Formazione Permanente – italiano 5/2019
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Pietro e Paolo

LEGGERE GLI ATTI PER RISCOPRIRSI CHIESA MISSIONARIA

Alessandro Gennari

In un tempo di grande crisi come l’attuale la Chiesa è chiamata a rispondere a grandi sfide, anzitutto sul proprio ruolo nel mondo e nella storia. È invitata a ripensarsi mantenendo fede alla tradizione e dialogando con gli uomini e le donne del proprio tempo. Affinché tale dialogo sia autentico e fruttuoso, è indispensabile che i discepoli e le discepole di Gesù possiedano una chiara consapevolezza della propria identità, sul piano religioso e culturale.

Gli studi e le statistiche più recenti dipingono un quadro poco confortante della situazione ecclesiale italiana: oltre al calo di adesioni, ci troviamo dinanzi a un notevole vuoto di “contenuti”, per cui non stupisce che, alla richiesta di rendere ragione della propria fede, molti cristiani diano risposte vaghe e poco convincenti. Chi scrive non ha la pretesa di dispensare soluzioni facili per uscire dall’impasse. Piuttosto, questa riflessione iniziale, lungi dal cedere a un pessimismo che non ha nulla di cristiano, vuole essere una premessa per riscoprire un libro – gli Atti degli Apostoli –, che ha ispirato generazioni di cristiani fornendo i criteri fondamentali per definire l’appartenenza alla comunità nata dalla Pentecoste.

LE SFIDE DEI PRIMI CRISTIANI E LE NOSTRE

In un interessante studio di impostazione sociologica (Community and Gospel in Luke-Acts, 1987), Ph. F. Esler descrive il programma di Luca come un tentativo di giustificare il cristianesimo ai membri della propria comunità, in un tempo in cui erano esposti a pressioni sociali e politiche che facevano vacillare l’adesione alla fede. Insomma, verrebbe da dire che se anche il contesto storico, sociale e culturale, del I secolo era molto diverso dall’attuale, le sfide che i primi cristiani dovettero affrontare non erano molto diverse dalle attuali. A buon diritto D. Marguerat afferma che “scrivendo il suo dittico, Luca vuole indicare alla comunità dei suoi lettori cos’è, di dove viene, cosa l’ha costruita. Egli scrive per permettere loro di capirsi e di dirsi (agli altri, ai giudei, ai pagani)” (La prima storia del cristianesimo, 2002, p. 44).

UN CASO UNICO NEL NUOVO TESTAMENTO

Certamente il libro degli Atti costituisce un caso unico nel panorama letterario e teologico del Nuovo Testamento, dominato dai Vangeli da un lato e dal corpus epistolare dall’altro. Pertanto, è lecito chiedersi perché Luca, dopo aver narrato la “vita di Gesù”, abbia avvertito l’esigenza di interessarsi alle prime fasi della storia della Chiesa. Prima di rispondere a tale domanda, dobbiamo ricordare che, nell’intenzione originaria, i due libri facevano parte di un unico progetto letterario-teologico, come confermano i rispettivi prologhi (Lc 1,1-4; At 1,1-2). Quando però, attorno alla metà del II secolo, i racconti sulla vita di Gesù acquisirono una notevole rilevanza liturgica-cultuale e venne affermandosi il canone del Nuovo Testamento, gli Atti “scivolarono” dopo il Vangelo di Giovanni e prima delle lettere paoline, quasi a costituirne una sorta di grande introduzione storica a motivo della rilevanza data alla figura di Paolo nella seconda parte del libro.

