Lectio divina sul Vangelo di Matteo
Capitoli 13-14


MatteoTesto doc Fausti – Matteo Cap 13-14
Testo pdf Fausti – Matteo Cap 13-14

dal libro di Silvano Fausti,
“Matteo. Il Vangelo della Comunità”

53. USCÌ IL SEMINATORE A SEMINARE
13,1-9

Uscì il seminatore a seminare”. Con questa e le successive parabole Gesù spiega il mistero della sua vita: è lo stesso del regno, lo stesso della sua parola in noi.

La parabola dice qualcosa di noto per far capire qualcosa di ignoto fin dalla fondazione del mondo (v. 35). Dio nessuno mai l’ha visto (Gv 1,18). La sua conoscenza ineffabile è riservata al Figlio, che ha il suo medesimo Spirito (1Cor 2,11). Gesù, quando la comunica ai piccoli (11,25), non può che usare un linguaggio umano. Lui stesso è la parola di Dio fatta carne.

Con le parabole illustra l’enigma della storia sua e nostra, che presenta un duplice scandalo. Primo: il male sembra bene e riesce bene, mentre il bene sembra male e riesce male; addirittura il male vince e il buono perde. Secondo: il bene, anche quando c’è, è sempre frammisto al suo contrario. Che il bene, così generosamente seminato, sia destinato a fallire?

Gesù con le parabole ci vuol far vedere più in profondità. La crisi, che lui stesso ha appena attraversato (cc. 11-12), e che anche noi attraversiamo, trova qui una lettura diversa, divina: il bene è vittorioso nella propria sconfitta e nel perdurare stesso del male!

Il c. 13 contiene quattro parabole per le folle ( il seminatore, la zizzania, la senape e il lievito: vv. 2b-9.24-30.31s.33), e quattro per i discepoli (il tesoro, la perla, la pesca e lo scriba: vv. 44.45.47-50.51s), ai quali sono riservate anche le spiegazioni (vv. 10-17.18-23.36-43).

Sono parabole di discernimento, che rivelano il modo con cui Dio legge la realtà: ci danno luce su ciò che avviene in questo nostro tempo pieno di contraddizioni. Infatti il regno c’è, ma non è ancora compiuto: siamo alla fatica della semina e della pesca, non ancora nella gioia del banchetto.

In tutte le parabole domina lo stupore di un contrasto risolto in modo sorprendente. Il regno non ha uno sviluppo omogeneo e trionfale. Entra nel mondo così com’è, si incontra e scontra con il male e le resistenze; il mondo stesso entra di nascosto nel regno, che sembra fallire. Eppure – questa è la sorpresa! -, l’esito positivo è sicuro. Solo Dio è Dio, e alla fine vince, e vince divinamente.

Il messianismo di Gesù non è secondo l’attesa degli uomini, discepoli compresi. Noi vorremmo un bene incontrastato e pulito, visibile ed efficiente; invece è combattuto e frammisto al male, nascosto e insignificante, addirittura fallimentare. La storia presenta un diritto e un rovescio, testa e croce; ma proprio il rovescio di ciò che vorremmo è il segno stesso del Figlio dell’uomo, salvezza per tutti (12,40).

Lo scenario delle parabole è solenne ed evocativo: il mare, la barca, le folle.

Questa prima parabola presente un contrasto tra le difficoltà della semina e la sorpresa del frutto insperato.

La parola di Dio, viva ed eterna, è seme immortale, che ci genera a sua immagine (1Pt 1,23). Gesù l’ha annunciata e portata. Ma il cuore dell’uomo, come terra infeconda, non l’accoglie. Addirittura ha deciso di eliminarlo (12,14). I miracoli che fa possono anche piacere; ma ciò che dice non piace a nessuno! Bisogna forse agire diversamente, andare incontro alle prospettive degli altri?

Gesù risponde a questa tentazione con la “parabola del seminatore”, confermando la scelta fatta nel battesimo e corroborata nel deserto. Egli getta “il seme della parola del regno” con la certezza del contadino, che ne conosce la forza vitale: sa che la morte non lo distrugge, ma anzi ne attiva la potenzialità. Che il seme non attecchisca, che se attecchisce non cresca, che se cresce sia soffocato (vv. 4-7), è la condizione normale di ogni semina, che poi sarà fruttuosa. Il seme, ora sacrificato, garantisce la vita per il futuro (v. 8).

In situazione di crisi, invece di cambiare tattica o ripiegare nella lamentela, Gesù esprime la propria fiducia. Le difficoltà purificano nel Figlio la fede, la speranza e la passione per il Padre.

Gesù spiega il mistero suo e della storia: è quello del seme nella terra.

La Chiesa è la barca dalla quale Gesù parla alle folle: posta sopra l’abisso, è il primo frutto di risurrezione, seme già germinato che continua la stessa semina.

54. PERCHÉ PARLI LORO IN PARABOLE?
13,10-17

Perché parli loro in parabole?”, chiedono i discepoli a Gesù. “Loro” sono le folle che rimangono sulla spiaggia, in contrapposizione al “voi” dei discepoli. Questi si avvicinano a lui, lo seguono, gli parlano, ne ascoltano le parabole e la spiegazione. Sono i “suoi” ai quali è dato conoscere “i misteri del regno di Dio”: i loro orecchi e i loro occhi si saziano e si beano di quanto profeti e giusti desiderarono udire e vedere.

