La spinta della “spiritualità della liberazione” al superamento del formalismo pietistico e ideologico
- 1.4. Il cammino di vita spirituale proposto nel Documento Conclusivo di Aparecida
2. Un malinteso concetto di consacrazione circola anche in mezzo a noi
3. La provocazione dell’assenza e dell’abbondanza delle vocazioni nel nostro Istituto
4. Un errore fatale: identificare il carisma con il progetto apostolico
5. Ripercussione della visione riduttiva del carisma nel cammino formativo
6. Un’attenzione costante: tenere saldi i pilastri della vita di consacrazione missionaria
7. Un rischio da evitare
8. Ruolo della cura della vita interiore dei membri della comunità
Conclusione: La lezione di Hetty Hilesum: la dedizione agli altri come esito della vita spirituale.
2. Un malinteso concetto di consacrazione circola anche in mezzo a noi
In una sua riflessione pubblicata il 30 luglio 2013 su “comboni.org”, dal titolo “CAMMINI DI RICONCILIAZIONE NELLA NOSTRA STORIA DI ISTITUTO”, P.Alberto Pelucchi, Vicario Generale, ci pone una domanda-provocazione: – “Religiosi” o (solo) missionari; le due cose assieme, oppure…?, e riassume la questione in questi termini:
«Da quando sono entrato nei Missionari Comboniani è stato uno dei temi e dibattiti più ricorrenti di cui posso fare memoria. Così come innumerevoli sono le ragioni che mi sono state presentate pro e contro l’una o l’altra tesi. Facendo appello alla volontà del Fondatore in una prima istanza, poi riveduta e corretta alla luce di nuove lettere e testimonianze. “Partire dalla missione”, si sente spesso dire. “Sì, però la Regola di Vita parte dalla vita religiosa e solo poi si arriva alla missione”, notano altri. Di quale missione parliamo poi? La missione vissuta in modo molto individualistico o come comunità in cui si condivide tutto? “Tutto ma non tutti i soldi, lasciatemi dire”, specificano altri. “Attenzione allo spirito fratesco da cui Comboni metteva in guardia i suoi”, aggiungono altri, e via dicendo.
Non so se oggi siamo arrivati a una vera sintesi o se la questione è stata semplicemente messa da parte, in stand-by. È un conflitto che ha portato a frutti e richiami buoni, ma che, ho il sospetto, ha anche offerto scusanti a debolezze e fragilità che avevano e hanno a che fare più con la natura umana che con il desiderio di maggiore fedeltà alle chiamate ed esigenze della missione e della vita religiosa».
Questa costatazione fa eco alla Ratio Missionis (Settembre 2012). In essa, nel nostro darci da fare per trovare nuovi spazi di missione, ci viene segnalato il fatto che questo nostro sforzo sarà insufficiente, se ci manca il coraggio di includere anche le “periferie esistenziali” di casa nostra.Una di queste periferie ce la indica al n. 3.1.3, dove rileva che “se, da una parte, concordiamo sull’importanza di una sana vita spirituale, dall’altra, si denota come la nostra spiritualità sia debole e incerta e ciò comporti delle pesanti conseguenze”. Tra le varie conseguenze si stigmatizza il fatto che “si vive una certa schizofrenia tra il fare missione e la nostra dimensione di religiosi consacrati, tra fede e vita”.Per superare questo ostacolo viene suggerito che “ogni comboniano si impegni in una lettura feconda della RV” e “la comunità faccia una lettura continuata per una riflessione condivisa”.