AL CENTRO L’ANNUNCIO DEL REGNO DI DIO

Se consideriamo le due opere insieme, ci rendiamo conto che sono attraversate da un tema fondamentale: la centralità dell’annuncio del regno di Dio nella missione di Gesù e degli apostoli. L’accostamento di tre passi lo conferma: agli esordi della missione, «egli [Gesù] disse loro [ai suoi discepoli]: “È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato”» (Lc 4,43; cfr. 8,1.10; 9,2.11.60; 10,9); dopo la risurrezione, “egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio»; infine, Paolo, prigioniero a Roma, “dal mattino alla sera […] esponeva loro il regno di Dio, dando testimonianza, e cercava di convincerli riguardo a Gesù, partendo dalla legge di Mosè e dai profeti […]. Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso in affitto e accoglieva tutti quelli che venivano da lui, annunciando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo” (At 28,23.30-31). Alla luce di questi passi comprendiamo meglio il secondo volume. Narrando le prime fasi della nascita e costituzione della Chiesa, Luca vuole mostrare la continuità tra l’annuncio del Regno inaugurato da Gesù e la predicazione dei missionari del Vangelo, a conferma del fatto che il compito primario dei cristiani è proseguire l’opera evangelizzatrice del Maestro e di coloro che egli ha scelto come colonne portanti della sua comunità. Questa, dunque, è la missione che vede impegnate le comunità cristiane sparse nell’ecumene: annunciare il Vangelo a tutti gli uomini e le donne del proprio tempo, avendo come modello la vita della comunità nata dalla Pentecoste.

LO SCHEMA DI LUCA-ATTI

Volendo essere più precisi, dobbiamo rilevare con M. Grilli che Atti «non vuole esaltare le azioni di Pietro e di Paolo (le due figure principali), né semplicemente descrivere la vita della comunità cristiana delle origini, ma testimoniare raccontando “il viaggio” della parola di Dio da Gerusalemme, attraverso la Giudea e la Samaria, fino a Roma (cfr. At 1,8). Il fine è storico-salvifico; nel piano di salvezza, portato avanti da Dio nella storia, la sua Parola cresce e raccoglie intorno a sé Israele e le genti nel popolo santo di Dio» (Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, 2016, pp. 232-233). Lo schema geografico-teologico rilevato da Grilli (Gerusalemme, Giudea, Samaria, Roma) riprende la proposta di K.R. Wolfe (“The Chiastic Structure of Luke-Acts and Some Implications for Worship”, SWJTh 22/1980/60-71) di strutturare Luca-Atti secondo uno schema chiastico-speculare. Sia ben chiaro, l’individuazione di una struttura è finalizzata ad aiutare il lettore a orientarsi nell’opera, per coglierne il disegno complessivo e, di conseguenza, il messaggio fondamentale. Secondo Wolfe il dittico Vangelo-Atti è così articolato:

  • A. Galilea (Lc 4,14 – 9,50)
  •     B. Samaria e Giudea (Lc 9,51 – 19,40)
  •         C. Gerusalemme (Lc 19,41 – 24,49)
  •             D. Ascensione (Lc 24, 50-53)
  •             D’. Ascensione (At 1,4-11)
  •         C’. Gerusalemme (At 1,12 – 8,1a)
  •     B’ Giudea e Samaria (At 8,1b – 11,18)
  • A’. Fino ai confini del mondo (At 11,19 – 28,31)

Dallo schema e dalle considerazioni di Wolfe e Grilli emerge la centralità dell’annuncio del Vangelo. Ovviamente tra Vangelo e Atti ci sono anche altre connessioni, dettate soprattutto dal fatto che il progetto narrativo e teologico del Vangelo trova compimento negli Atti. Ad esempio, quando Gesù viene presentato al tempio, Simeone dice che il bambino sarà motivo di salvezza per Israele e le genti (Lc 2,30-32). Tuttavia, la profezia di Simeone si avvererà solo alla fine degli Atti, quando Paolo affermerà, rivolgendosi ai giudei: “Sia dunque noto a voi che questa salvezza di Dio fu inviata alle nazioni, ed esse ascolteranno” (At 28,28, si noti la ricorrenza in questo passo come in Lc 2,30-32 dei vocaboli “salvezza” e “genti/nazioni”).