Loro” invece non si avvicinano a lui, non lo seguono, non gli parlano, non ne ascoltano la risposta: non sono entrati nel mistero della conoscenza del Figlio, non fanno parte della sua famiglia, non sono ancora con lui, ma contro di lui (12,30).

A Gesù, come poi alla Chiesa giudeo-cristiana di Matteo, brucia il rifiuto di gran parte del popolo di Dio. Ma non si tratta di un fallimento, bensì del compimento di quanto predetto dai profeti. Dio l’ha previsto, facendo di esso il cardine della salvezza: la pietra scartata è divenuta testata d’angolo (Sal 118,22s). Il Signore rifiutato e ucciso sarà il segno di Giona per questa generazione perversa (12,38-42) – il segno più divino, il segno stesso di Dio, misericordia senza fine per tutti.

La durezza di cuore di chi lo rifiuta e uccide alla fine non fa che compiere ciò che la mano e la volontà del Signore avevano preordinato che avvenisse (At 4,28). Il male estremo dell’uomo sarà il luogo del dono estremo di Dio!

Il Signore non ha predestinato alcuni alla comprensione, escludendone altri: vuole che tutti siano salvati e giungano alla conoscenza della verità (1Tm 2,4). Ma chi non lo accetta, non è abbandonato a sé, perduto per sempre. Per lui la Parola è in parabole. Queste offrono il seme che germinerà quando chi non vuol capire capirà almeno di non capire e sarà disposto a mettersi in questione. La parabola è come un pacco chiuso: presto o tardi uno lo aprirà, se non altro per curiosità.

Il brano – posto dopo la parabola del seminatore e prima della spiegazione ai discepoli -, indica il passaggio da fare perché la parabola non resti enigma, ma beatitudine di chi vede il compimento della promessa: bisogna aprire il cuore, gli orecchi e gli occhi al Signore, avvicinarsi a lui e ascoltarlo, pronti a riconoscere le durezze del proprio cuore.

Il brano si articola in tre parti. I vv. 10-12 presentano i discepoli che si avvicinano a Gesù: sono i destinatari dei misteri del regno. I vv. 13-15 parlano di “loro”, quelli che non vogliono accoglierlo, e così compiono la profezia di Isaia. I vv. 16-17 proclamano la beatitudine dei discepoli, che ascoltano e vedono quanto per altri resta enigma o desiderio.

Gesù è colui che profeti e giusti desiderarono ascoltare e vedere: il dono promesso da Dio, Dio stesso che ha promesso.

La Chiesa ha la beatitudine di ascoltarlo e vederlo nella misura in cui si avvicina a lui, parla con lui e lo ascolta, riconoscendo le proprie durezze di cuore, sordità e cecità (cf brano seguente), chiedendo la guarigione. Senza questo atteggiamento, anche se fa parte dei suoi secondo la carne, resta “fuori”, come gli altri.

55. UDITE VOI DUNQUE LA PARABOLA DEL SEMINATORE
13,18-23

Udite voi dunque la parabola del seminatore”, ordina Gesù ai suoi discepoli. Essa espone le difficoltà indesiderate e il successo insperato che incontra la Parola.

Gesù ha appena proclamato beati i discepoli perché odono e vedono (v. 16). In questa spiegazione anche noi ascoltiamo e vediamo, in una puntigliosa allegoria, l’impatto fortunoso e fortunato della Parola con il nostro cuore. Dopo la parabola e i criteri per leggerla, ora c’è la lettura di essa nella propria vita.

La parabola del seminatore” descrive l’avventura della Parola in ciascuno di noi. È la stessa di Gesù, il Figlio dell’uomo che entra nel cuore della terra. La terra è per il seme ciò che l’uomo è per la Parola: è madre, che l’accoglie e gli dà vita.

Ciò che Gesù ha incontrato nell’annuncio ai suoi contemporanei e la Chiesa incontrerà nell’annuncio a tutte le genti, è ciò che la Parola incontra in ciascuno di noi: resistenze di ogni tipo, e, alla fine, resa feconda.

I quattro tipi di terreno, più che quattro tipi di uomo, sono i quattro livelli di ascolto che in noi convivono.

Quando ascoltiamo la Parola, in parte la sentiamo e non la intendiamo: i pensieri soliti ci rendono impenetrabili all’ascolto. In parte la sentiamo e accogliamo con gioia, ma le pressioni, interne ed esterne, impediscono che si radichi e cresca. In parte la lasciamo anche radicare e crescere, ma poi resta soffocata dalle preoccupazioni e dall’inganno della ricchezza, che, come rovi, sempre ci invadono. In parte però siamo anche terra bella, che produce frutto.

Come fa la terra bella ad acquistare spazio in noi, se non levando sentieri, sassi e rovi? E come avviene questo?

La spiegazione della parabola è riservata ai discepoli perché si riconoscano nei vari terreni, vedano le ovvietà che rendono impenetrabili all’ascolto, le paure che pietrificano il cuore, gli egoismi che soffocano l’amore della verità e la verità dell’amore. È il presupposto per saper cosa fare – e cosa chiedere dove non riusciamo a fare.