Quanto a me, sono entrato nell’Istituto direttamente in Noviziato dal Seminario, dopo aver completato lo studio della Filosofia. Durante il periodo del Noviziato e poi dello Scolasticato (1959-1964) non mi sono accorto di questa questione. Provenivo dal Seminario Regionale di Reggio Calabria che era retto dai Gesuiti della Provincia di Napoli. Il Rettore e un Fratello incaricato della portineria erano stati molti anni missionari in India, ho visto arrivare e ripartire per l’India due Gesuiti, originari di Reggio Cal., e tanti altri missionari religiosi che visitavano il Seminario, tra i quali anche alcuni comboniani (i PP. Farè, Mazzoni e Bartolucci). In quegli anni per me la vita religiosa e la vita missionaria facevano un tutt’uno, era semplicemente vita missionaria; era questo il messaggio che arrivava a me da quegli uomini di Dio, attraverso i quali ho cominciato a sognare la missione. Devo però aggiungere che in quegli anni sono stato testimone di un episodio che è rimasto impresso nella mia mente. Facevo parte di un gruppo di seminaristi che si prendevano cura dei ragazzi di un quartiere povero vicino al Seminario. È arrivato il momento in cui avevamo bisogno di un Sacerdote per le confessioni di questi ragazzi. Il Rettore ci indicò il nostro professore di Filosofia. Quando gli abbiamo fatto la richiesta, si rifiutò dicendoci: «Io mi son fatto religioso per salvare la mia anima, non per confessare i ragazzi”. Riportammo la risposta al Rettore, che fu deciso nell’ottennere ciò che gli aveva chiesto…
Quando nel 1967 ho ricevuto la destinazione per la Missione in Mozambico, passando per Roma, andai a visitare il P. Spirituale dello Scolasticato, che conoscevo e stimavo, per comunicagli la mia gioia per la bella notizia ricevuta. Purtroppo in risposta ricevetti una doccia fredda, quando ha cercato di calmare il mio “impeto”, raccomandandomi di stare attento a “non perdere la vocazione religiosa”. Siccome per me la vita missionaria era intrinsecamente religiosa, la risposta fu istintiva e senza alcuna distinzione: “Preferisco perderla piuttosto che non viverla per paura di perderla!”
Partì con la consapevolezza di essere chiamato a vivere un’unica vocazione, cioè una vita missionaria offerta a Dio mediante i voti che avevo fatto.
La questione in modo esplicito e a volte polemico se siamo missionari o religiosi, se prima missionari e poi religiosi, ecc. ho cominciato a percepirla dopo il Capitolo del 1969 e quando ho cominciato a lavorare nel campo della formazione come incaricato del Noviziato.
Ho avvertito anche che la questione veniva estesa al ministero sacerdotale, adducendo che “noi non siamo preti diocesani”, ricorrendo così a una teoria di supporto per giustificare l’esercizio di un ministero sacerdotale “originale”, secondo i propri “gusti missionari”…
Eco di questa questione si trova in un recente scritto-testimonianza di un giovane missionario in Sud Sudan: Evangelizzare. Considerazioni Missionarie da Fangak (Sud Sudan) di P. Christian Carlassare (12 Novembre 2014).
P. Christian espone la questione in questi termini:
«Non vorrei essere frainteso. Non è mia intenzione distinguere l’attività pastorale dalle opere di promozione umana per elevare l’una a scapito dell’altra e creare così una innaturale dicotomia. Sento però commenti di questo genere: “Non siamo preti diocesani”, “noi non ci limitiamo alla pastorale da parroci”, “siamo per lo sviluppo integrale della persona”. Temo però che nella pratica rischiamo di essere assorbiti dalle domande del livello orizzontale usando quello verticale solo come motivazione di fondo; quasi come si fa con gli slogan in una campagna politica. È mia intenzione invece sostenere che l’attività pastorale e l’opera di promozione umana devono essere complementari come le due facce di una medaglia: entrambe a servizio dell’annuncio del Vangelo. La predicazione infatti non è un discorso che parla di Dio secondo i canoni di ciò che pensiamo buono e bello: un Dio addomesticato e a servizio dei diritti umani; ma una parola che chiama alla conversione e al dono di sé».