I LETTORI INVITATI A CONTINUARE L’OPERA DI EVANGELIZZAZIONE

Come risulta evidente dalla strutturazione di Wolfe, il racconto dell’ascensione, al termine del primo scritto e ripetuto all’inizio del secondo, svolge la funzione di cerniera tra i due. Eppure, non è una semplice ripetizione, perché il medesimo evento è descritto con accenti differenti. Alla fine del Vangelo (Lc 24,50-53), dopo aver promesso l’imminente dono dello Spirito, il Risorto sale al cielo assicurando ai discepoli la sua benedizione (Lc 24,51). All’inizio di Atti, il Risorto invita i discepoli a proseguire l’opera di evangelizzazione, con la forza dello Spirito (cfr. At 1,7-11), perché l’annuncio del Regno possa raggiungere gli estremi confini della terra. In realtà questo progetto è realizzato solo potenzialmente al termine del racconto. Roma, infatti, è il centro dell’impero, ma i confini della terra sono ancora lontani. Come interpretare tale finale? D. Marguerat, in La prima storia del cristianesimo (pp. 213-214) definisce l’ultimo quadro di Paolo prigioniero a Roma e impegnato nell’annuncio del Regno come un “finale aperto”, che solo il lettore potrà “completare”, con la propria testimonianza personale e ecclesiale. In altre parole, è come se Luca invitasse i lettori a proseguire l’opera mirabilmente inaugurata da Gesù, coraggiosamente portata avanti dagli apostoli e ora affidata alla comunità cristiana di cui essi stessi fanno parte, avendo come valido riferimento la testimonianza delle prime comunità, in primis quella di Gerusalemme nata dal prodigio della Pentecoste.

Missione Oggi, Gennaio-Febbraio 2019

LA MISSIONE NASCE A PENTECOSTE

Mentre il primo capitolo degli Atti, con la narrazione dell’ascensione, fa da transizione tra il tempo di Gesù e il tempo della Chiesa, il secondo capitolo si concentra sostanzialmente sull’evento fondatore che segna gli inizi del cristianesimo: l’effusione dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste (At 2,1-13). È importante rilevare che la Chiesa, nata dalla Pentecoste, prima ancora che configurarsi dal punto di vista istituzionale, mostra fin da principio la propria indole missionaria, quella cioè di una comunità aperta al dialogo con il mondo, in tutto e per tutto fedele al mandato del Risorto di essere sua testimone “fino ai confini della terra” (At 1,8).

Nel presente contributo desideriamo rileggere il racconto della Pentecoste, ripercorrendone le tappe fondamentali, per mettere bene in luce il carattere missionario che lo Spirito ha voluto imprimere alla Chiesa fin dai suoi inizi.

Il racconto di Atti 2,1-13 può essere facilmente strutturato in due scene: la discesa dello Spirito Santo (vv. 1-4) e la reazione della folla (vv. 5-13). È bene ricordare, prima di addentrarsi nell’analisi del racconto, che l’interesse di Luca non è semplicemente quello di fornire una cronaca dettagliata degli eventi, quanto piuttosto trasmetterne il significato, deducibile non solo dalle immagini utilizzate per descrivere l’effusione dello Spirito, ma soprattutto dalla reazione dei presenti, i quali attestano il prodigio accaduto dinanzi ai loro occhi.

Prima scena: la discesa dello Spirito Santo

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. 2Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbattè impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. 3Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, 4e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi (At 2,1-4).

l racconto si apre con la menzione del giorno della Pentecoste, una festa che anticamente segnava la conclusione del raccolto e che, in epoca più recente, celebrava il dono della Legge e la stipulazione dell’alleanza sul Sinai. Certamente Luca ha colto soprattutto il significato religioso della festa, così da farne lo sfondo per la propria narrazione: la discesa dello Spirito sigilla il rinnovo dell’alleanza di Dio con il suo popolo, anzi, con l’umanità intera. Assai significativo è il fatto che “tutti” fossero presenti “nello stesso luogo”. Chi siano questi “tutti” non è chiaro: sicuramente gli apostoli, ma non è escluso un riferimento alle donne e a coloro che già avevano aderito al movimento inaugurato da Gesù. In ogni caso, Luca insiste sull’unanimità che caratterizza la prima comunità cristiana, dato non scontato se si pensa alle divisioni che erano sorte nel dramma della passione.

UNA “LINGUA” DI FUOCO

Per descrivere la venuta dello Spirito, Luca ricorre, facendo uso del registro metaforico, al vocabolario tipico delle teofanie dell’Antico Testamento: il fuoco e il vento sono elementi caratteristici delle manifestazioni del Dio di Israele (cfr. Es 3,2-3; 19,18; 24,17; Is 66,15; 1Re 19,11; Sal 50,3; 104,4). Tuttavia, nella narrazione di At 2 emergono alcuni aspetti di indubbia originalità che non devono passare inosservati. Il primo riguarda la forma assunta dal fuoco, ovvero quella di una “lingua” (in greco glossa), termine che può indicare sia l’organo, sia il linguaggio. Luca sembra giocare su questo duplice significato, poiché il primo effetto dell’azione dello Spirito consiste proprio nel permettere agli apostoli di parlare lingue diverse, consentendo così di realizzare una comunicazione altrimenti impossibile.