Questa spiegazione va letta alla luce della parabola: come Gesù, nonostante le difficoltà della semina, afferma la certezza del risultato, così noi siamo sicuri del frutto sorprendente della Parola. Essa deve entrare e passare attraverso lo spessore di male del nostro cuore, per convertirci e guarirci.

La comunità dei credenti è chiamata a guardare le proprie resistenze non per abbattersi, ma per conoscere qual è il suo campo di lotta e di vittoria.

Questa spiegazione non è “una scivolata moralistica” rispetto alla parabola evangelica, quasi che il risultato dipendesse dal nostro sforzo. Il frutto è dono di Dio – Dio stesso che si dona. Lui è il seme, e noi il suo campo. Siamo chiamati a riconoscere le nostre resistenze, per chiedere ed ottenere la libertà da esse, e così accogliere ciò che lui ci vuole dare. In particolare chiediamo il dono di quella fede che vince il mondo (1Gv 5,4), di quella speranza che non delude (Rm 5,5), di quell’amore, effuso nei nostri cuori, che ci fa essere figli ed eredi del regno (Rm 5,5; 8,17).

Gesù è il seme seminato nell’uomo così com’è, per produrre ciò che lui stesso è.

La Chiesa conosce le proprie resistenze, e, in esse, invece di bloccarsi, rafforza la sua fede, la sua speranza e il suo amore.

56. LASCIATE CHE CRESCANO AMBEDUE INSIEME
13,24-30

Lasciate che crescano ambedue insieme”, dice il Signore a chi gli propone di sradicare le zizzanie. La zizzania è un’erba infestante. All’inizio non si distingue da una pianticella di frumento; poi si radica così bene che, strappandola, si sradica lo stesso grano.

La Parola ha sempre a che fare con ostacoli che rischiano di impedirne lo sviluppo (vv. 20-22). Il bene deve fare i conti con un parassita ineliminabile: il male. Esso non solo è fuori, ma anche dentro la comunità e nel cuore di ciascuno.

La storia e ogni singolo uomo è un campo di battaglia. Dove il Signore semina con cura il bene, il nemico con astuzia semina il male. Per questo c’è dualità di semi (bello e cattivo), di seminatori (il Signore e il nemico) e di soluzioni possibili (lasciare o sradicare le zizzanie).

Vorremmo che la comunità cristiana fosse perfetta, pura e senza difetti; ci angustiamo e ci diamo da fare per sradicare le zizzanie, in noi e attorno a noi. I maggiori disastri derivano proprio dal tentativo di eliminare il male. La violenza sacra è la peggiore: “a fin di bene”, viola ogni libertà.

Il trionfo del bene sarà solo alla fine, e per opera di Dio. Prima è il tempo della pazienza, nostra e sua, che vede il male nostro e altrui come luogo di misericordia, rispettivamente ricevuta e accordata. La Chiesa non è una setta di puri; in essa c’è posto per tutti.

Il male non è per la sconfitta, ma per l’esaltazione del bene: mediante la misericordia diventiamo figli del Padre, che fa piovere sugli ingiusti e sui giusti e fa sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni (5,45.48). Dio, se nel bene si rivela come dono, nel male si rivela nella sua essenza più intima e propria: come per-dono, amore senza condizioni e senza limiti.

Il male non guasta il bene, ma collabora al suo pieno trionfo: non è per la perdizione, ma per la salvezza (cf Gen 50,20; At 4,27s; Ap 17,17). Davvero tutto coopera al bene (Rm 8,28)!

L’umanità, credenti e non credenti, è racchiusa nella disobbedienza, perché a tutti Dio vuol usare misericordia (Rm 11,32). E, dove abbonda il peccato, lì sovrabbonda la grazia (Rm 5,20).

Dio lascia le zizzanie perché conosciamo lui come grazia, diventando noi stessi figli che ricevono e danno amore gratuito. Sono veramente imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie (Rm 11,33)! Questa è la sua vittoria, nel pieno rispetto della libertà nostra, ma anche della sua.

La parabola non è da leggere alla luce della spiegazione che segue (vv. 36-43). Al contrario, la spiegazione sarà da leggere alla luce della parabola. Questa a sua volta va vista nel contesto immediato, in cui si parla delle difficoltà che incontra il bene (in particolare cf vv. 18-22) e della piccolezza e impurità del bene stesso (vv. 31-33).

Il bene non solo è ostacolato e insignificante, ma è addirittura frammisto al male (cf Rm 7,14-25). Il popolo di Dio è sempre santo e peccatore – anzi più peccatore che santo! Eppure è “questo” il mondo che Dio ha tanto amato da dare per lui suo Figlio (Gv 3,16).

La parabola si divide in tre parti. I vv. 24-26 parlano della doppia semina, prima del bene e poi del male. I vv. 27-28a contengono la domanda dei discepoli e la risposta di Gesù: le zizzanie sono seme del nemico (cf Gen 3). I vv. 28b-30 presentano la proposta dell’uomo e quella opposta del Signore: “Andiamo a strapparle” e “Lasciate che crescano insieme”.

Gesù ha seminato la parola del Padre e la vive: è la misericordia verso tutti.

La Chiesa si ritrova invischiata con il male, fuori e dentro. Tentata di strapparlo con violenza, è chiamata a vincerlo con il bene, facendolo oggetto di misericordia invece che di condanna.