A questo riguardo sono stato testimone di un episodio significativo. Nell’assemblea continentale di formatori realizzata a Quito nel 1990, una sera abbiamo avuto un incontro con un gruppo di “giovani afro”. Durante l’incontro una ragazza ci ha fatto una domanda provocatoria, di cui ora non ricordo le parole esatte, ma il significato che mi è rimasto nella memoria era questo: «Perché voi che siete missionari, alla gente parlate di Gesù, le annunciate il Vangelo, la invitate alla conversione, ma verso di noi vi comportate in un altro modo: vi interessate della nostra cultura, dei nostri valori, della nostra promozione umana e non vi preoccupate di parlarci di Gesù, di annunciarci il Vangelo, di invitarci alla conversione, perché anche noi facciamo peccati e abbiamo bisogno di convertirci…». Alla sua provocazione è seguito un silenzio imbarazzante, rotto finalmente da un’unica risposta evasiva, balbettata, che ci ha tolto dall’imbarazzo senza chiare niente… Difatti ricordo ancora la domanda, mentre la risposta che è uscita proprio da me, è svanita dalla mia memoria…
Da quando ho preso coscienza della questione e stimolato dall’impegno nella formazione dei novizi, ho cominciato a riflettere espressamente su di essa, prendendo come punti di riferimento la Parola di Dio, il Concilio Vat. II, il successivo Magistero della Chiesa e la nostra Regola di Vita. Ho cercato di avvicinarmi a queste fonti con l’occhio di san Daniele Comboni e tenendo sempre in vista la Missione, in cui sono rimasto in certa misura sempre inserito durante gli anni di attività nella formazione.
Mi sono convinto che la consacrazione missionaria scaturisce dall’incontro con Dio in Cristo, che la Regola di Vita descrive nei suoi elementi essenziali nei numeri 2-5; 20-21; 46 e 56.
La consacrazione è un evento nella storia della salvezza di un credente, che passa attraverso il suo cuore, luogo dell’incontro con Dio. Il cuore, infatti, è terra dell’uomo dove egli si agita, desidera e cerca Dio, ed è simultaneamente terra di Dio, che in essa si manifesta con il suo stile di Dio-Amore, Padre di tutte le genti. L’agitazione dell’uomo provoca l’intervento di Dio e l’intervento di Dio stimola l’instabilità e la precarietà dell’uomo nel suo desiderio di Dio, introducendolo nella profondità del suo Mistero, rivelandogli e coinvolgendolo in un particolare aspetto del suo piano di salvezza in favore dell’umanità.
In questa ottica, la consacrazione è una questione di cuore, una relazione di grazia e di dono di sé da parte di Dio, a cui corrisponde una relazione di rendimento di grazie e di libero dono di sé da parte dell’uomo. In questo rapporto d’appartenenza reciproca, mentre l’eletto sperimenta di essere amato e salvato da Dio, va prendendo gradualmente coscienza con chiarezza sempre maggiore, che Dio lo elegge per una missione soprannaturale da compiere, e si va mettendo in atteggiamento di totale disponibilità: “Eccomi, manda me!” (Cfr Is 6,1-8; S 2742). Relazione a Dio e ai fratelli, amati da Dio, costituiscono i due elementi inseparabili dell’esistenza consacrata: non l’una o l’altra, ma l’una come fondamento dell’altra.
Nello stesso tempo mi sono convinto anche del fatto che una fonte di disaggio nel cammino spirituale che si riflette poi nel cammino formativo di base e permanente, proviene proprio da un malinteso concetto di consacrazione, che riguarda sia la Professione religiosa sia la Consacrazione sacerdotale. È necessario notare, infatti, che concetti come vocazione, consacrazione, missione oggi sono termini anche “laici” con un significato differente rispetto a quello che hanno nel contesto religioso.
Così con il termine vocazione si è passati da un concetto che aveva per centro e protagonista Dio ad un concetto che ha come unico protagonista l’uomo. In questa prospettiva la vocazione non è una chiamata di Dio che coinvolge l’uomo in un progetto che lo trascende, ma la risposta dell’uomo alle sue esigenze interiori, in vista della propria realizzazione.
Allo stesso modo la consacrazione non è l’atto di Dio che prende possesso dell’uomo trascinandolo a sé e trasformandolo interiormente perché possa vivere le esigenze di un mondo superiore, ma è l’atto dell’uomo che si dedica così intensamente ad un determinato compito o progetto da lasciarsene totalmente assorbire. In questo senso, si dice che uno ” si consacra” all’educazione dei giovani, o alla ricerca scientifica, a una missione di pace, ecc…
In questa prospettiva, per tanto, la missione è un compito che uno si assegna, un’opzione per una causa secondo le proprie propensioni.
