Perché diciamo «Ego te absolvo»
di Gianfranco Ravasi
in “Il Sole 24 Ore
28 febbraio 2021
ripreso da:
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Confessione. Il teologo protestante Paolo Ricca spiega come nell’atto della assoluzione il ministro della Chiesa si sovrappone a Dio ma non lo sostituisce: viene a rappresentarlo come vicario
Forse qualche lettore ha di questo sacramento un pallido ricordo di quand’era ragazzo e si preparava a ricevere la prima Comunione. Certo quel nome «penitenza» e forse lo stesso rituale segreto nel buio del confessionale, gli assegnavano un profilo punitivo, edulcorato ma non troppo nell’altro titolo, «confessione», dai risvolti intimistico-psicologici. L’attuale denominazione di «sacramento della riconciliazione» lo rende più sereno, soprattutto se raccordato all’abbraccio festoso che sta nel cuore della celebre parabola del figlio prodigo nel peccare e del padre prodigo nel perdonare (Luca 15,11-32), parabola inchiodata nell’immaginario di tutti attraverso la mirabile tela di Rembrandt, custodita ora all’Ermitage.
Si deve anche aggiungere che nella memoria collettiva cattolica quel sacramento è affidato a una formula latina altrettanto famosa: Ego te absolvo. Essa è adottata come titolo dal saggio del teologo protestante Paolo Ricca, appassionato artefice del dialogo ecumenico e studioso di grande nitore intellettuale e stilistico. È il caso anche di questo suo scritto che reca proprio in copertina le domande capitali che reggono il libro, dedicato «alla colpa e al perdono nella Chiesa di ieri e di oggi»: «Con l’Ego te absolvo, il sacerdote esercita legittimamente il mandato di Cristo o si attribuisce un potere che non ha? La Chiesa ha la facoltà di perdonare i peccati o il suo compito è esclusivamente quello di annunciare il perdono, che resta prerogativa esclusiva di Dio?».
È necessario spazzar via subito un sospetto che può allignare nei nostri lettori cattolici: non sarà che un protestante abbia già in premessa il dente avvelenato nei confronti di un sacramento così «cattolico»? Ovviamente è solo seguendo l’itinerario storico-teologico del testo – un percorso per altro limpido nel dettato e attraente nonostante il tema (o forse proprio per questo) – che si scopre la chiarezza interpretativa e la pacatezza dei giudizi, sia pure senza escludere le differenze dell’approccio e delle interrogazioni rivolte ai testi biblici e, quindi, la possibilità di un contrappunto e di un confronto, anche dialettico tra cattolici e protestanti. Certo è che può sorprendere la voce ineccepibile di Lutero che in suo sermone del 1522, pur venato di polemica col papa, non esitava a dichiarare: «Non voglio che qualcuno mi tolga la confessione segreta, che non cederei per tutto l’oro del mondo, sapendo quale consolazione e forza mi ha dato. Nessuno, tranne chi abbia lottato col diavolo, sa che cosa essa possa fare, e il diavolo mi avrebbe ucciso già molto tempo fa, se a sostenermi non ci fosse stata la confessione».
Ma ritorniamo agli interrogativi di partenza. Lasciando tra parentesi la lunga e molteplice riflessione che si è ramificata a partire dal mandato di Gesù, reiterato a Pietro e agli apostoli sul «legare e sciogliere» (Matteo 16,19 e 18,18), che diventa esplicitamente nel Vangelo di Giovanni un «perdonare i peccati» (20,23), la risposta deve porre al centro la figura di Dio che è il protagonista supremo del perdono. Esso, però, nella logica stessa dell’Incarnazione – che suppone la storicità visibile, udibile, palpabile della Parola divina (è ancora san Giovanni nella sua Prima Lettera a ricorrere a questa «fisicità» teologico-ecclesiale) – si attua attraverso la Chiesa e il suo ministero. La formula Ego te absolvo, coniata nell’XI secolo, cristallizza questo intreccio divino-umano. Come scrive lo stesso Ricca, «l’ego del ministro della Chiesa si sovrappone a quello di Dio, non per sostituirlo, ma per rappresentarlo, per fungergli da vicario».
Tuttavia egli è restio ad avallare questa formula, proponendo alternative più articolate nel definire i due attori necessari in questione: il protagonista fondamentale, Dio, e la Chiesa nella sua funzione ministeriale. Essa si basa sulla netta missione consegnata, nel quarto Vangelo, agli apostoli dal Risorto, testo a cui abbiamo già sopra alluso: «A coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (Giovanni 20,23). Certamente nei Concili successivi, il Lateranense IV (1215) e il Tridentino (1545-1563) la codificazione giuridica di questo nesso ha prevalso sull’aspetto più antropologico-spirituale. Il Vaticano II e l’attuale rituale liturgico hanno ricentrato in modo più armonico quella interconnessione, e Ricca riconosce che ciò è avvenuto attraverso «l’innesto della riconciliazione nel mistero pasquale della passione, morte e risurrezione di Cristo…. e attraverso la partecipazione attiva della Chiesa alla conversione del penitent… con la carità, l’esempio e la preghiera». Usando un termine caro da sempre alla teologia e di facile comprensione se si bada alla matrice greca Theós, «Dio», e anèr, «uomo», cioè l’aggettivo «teandrico», si riassume la struttura non solo di questo ma di tutti gli altri sacramenti della Chiesa.
Tuttavia non poche sono le questioni che sbocciano come corollari e su di esse possono marcarsi le sfumature, le diversità interpretative e persino le distanze secondo gli approcci «confessionali» (nel senso delle varie Chiese cristiane). Dati i limiti e il taglio della nostra lettura, che non è certo una recensione per una rivista teologica, segnaliamo invece solo un paio di temi aperti di indole più generale. Il primo riguarda la sorprendente affermazione di Gesù nel «Padre Nostro»: «Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» (nell’ebraico e nell’aramaico un unico termine, hoba’, designa il «debito» e il «peccato»). Il perdono umano è condizione-premessa per ottenere il perdono divino? Oppure, all’inverso, si deve intendere: «Come tu, o Dio, perdoni, così perdoneremo anche noi»? O ancora, Gesù accosta semplicemente i due perdoni, rendendoli paralleli, senza dipendenze causative ?