57. APRIRÒ LA MIA BOCCA IN PARABOLE TIRERÒ FUORI COSE NASCOSTE FIN DALLA FONDAZIONE DEL MONDO.
13,31-35

Tirerò fuori cose nascoste fin dalla fondazione del mondo”, dice Gesù concludendo le parabole per la folla, prima di entrare in casa coi suoi discepoli (v. 36). I misteri nascosti da sempre, che Gesù rivela con la vita ed espone con le parabole, sono gli interrogativi profondi di ogni uomo. Prima ci si chiedeva come mai il bene è osteggiato all’esterno e all’interno frammisto al male (vv. 3-9.18-23.24-30). Ora ci si chiede perché il bene è sempre “piccolo” (vv. 31-32), anzi “immondo” (v. 33), perché il regno, che con lui è iniziato, ha raccolto attorno a sé poca gente, e che gente – una insignificante cerchia di persone, per di più religiosamente squalificate.

Il mistero della croce si è ormai profilato all’orizzonte (12,14). Il disegno del Padre si realizza nella storia del Figlio che passa attraverso il male dei fratelli, sotto il segno della piccolezza e della maledizione. Il regno è dell’Agnello immolato, predestinato prima della creazione del mondo (cf 1Pt 1,20). Attraverso di lui Dio compie la salvezza degli uomini, eletti ed amati già prima della creazione del mondo (Ef 1,4) con un amore che nessuna acqua può spegnere (Ct 8,7).

Il brano presenta due parabole simmetriche, quella della senape e quella del lievito (vv. 31-32.33), con una interpretazione generale delle parabole (vv. 34-35), come rivelazione di Dio offerta a tutti.

La senape e il lievito non corrispondono all’immaginario usuale del regno. Ci si aspetta che sia un grande albero, dimenticando che viene da un ramoscello (Ez 17,22s; cf Dn 4,1ss; Ez 31,1ss). Ci si aspetta una conquista trionfale del mondo – tutti si prostreranno, baceranno la polvere e pagheranno il tributo a Sion (Is 49,23; cf Is 60,1ss) -, dimenticando che si parla di un popolo di peccatori in esilio e del “Servo” di Dio umiliato.

In questo brano Gesù gioca sul contrasto tra la piccolezza del seme e la grandezza dell’albero, tra l’impurità del lievito e la sua capacità di contaminare tutta la pasta.

Le due immagini, forse usate con ironia dagli avversari di Gesù, sono da lui prese per illustrare il regno: la piccolezza estrema del seme di senape produrrà il grande albero, l’inadeguatezza di un pugno di farina andata a male fermenterà il mondo.

L’arcano del regno contiene questo contrasto tra insignificanza attuale e gloria futura. Ma tra le due c’è continuità misteriosa e vitale, come tra seme e pianta, tra fermento e pasta viva. “Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla, per ridurre a nulla le cose che sono” (1Cor 1,28). Israele stesso fu scelto non per sue qualità presunte o reali, ma perché “è il più piccolo tra i popoli della terra” (Dt 7,7). Non è un capriccio di Dio. È invece una necessità sia per noi che per lui. Per noi, perché siamo piccoli; e così veniamo liberati dal delirio di grandezza. Per lui, perché è amore; e l’amore si fa piccolo e umile, senza paura di sporcarsi.

Queste parabole si sono prestate a varie applicazioni. Si è sottolineato come la Chiesa, da piccola e insignificante, è cresciuta e ha lievitato il mondo intero; oppure come l’individuo, accogliendo il seme della Parola, cambia vita; o, infine, come la storia presente, ancora sotto il segno del male, avrà un esito positivo e trionfale. La parabola è di sua natura “suggestiva”: suggerisce interpretazioni diverse in situazioni diverse. Tutte sono legittime, se non dimenticano che la croce non è un incidente di percorso da dimenticare, ma è, ora e sempre, il “suo” segno (cf 24,30). I trionfalismi, che contrappongono gli umili inizi al successo conseguito, sono sempre fuori luogo. Anche se la comunità cristiana abbraccerà il mondo intero – e già lo abbraccia il Cristo – sarà sempre con le braccia del Crocifisso.

Gesù è il chicco di senape, preso e gettato sotto terra, il più piccolo dei semi, che germinerà nel grande albero della croce. È il lievito, preso e nascosto nella pasta del mondo, e lo farà tutto pane vivo.

La Chiesa è chiamata a comprendere la grandezza e la santità del Figlio nella piccolezza e impurità della croce: legge in essa l’arcano di Dio, ora e sempre.

58. COSÌ SARÀ AL COMPIMENTO DEL MONDO
13,36-43

Così sarà al compimento del mondo”, dice Gesù: brilleranno due fuochi, quello delle zizzanie che bruciano come immondizie, e quello dei giusti che splendono come il sole.

Il giudizio di Dio è solo alla fine, non ora, ed è fatto da lui, non da noi. Il presente è sempre il tempo della pazienza, perché tutti giungiamo alla conversione e alla salvezza (cf 2Pt 3,9).

La spiegazione della parabola, richiesta dai discepoli (v. 36), si divide in due parti: i vv. 37-39 sono un vocabolario dei sette elementi simbolici; i vv. 40-43 sono un ampliamento del punto finale – il giudizio di Dio.