Bisogna tenere presente questa diversità di significati, se non si vuole continuamente cadere in ambiguità ed equivoci nocivi, che purtroppo serpeggiano anche tra noi. Nel contesto laico, ad esempio, uno non riceve una vocazione ma se la dà; e come se la dà così se la può cambiare. Il fatto che uno parli di “temporaneità” della vocazione sacra non è che conseguenza di questa confusione di concetti! Lo stesso discorso viene fatto per quanto guarda la “consacrazione”, con l’aggravante che, per il credente qui si tratta di un’autentica “contradictio in terminis“; se il “sacro” in effetti dice sempre rapporto con Dio, non si riesce proprio a capire come si possa parlare di consacrazione quando si fa riferimento solo ad un progetto o attività umana. Ma c’è di più. Quando si parla di consacrazione personale si vuole dire che la persona è totalmente presa, sequestrata, espropriata; ora non c’è nessun progetto o attività umana che possa giustificare un tal genere di vita. Perché questo sia possibile, è necessario che al centro ci sia sempre una persona, che sia affascinante. La conclusione è che si finisce col concepire la vita religiosa non come una “consacrazione” incondizionata a Dio per essere a sua disposizione, bensì come adesione a un progetto nella cui attuazione uno pensa di realizzarsi. Così, invece di mettersi a disposizione di Dio per la realizzazione di un suo progetto, ci si mette e si usa il progetto di Dio come mezzo per la realizzazione di se stessi. L’estrema conseguenza di tutto questo si verifica quando uno (per motivi i più svariati) non si ritrova più nel progetto abbracciato: il suo abbandono è presentato addirittura come una esigenza della fedeltà dovuta a se stessi.
In questo contesto laico, il concetto tradizionale della nostra consacrazione missionaria “ad vitam”, cioè della dedicazione del comboniano al servizio missionario per tutta la vita [usque ad mortem] (RV 10.1; cfr. Regole del 1871, Cap. II, S 2654;), diventa consacrazione per la vita, cioè “impegno a saper promuovere i valori della vita, specialmente dove questa è disprezzata e vilipendiata” (cfr. Quaderno di Limone n. 4, p.10).
Questo impegno certamente è parte integrante della nostra azione evangelizzatrice e la nostra Regola di Vita lo propone e lo descrive con chiarezza (RV 5; 60-61); lo fa derivare però dalla nostra sequela di Cristo (RV 21), intimamente legata all’umanità e alla sua storia (cfr. RV 16). Solo l’incontro personale con Cristo, rivissuto e approfondito continuamente nella comunione con Lui (RV 21.1-2), potrà garantire il nostro impegno “per la vita”, frutto di una gioiosa dedizione di se stessi al Cuore di Cristo “per tutta la vita” (RV 3-4; 10.1).
P. Enrique Sánchez González, Superiore Generale dal 2009-2015, nel suo messaggio per la festa del Sacro Cuore del 2011, «LA MISSIONE CHE NASCE DAL CUORE», sottolinea che «il Cuore del Signore è il santuario dove siamo sfidati a vivere la rinuncia totale a noi stessi, lo svuotamento che ci fa diventare dipendenti dall’Altro e dagli altri; è il luogo preciso dove siamo chiamati a vivere dell’Amore (con la lettera maiuscola) per diventare capaci di vivere amando».
E chi impara dal Cuore di Gesù a “vivere amando”, vive impegnato “ad vitam”, cioè “per tutta la vita”, perché tutti abbiano vita e l’abbiano in abbondanza.