TRA INDIVIDUALITÀ E TOTALITÀ

Il secondo aspetto, non meno importante, concerne la tensione che si viene a creare tra individualità (le lingue si posano su “ciascun” apostolo) e totalità (provengono dalla “medesima” sorgente), così che “la separazione delle lingue conferisce un’identità particolare a ogni discepolo, legata a un dono che gli è proprio, ma senza essere separato dagli altri” (D. Marguerat). Paolo rifletterà su tale esperienza, sottolineando che i carismi, nella loro diversità, se sono veramente autentici devono essere a servizio della comunione ecclesiale (cfr. 1Cor 12-13).

UN PARLARE MISSIONARIO

Il dono dello Spirito non corrisponde però, come alcuni vorrebbero, alla “glossolalia”, cioè ad un parlare estatico, quanto piuttosto alla capacità di parlare “in altre lingue”, dando così la possibilità agli apostoli di farsi capire da tutti. Come giustamente sottolinea G. Rossé, si tratta di un parlare missionario, espressione di una Chiesa che è anzitutto evento comunicativo accessibile a tutti, nessuno escluso. Il contenuto di tali parole verrà svelato al v. 11, laddove leggiamo: “… li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio”, affermazione che riecheggia i cantici di Maria (cfr. Lc1,46-55) e di Zaccaria (cfr. Lc 1,68-79). La Chiesa non dovrebbe mai dimenticarlo: prima di dispensare chissà quali insegnamenti, la comunità dei credenti è anzitutto chiamata a magnificare l’agire di Dio nella storia della salvezza.

Seconda scena: la reazione stupita della folla

5 Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. 6 A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. 7 Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: “Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? 8 E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? 9 Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, 10 della Frìgia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, 11 Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio”. 12 Tutti erano stupefatti e perplessi, e si chiedevano l’un l’altro: “Che cosa significa questo?”. 13 Altri invece li deridevano e dicevano: “Si sono ubriacati di vino dolce” (At 2,5-13).

Dopo il racconto dell’irruzione dello Spirito, Luca passa a descrivere la reazione degli astanti, reazione importante poiché, grazie ad essa, il narratore può esplicitare ulteriormente il significato dell’evento. È fondamentale notare che, sebbene la folla radunata fuori dalla casa sia cosmopolita, è pur sempre una folla composta da giudei, a conferma del fatto che il popolo di Israele mantiene comunque un posto di rilievo nella storia della salvezza. Lo stupore della folla rientra nel cliché tipico delle teofanie dell’Antico Testamento, a conferma della straordinarietà dell’evento accaduto.

UNO SPIRITO UNIVERSALE

L’elenco dei popoli ai vv. 9-11a, non semplice da interpretare, sembra seguire un moto circolare che va da nord a sud e da ovest a est: insomma, sembra essere stato composto ad hoc per trasmettere ai lettori una sensazione di universalità in riferimento all’azione potente dello Spirito di Dio.

CHE ABITA OGNI CULTURA

Va ricordato che, secondo i Padri della Chiesa, il parlare in lingue suscitato dallo Spirito farebbe da contraltare alla confusione di Babele narrata in Gen 11,1-9. Non sembra però questo l’intento di Luca. Piuttosto, la pluralità delle lingue costituisce una reazione a qualsiasi genere di totalitarismo che cerchi di annullare quella sana individualità indispensabile perché possa crearsi un’autentica relazione. Il vero miracolo della Pentecoste, infatti, è che singoli individui, provenienti da culture diverse, siano in grado di comprendere il messaggio del Vangelo, senza confusione o ambiguità: “lo Spirito può trascendere ogni cultura o piuttosto abitare ogni cultura, per far ascoltare e comprendere le meraviglie di Dio. In altri termini, lo Spirito di Pentecoste fonda la Chiesa come una comunità diversa nella quale la comunicazione universale è un dono” (D. Marguerat). In fondo questa è la grande missione della Chiesa: comunicare all’umanità, senza discriminazioni, la salvezza di Dio.

Missione Oggi, Marzo-Aprile 2019