La comunità, dopo aver capito che bisogna avere comprensione con tutti (v. 29), avverte un problema: con questa “legge di libertà” (Gc 2,12) non si rischia il disimpegno? Se Dio perdona comunque, si può fare ciò che pare e piace, trascurando il suo precetto di amare! Il ragionamento è tanto comune quanto insensato. Sarebbe come dire: “Mia madre mi vuol bene e non si vendica. Posso impunemente maltrattarla!” Chi pensa e agisce così, è un falso profeta, operatore di iniquità, privo del frutto del regno (7,15-23).

Questi versetti, come poi i vv. 48-50, sono un richiamo alla responsabilità personale: dobbiamo non giudicare gli altri per non essere giudicati, usare misericordia per ottenere misericordia. Si esige impegno da parte nostra: se la comunità cristiana non è una setta di giusti, non è neppure una banda di malfattori! La misericordia è verso l’altro. Verso di sé ci vuole vigilanza e discernimento, giudizio e conversione continua, per diventare appunto figli perfetti come il Padre (5,48.43-47).

La misericordia è una esigenza di purificazione più bruciante di qualunque legge. Non c’è posto per lassismo o immoralità, torpore o tiepidezza. Ogni pegno d’amore è impegno ad amare.

Nella Chiesa, come nel mondo, ci sono sempre le zizzanie col buon seme: al presente il regno del Figlio dell’uomo resta aperto a tutti gli uomini, suoi fratelli. Ma, nel futuro definitivo, il regno del Padre sarà solo per i figli, quelli che sono diventati come lui.

L’attuale dilagare dell’empietà, se non diventa opportunità per crescere nella misericordia, si fa connivenza, che raffredda l’amore di molti (24,12). Chi fa parte della Chiesa non creda di essere già nel regno del Padre: lo è solo nella misura in cui si fa figlio, facendosi fratello di tutti, nessuno escluso.

Grazia e libertà, dono e responsabilità, azione di Dio e dell’uomo, non vanno mai separati, tanto meno contrapposti: la grazia libera la libertà, il dono dà la capacità di rispondere, l’azione di Dio rende possibile quella dell’uomo. Noi “siamo” nella misura in cui liberamente rispondiamo al dono che abbiamo ricevuto. Dio non si sostituisce a noi, ma ci fa come lui. E questa è la nostra salvezza: diventare ciò che siamo.

Gesù è il Figlio dell’uomo venuto a seminare la parola di misericordia: nel suo regno, quello del Figlio, sono accolti tutti così come sono, perché fratelli.

La Chiesa e ciascuno di noi è sempre insieme buon grano e zizzanie: è il regno del Figlio, non ancora quello del Padre. Per entrare in questo bisogna essere grano buono: accettare con misericordia le zizzanie dell’altro – non le proprie!

59. PER LA GIOIA DI ESSO, VA E VENDE TUTTO QUELLO CHE HA E COMPERA QUEL CAMPO
13,44-52

Per la gioia di esso, va e vende tutto quello che ha e compera quel campo”. Queste ultime brevi quattro parabole, rivolte ai discepoli, completano il discorso di Gesù con un appello alla decisione e alla responsabilità: la gioia è la forza per decidersi per il regno, tesoro da vivere con coerenza e da trasmettere adeguatamente.

Le prime due parabole (vv. 44.45-46) sono simmetriche, seppure con differenze che illuminano aspetti diversi dell’unico tema: decidersi per ciò che vale. Parlano del “trovare” (frutto di un “cercare”, esplicito o meno), di un “tesoro nascosto” e di una “bella perla” – immagini suggestive del valore e della bellezza del regno – e pongono l’accento sul “vendere tutto” per “comprare” il campo e la perla.

Non basta cercare o trovare: occorre decidere. Chi vuol tenere il piede in due scarpe, non cammina. Il motivo della decisione è la “gioia”, la passione per il tesoro. L’amore per Gesù rende indifferenti al resto, liberi di camminare finalmente verso la felicità. Chi si sposa, non è preso da tristezza per i possibili partners che lascia, ma dalla gioia per chi ha scelto e ama.

Per questo Dio ci dà gioia: per farci decidere. E per questo il nemico fa di tutto per renderci tristi: per impedirci ogni decisione positiva.

La seconda coppia di parabole (vv. 47-50. 51-52) è sulla responsabilità. Ognuno è chiamato a vivere in prima persona il tesoro della vita filiale (cf vv. 24-30. 36-43), e “lo scriba”, in particolare, deve trasmetterlo in modo intelligente e completo.

È vero che la Chiesa non è una setta di giusti: è la grande rete, gettata nel mare, che pesca i fratelli dall’abisso. Guai se non fosse così! Ma chi ha ottenuto misericordia, la vive con impegno nei confronti degli altri. La bontà di Dio è stimolo a corrispondervi, non alibi alla cattiveria: la salvezza è essere come lui!

In modo particolare lo “scriba” è responsabile di capire tutto (v. 51) e trasmetterlo integralmente, con attenzione al nuovo e all’antico (v. 52), all’interpretazione e alla tradizione. Deve tener presente il nuovo e l’antico Testamento, mostrando la verità delle promesse alla luce di Gesù, che è il compimento. È quanto fa con scrupolo Matteo: scrivendo il suo vangelo, mostra come nel Nazoreo si compiono le profezie (2,23).