Nel valutare il contesto in cui si svolge il processo di maturazione del missionario comboniano che dura tutta la vita ( RV 85) nella comunità e per la comunità ( RV 84), dobbiamo prendere atto che le ambiguità su vocazione, consacrazione e missione circolano anche tra noi Comboniani di oggi. Questa situazione si manifesta:
- nell’individualismo, tante volte segnalato sia dai Capitoli Generali sia dai nostri Superiori;
- nello slancio missionario inteso soprattutto come protagonismo liberatore e promotore di Giustizia/Pace e Conservazione del creato, mentre rimane nell’ombra la gratuità della consacrazione e l’esigenza della comunione, cioè della missione come frutto del coinvolgimento nell’amore di Dio per l’umanità e della risposta alla chiamata di Dio che crea la comunione nella comunità missionaria. Questi elementi teologali, quando ci sono, normalmente sono presenti a livello intellettuale, ma non sono integrati nel cuore e quindi non incidono nell’affettività e nel comportamento quotidiano; le motivazioni che determinano il comportamento, si rifanno più a un impegno morale nell’ambito sociale che all’impegno di identificazione con Cristo;
- in un senso debole e poco significativo d’appartenenza alla Chiesa, in poca sensibilità per la vita liturgica e sacramentale (in particolare per il sacramento della riconciliazione), in un indebolito senso della necessità dell’annuncio cristiano.
In particolare, la consacrazione si trova in una situazione di penombra, soprattutto perché è legata alla forma giuridica della “vita religiosa”. Allora si sente ribadire che la vita religiosa non era presente all’inizio della nostra storia come missionari, e quindi per noi è qualcosa di laterale in rapporto alla missione, e costituisce un ostacolo all’apostolato. Nasce così la tendenza a vivere separatamente la vita religiosa e la vita missionaria, dando enfasi alla missione a detrimento della vita religiosa. Quando entriamo nel discorso della necessità di tornare alle radici, sorge spesso la questione se siamo prima religiosi e poi missionari o viceversa, a quale delle due realtà bisogna dare il primo posto ecc.
Nel valutare questa situazione bisogna tener presente che questo disaggio non è esclusivo del nostro Istituto e che proviene da molto lontano. Infatti, «nella tradizione della Chiesa ci sono due tipi di società religiose, a seconda della maniera di vita: gli ordini contemplativi e quelli apostolici. Nei primi secoli si riteneva che tutti i monaci dovessero essere contemplativi, cioè dediti alla preghiera, alle pratiche ascetiche e all’esercizio delle virtù. Ma quando arrivarono ad un grado più alto di intimità con Dio, capirono che dovevano uscire dalla solitudine e dedicarsi agli altri per condurli a Cristo» (Špildílk).
Fu così che la vita monastica divenne protagonista del primitivo cammino missionario della Chiesa. Tuttavia questo cammino non fu lineare, ma seguì un moto pendolare, oscillando quindi tra la vita contemplativa, intesa prevalentemente come vita ascetica e ritirata dal mondo, e l’attività apostolica. Così si spiega come per molto tempo nella Chiesa si è considerata la vita di tipo contemplativo o monastico come l’ideale a partire dal quale bisognava comprendere ogni specie di vita religiosa, anche quella di vita attiva: l’essenziale era costituito dall’insieme delle “osservanze” di preghiera, di ascesi, di vita comune. Avvenne allora che nelle Congregazioni dedite all’apostolato, l’azione apostolica non fu integrata alla consacrazione vissuta nella vita religiosa, ma fu considerata come una specie di aggiunta necessaria certamente, ma più o meno artificiale, poco amalgamata alla “vera” vita religiosa di osservanze, e dunque capace di esporre il religioso a delle sollecitazioni di ordine diverso e quindi a porsi la domanda se viene prima la vita religiosa o la missione. Si temeva perfino che la vita missionaria potesse far perdere la vocazione religiosa…
A questo punto si può notare come Comboni, pur non avendo dato fin dal principio al suo Istituto una struttura religiosa, in realtà la consacrazione missionaria da lui vissuta e proposta era inclusiva di quella legata ai voti religiosi e nello stesso tempo più radicale per via di quella disponibilità, nello spirito della croce, a morire a ogni istante «per la salvezza degli africani»: infatti «quelli che ne fanno parte — precisava — devono avere tutte le virtù dei religiosi e quella di essere ad ogni istante disposti alla morte per la salvezza degli africani» (S 5984)..
Daniele Comboni, per tanto, come Fondatore si tirò fuori da questa ambiguità, fondando la vita dei suoi missionari sulla consacrazione per la missione nella linea del più genuino spirito della sequela di Cristo. Dava così un nesso intrinseco tra la vita spirituale dei suoi missionari e il loro apostolato, che lo esprimeva con l’espressione ”santi e capaci”, che costituiva il programma di vita da imparare e nel quale crescere nel “cenacolo di apostoli”. Ci rispondeva così fin da allora che ciò che viene prima è una buona coerenza tra questi due elementi.
Il nostro Istituto nel suo cammino di rinnovamento a partire dal Capitolo del 1969, riallacciandosi all’esperienza originaria del Fondatore, alla tradizione dell’Istituto e seguendo gli orientamenti del Magistero della Chiesa, ha chiaramente messo come componenti essenziali della sua Regola di Vita: carisma-consacrazione-comunità (comunione)-missione.
Ma ciò non impedisce che la mentalità dualistica tra consacrazione e missione e l’evasione dalla comunità siano presenti in mezzo a noi e proprio in nome della “missione”.
È naturale che quando e nella misura in cui ciò avviene, nascano disagi a livello individuale e comunitario, che si ripercuotono nella vita quotidiana e nell’ambito della formazione di base e permanente. Non c’è dubbio che davanti a questa situazione di tensione, per mantenere e approfondire l’identità dell’Istituto Comboniano nei suoi membri e nelle sue strutture, è indispensabile una visione chiara e unitaria della vita missionaria comboniana nelle sue dimensioni esistenziali e nelle sue dinamiche apostoliche. Il superamento di quest’ambiguità, l’abbandono delle “teorie di supporto” a cui si ricorre per giustificarla, è un presupposto indispensabile per dare nuovo slancio all’Istituto nel suo ministero missionario nel mondo di oggi e rendere credibile l’impegno nella promozione vocazionale e nella formazione sia di base che permanente.
Il superamento del dualismo tra “vita religiosa e vita missionaria” nel missionario comboniano comincia a manifestarsi dal 2012, anno in cui ha avuto inizio nell’Istituto un cammino di “Lettura e Rivisitazione della Regola di Vita”, che ha coinvolto tutto l’Istituto e i successivi Capitoli Generali del 2015 e 2022.
Un risultato di questo cammino è certamente una spinta al superamento del dualismo tra “vita religiosa e vita missionaria” nel missionario comboniano.
Tale superamento si manifesta nel nuovo linguaggio che comincia a essere usato per esprimere l’identità del missionario comboniano, la quale viene indicata in forma unitaria mediante l’espressione “discepolo missionario comboniano”, impegnato a “crescere nei valori della consacrazione missionaria” (Cfr. AC 2015, 48.1; 49.1), indicando così la consacrazione a Dio per la missione del missionario comboniano mediante la professione dei consigli evangelici (cfr. RV 20-22).
Tuttavia spunta ancora la formulazione dualista, quando viene detto che “comportamenti incoerenti con la vocazione alla vita consacrata e missionaria da parte di alcuni confratelli sono un ombra che ci accompagna….” ( AC 2015, n. 32).
Il Capitolo del 2022 continua a indicare l’identità del missionario comboniano in forma unitaria con l’espressione “discepoli missionari, radicati in Cristo insieme a Daniele Comboni” (AC 2022, 15; 23.1) e vede nel “carisma di consacrazione missionaria il dono fondante ricevuto tramite la vita e la parola di San Daniele Comboni” (AC 2022. 44.2).
Tuttavia spunta ancora la formulazione dualista, quando si auspica “una spiritualità forte che ci faccia vivere e gustare un’esperienza di fede e di fiducia nel Signore come linfa vitale della nostra scelta alla vita consacrata e missionaria,com’è stato anche per il nostro Fondatore…” (AC 2022, Introduzione), e quando vengono proposti i “valori della vita religiosa e missionaria” (AC 2022, 37.2).
Lo stesso Capitolo ci propone il mezzo per superare questo dualismo ancora serpeggiante tra noi, quando, trattando della “Revisione della Formazione”, ci propone come impegno di “utilizzare la nostra Regola di Vita come strumento di riflessione, di preghiera e come riferimento comune apprezzato e rispettato” (AC 2022, 24.2).