È impossibile comprendere il compimento senza conoscerne la promessa, ma anche cogliere la promessa senza conoscere il compimento. Il velo dell’AT è tolto solo da Cristo (2Cor 3,14-16). La Bibbia è il tesoro di famiglia, dal quale, a tempo debito, lo scriba, amministratore fedele dei misteri del regno (24,45), distribuisce a ciascuno la sua razione di cibo. Beato quel servo che il Signore, al suo ritorno, troverà ad agire così (24,46). Diversamente appartiene al numero di quelli che chiudono il regno dei cieli davanti agli uomini: non vi entrano e impediscono agli altri di entrare (23,13)!

Gesù è il tesoro nascosto e la perla preziosa: chiunque, presto o tardi, lo trova, sia che non lo cerchi come il contadino, sia che lo cerchi come il mercante. Il Signore, come si fa trovare da chi lo cerca (cf Is 66,6), così dice: “Eccomi!”, facendosi trovare anche da chi non lo cerca (cf Is 65,1). Lui è la Sapienza che imbandisce il banchetto della vita: la gioia di averlo incontrato è la forza per decidere di conseguirlo.

La Chiesa è fatta da coloro che centrano la propria vita su di lui, tesoro e perla preziosa; del resto si servono tanto quanto piace a lui. Ognuno è responsabile di vivere concretamente alla luce di questo amore. Lo scriba, in modo particolare, è chiamato a trasmettere bene questo tesoro, antico nella sua novità e sempre nuovo nella sua radice antica.

60. NON C’È PROFETA DISPREZZATO SE NON NELLA PATRIA E NELLA CASA SUA
13,53-58

Non c’è profeta disprezzato se non nella patria e nella casa sua”, dice Gesù constatando l’incredulità di quelli di Nazareth.

Il rifiuto di parte dei suoi apre una nuova sezione (13,53-17,27), nella quale si traccia l’itinerario dall’incredulità alla fede, con il passaggio obbligato attraverso il dubbio, che sempre accompagna sia l’una che l’altra.

Il succedersi dei fatti è sostanzialmente uguale a Mc 6,1-9,32, con un rilievo maggiore dato a Pietro. La cosa è comprensibile se si pensa che Marco si rifà alla sua predicazione (la modestia è una virtù, tanto rara quanto difficile da contraffare).

Si approfondisce sempre di più il solco che divide la folla dai discepoli: c’è chi rifiuta e chi si lascia coinvolgere nel cammino di Gesù. La fede cristiana consiste nell’accettare non solo il suo messaggio e la sua opera, ma soprattutto la sua persona. Gesù non è il fondatore di una religione, come Mosè, Budda o Maometto; non è il maestro di una dottrina o di una morale che può stare anche senza di lui. Lui è il Signore, la vita e la sapienza: il racconto della sua storia ce lo rivela e ce lo offre da amare e da seguire. Accettare lui, nella sua umanità, è avere lo Spirito di Dio: “Ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio, e ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio” (1Gv 4,2s). La fede cristiana non è un’idea o una legge, ma un individuo concreto: Gesù. Questo è lo scandalo e beato chi non si scandalizza di lui (11,6).

Gesù non fu accettato dai suoi a causa della sua carne. La prima eresia, sempre latente nella Chiesa, è lo gnosticismo, che non accetta la debolezza della sua umanità, e della sua umanità crocifissa. Questa è la radice stessa della fede, sempre insidiata, al presente come al passato. Le prime eresie sono anche le eresie prime di ogni epoca. Anche oggi varie forme di misticismo e di teologie sincretistiche si scandalizzano del fatto che l’Onnipotente parli ed entri nella storia di tutti attraverso la storia singola e personale di Gesù. Svuotano così la salvezza di Dio, non riconoscendo la sua carne e la sua croce, salvezza di ogni carne e di ogni croce. “Ciò che non è assunto, non è redento”, suona fin dall’inizio il principio di ogni teologare cristiano. “Cardo salutis caro”: la sua carne è il cardine della salvezza.

Il cristianesimo è amore per Gesù, il Crocifisso, sapienza e potenza di Dio (cf. 1Cor 1-3). “Chiunque invocherà il nome del Signore, sarà salvato” (At 2,21). “In nessun altro nome c’è salvezza” (At 4,12), neanche per i teologi più illuminati o abbagliati. Solo in lui, il Figlio, diventiamo ciò che siamo: figli che entrano a far parte della famiglia del Padre. Altre figure insigni, idee brillanti o ascesi allucinanti, giovano se aiutano a conoscere e amare lui. Altrimenti non giovano a nulla, se non a perdersi. Noi vogliamo essere come Dio; ma rifiutiamo un Dio che sia come noi. Ed è proprio questo che ci salva!

Il rifiuto di Nazareth, dietro il quale si profila quello di parte di Israele, rimane profezia perenne per la Chiesa (cf. Rm 11,10s): ciò che è capitato ai nostri padri, è per noi un esempio da non dimenticare, perché non ci avvenga di peggio (cf. 1Cor 10,6).

Gesù crocifisso, scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani, è sapienza e potenza di Dio (1Cor 1,23s) che salva tutti. Tutto infatti, creato per mezzo di lui e in vista di lui (Col 1,16), trova la propria identità in lui, vita di ciò che è (cf. Gv 1,3b-4).

La Chiesa non divida ciò che Dio ha unito (cf. 19,6). La prima tentazione “diabolica” è dividere la Parola dalla carne, ottenendo una parola vuota e una carne senza senso.

61. I SUOI DISCEPOLI LEVARONO LA SPOGLIA E LA SEPPELLIRONO
14,1-12

I suoi discepoli levarono la spoglia e la seppellirono”. È la sorte del profeta in patria. Ma la sua storia non finisce nel sepolcro. Giovanni precede Gesù di un passo. Come ne ha anticipato il messaggio (3,12=4,17), ora ne prefigura il martirio. I due hanno lo stesso amore, gli stessi nemici e lo stesso destino.

Il brano è un flash-back, che partendo dalla risurrezione, racconta la passione del Battista. Egli, anche dopo la morte, è vivo più che mai, in tutto simile al Signore che ha preannunciato. La sua vita ne è profezia compiuta: nel martirio il profeta si identifica con la Parola di cui è testimone.

Il racconto è posto dopo il rifiuto di Gesù da parte dei suoi (13,57) e prima del fatto dei pani (vv.13-21): il banchetto della morte precede quello della vita. Come Giovanni, anche Gesù sarà rifiutato, ucciso e nascosto nel cuore della terra. Proprio lì il suo “corpo dato per noi” sarà seme che germoglierà pane per tutti.

Il banchetto di Erode, che termina con la deposizione del giusto nel grembo della terra, è visto come la semina del seme di vita..

Siamo all’interno della sezione che porta a riconoscere il Cristo, Figlio di Dio (16,16). I due banchetti, uno nel palazzo, riservato ai potenti, e l’altro nel deserto, aperto agli umili, rappresentano due modi opposti di vivere. Uno taglia la testa a chi dice la Parola, l’altro vive di essa; il primo festeggia la vita con una danza macabra di morte, il secondo fa fiorire il deserto e riempie la notte della fragranza del pane.

Gli ingredienti del banchetto di Erode sono quelli della nostra storia che ben conosciamo: adulterio, prepotenza e violenza. La bellezza, il senso dell’onore e della fedeltà servono a condire il pasto, il cui dessert è un piatto insospettato e crudele: l’ultima movenza di questa danza è una fanciulla con in mano una testa mozzata!

Il profeta è uno che soffre di una malattia professionale: il taglio della testa”. La sua uccisione rappresenta l’apice del male: invece di ascoltare il Signore, si taglia la gola a chi ne dice la Parola. Ma la Parola di Dio non è legata (2Tm 2,9): la testa del Battista parla più forte di prima, con una potenza che nessuna violenza, neanche la morte, può far tacere. Erode la risente come incubo e appello costante. A lui la responsabilità di ascoltarla, ripudiando la donna che non è sua e tornando al primo amore.

La causa di tutto infatti è una moglie non propria. La donna è simbolo della sapienza (Sofia) o della stoltezza (Moría). L’uomo è fatto per sposare Sofia, e non Moría. L’una imbandisce il banchetto di morte, l’altra quello di vita; l’una fa del palazzo un sepolcro, l’altra del deserto un giardino.

Erode ha scelto di sposare la stoltezza, che lo travolge nella morte. In realtà lui è un re fantoccio, che non è padrone neanche di sé. Sente Giovanni e sente Erodiade, ode la sapienza e l’insipienza. Ma, legato a questa e depossessato della sua libertà, non riesce a fare ciò che vuole. È preso in un gioco dove ogni bellezza e armonia, il nascere e il mangiare, lo stare insieme e il danzare, tutto si riduce ad un vorticoso movimento sotto la regia della morte. Il potente, guidato da Moría, è in realtà impotente: giocato dal gioco che crede di tenere in mano, è schiavo del suo potere che è più immaginario che reale – anzi si fonda su immagini truci e si mantiene alimentandole.

Il suo banchetto, oltre che il prezzo, è il contrappunto di quello che Gesù imbandisce subito dopo nel deserto: alla nausea vomitevole dei potenti, segue la sazietà piacevole per tutti.

Gesù, profeta rifiutato in patria, avrà la stessa sorte del Battista. Con la sua morte diventerà pane di vita.

La Chiesa ascolta la Parola invece che tagliare la testa a chi la dice. Per questo passa dal banchetto di Erode a quello di Gesù. Solo così riceve il pane della sapienza e riconosce il Vivente.

62. DATE LORO VOI STESSI DA MANGIARE
14,13-21

Date loro voi stessi da mangiare”: è l’imperativo del Signore ai suoi discepoli. Lui stesso è il corpo dato per noi (cf. 26,26), cibo che riceviamo e offriamo a tutti.

Dopo la sepoltura del profeta c’è il pane del deserto. La sua uccisione lo rende seme nascosto nel cuore della terra – è il segno di Giona (12,40)! – che germoglia in pane di vita per tutti. L’uomo è ciò che mangia. Al di là delle sue intenzioni, il banchetto di Erode, con i suoi idoli morti che danno morte, prepara quello del Figlio che dà la vita di figli e di fratelli.

Gesù, profeta e Messia rifiutato, sfama il suo popolo nel deserto. Più grande di Mosè (Es 16,3-4), è il Signore stesso che dona la sua carne come vero cibo (Gv 6,55); più grande di Eliseo (2Re, 4,42ss), è la Sapienza che offre sovrabbondanza di vita.

Il racconto, a sfondo messianico, richiama l’eucaristia, cibo del nuovo popolo. La comunità cristiana ha al suo centro il Figlio, ricevuto in dono e comunicato ai fratelli. Quanto qui Gesù fa è l’anticipo di quello che compirà nell’ultima cena (v. 19=26,26), e che i discepoli sempre faranno in memoria di lui (1Cor 11,23s).

Il racconto si divide in tre scene: Gesù, pieno di misericordia, guarisce le folle (vv.13-14); i discepoli hanno un programma sul cibo diverso dal suo (vv. 15,18); lui prende il pane, benedice e lo dà a loro perché ne offrano a tutti (vv. 19-20).

Il v. 21 conclude con una nota del redattore sul numero delle persone sfamate. Il centro del brano è la benedizione sul pane del tipo delle berakot (benedizioni) ebraiche. È lo stile di vita del Figlio che si fa fratello. Come il banchetto di Erode nel palazzo conduce a uccidere chi dice la Parola, questo di Gesù nel deserto la realizza come vita e sazietà per tutti.

Gesù anticipa quello che farà l’ultima sera: il pane è il mistero del suo corpo, tutto dono del Padre e tutto dono ai fratelli.

La Chiesa ha Gesù al suo centro: ascolta il suo comando e offre quanto ha ricevuto.

63. O TU DI POCA FEDE, PERCHÉ DUBITASTI?
14,22-36

O tu di poca fede, perché dubitasti?”, chiede Gesù a Pietro, chiamato da lui a camminare sulle acque, come lui e con lui.

Il racconto di Gesù a Nazareth (13,53-58) mostra la regressione dalla meraviglia al dubbio e dal dubbio all’incredulità. Questo, al contrario, mostra il cammino dal turbamento al coraggio della fede, provata comunque dal dubbio e dalla caduta, che nell’esperienza di salvezza giunge alla sua pienezza.

Il dubbio, a metà strada tra incredulità e fede, è il passaggio necessario per tutti. Per una fede consapevole e adulta bisogna che il non credente dubiti del suo non credere e che il credente dubiti del suo credere. Un cieco dogmatismo preclude l’accesso alla verità. Comunque, quando va a fondo, chiunque si apre all’invocazione della salvezza, al di là di quello che crede o non crede.

Pietro rappresenta ciascuno di noi e tutta la chiesa: quando volgiamo gli occhi al Signore e alla sua chiamata, abbiamo fiducia e riusciamo ad avanzare; quando guardiamo le nostre difficoltà, ci impauriamo e affondiamo. Rimane però sempre nel cuore il grido: “Signore, salvami!”. È la radice inalienabile della fede. L’esperienza di salvezza che ne consegue porta alla pace e al riconoscimento del Signore.

Dopo il dono del pane, Gesù sale, da solo, sul monte a pregare. I discepoli scendono, da soli, sul mare a remare. Dopo il suo “corpo dato per noi”, lui è assente. Noi ci troviamo nella notte, col vento contrario, sospesi sull’abisso agitato che vuole inghiottirci, faticando inutilmente per raggiungere l’altra riva. È la condizione della Chiesa, chiamata ad affrontare il suo stesso cammino dopo la sua ascensione sul monte (28,16ss). Lui è presente come amore fraterno: è l’unico pane che c’è sulla barca, insidiato dai vari lieviti (Mc 8,14ss). Questo non è un fantasma, ma “Io sono”, la potenza salvifica di Dio stesso.

Le tre scene “tempestose” in barca sono da vedere in connessione tra loro. Nella prima lui è presente come colui che “dorme e si risveglia” (8,23-27): è il Gesù terreno, presente tra i discepoli “così com’era” (Mc 4,36), morto e risorto, che ci ha lasciato il suo pane. In questa seconda lui non è più con noi se non come l’assente, che ha vinto la morte e cammina sulle acque; è presente però con la sua parola e il suo pane che ci fanno camminare come lui ha camminato. Nella terza (16,5-12) lui stesso scatena una tempesta di domande ai discepoli che non capiscono il pane e si lamentano di non averne. Hanno infatti il lievito “dei farisei e dei sadducei” (16,12), fermento ben diverso dal suo!

La barca è simbolo della comunità, luogo della fede. Non ci sono scappatoie sulla barca: o si arriva a terra, o si va a fondo! La prima scena in barca corrisponde al tempo di Gesù che, in barca con i suoi, muore e risorge, dandoci il suo pane. La seconda corrisponde al tempo della Chiesa, dove la sua presenza come pane è ritenuta un fantasma, fino a quando non ci fidiamo della sua parola e non facciamo come lui ha fatto – “fate questo in memoria di me” (1Cor 11,24). La terza ci dice perché abbiamo difficoltà a riconoscerlo: diamo corpo alle nostre cattive fantasie – i vari lieviti che muovono la nostra vita, che riducono a fantasma la realtà di Io-Sono.

Gesù, ormai assente, è presente come il Vivente che ha camminato sul mare e che, con la sua parola, ci chiama a fare altrettanto.

La Chiesa accoglie l’invito, con tante paure e perplessità. Se guarda lui e la sua promessa, cammina. Se guarda le proprie difficoltà, affonda. Le rimane però sempre il grido di invocazione al Signore, il cui nome è “Gesù”, che significa “Dio-salva”. L’avventura di Pietro è quella di ogni uomo.