Lectio divina sul Vangelo di Luca
Silvano Fausti
Capitoli 1-2
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Testo doc Lectio Luca Cap 1-2 Fausti (1)
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1. AFFINCHÈ TU RICONOSCA LA SOLIDITÀ DELLE PAROLE CON CUI FOSTI ISTRUITO
(1,1-4)
Il Vangelo di Luca è rivolto a cristiani della terza generazione, provenienti dal paganesimo. Distanti da Cristo nello spazio e nel tempo, non l’hanno visto quando è venuto né hanno conosciuto coloro che lo videro. Inoltre, il suo ritorno comincia a sembrare più lontano di quanto il desiderio e l’impazienza abbiano fatto credere. Da qui l’urgenza di rispondere a due problemi: come accedere a un passato sempre più remoto e come procedere verso un futuro sempre più lontano? In altre parole, che significato ha la sua venuta, che senso ha il suo ritorno? Come la memoria di quei fatti è significativa “oggi” per un domani di salvezza? Che c’entra Gesù con la mia vita concreta, che si misura con i suoi problemi quotidiani in una situazione di male in cui lui non è più presente e non è ancora tornato? La sua venuta e il suo ritorno non si vanno perdendo in un orizzonte sempre più indeterminato? Qual è il rapporto tra il suo passato glorioso, il nostro presente buio e il nostro futuro di salvezza? Come la sua venuta e il suo ritorno sono in grado di qualificare ancora oggi la nostra vita cristiana?
Luca si pone esplicitamente il problema della storia: cogliere “oggi” l’identità di un passato e la sua rilevanza per un futuro significativo per il presente.
Luca è cosciente che l’uomo è un “animale storico”. Di natura “eccentrico”, con il suo centro fuori di sé, è sospeso tra il già e il non ancora. Limitato e trasgressore del suo limite, è ansia di realizzazione e corsa verso la propria identità, ricerca di sé intorno a sé, davanti a sé e dietro di sé. Unico animale che sa di morire, si sente in una solitudine che lo individua e lo attanaglia, gli toglie respiro e lo uccide. Senza passato e senza futuro, non può esistere. Cerca di sfuggire al nulla mediante la relazione e il confronto con tutto ciò che c’è su due coordinate, quella dello spazio e quella del tempo. La prima lo ancora al suo mondo presente, persone, fatti e ambienti; la seconda lo situa in un dialogo sapiente col passato, che si fa sua memoria e lo spinge a una responsabilità verso il futuro, che si fa progetto. L’uomo senza storia è uno smemorato che non sa chi è, un punto gettato nel vuoto, incapace di riconoscersi e di farsi riconoscere.
Il passato è mediato dalla parola/ricordo, che si deposita nella sua memoria. Questa a sua volta gli dà identità e possibilità di esistere, di comunicare e di costruire un futuro. La storia si può leggere come il tentativo costante dell’uomo di rompere il suo limite costitutivo.
È l’avventura di chi, cercando se stesso, cerca sempre altro, ed è ricerca continua d’Altro. Avventura bella, ma frustrante, perché consapevole della certezza che muove la ricerca stessa: il limite, appunto. È un dato oggettivo che si traduce in angoscia, perché inaccettabile e da superare, nella sicurezza di un limite sempre più grosso, fino a quello ultimo che tutto divora.
Ma allora la storia è un faticoso e coatto rimontare la china, sapendo di scivolare sempre giù, proprio alla fine della salita? Insufficienza radicale a se stesso, desiderio impossibile d’Altro, troppo grande per bastare a se stesso (Pascal), l’uomo è costituzionalmente infelice, crudelmente lanciato in una ricerca di sé che lo risucchia nel fondo del pozzo per trovare la propria immagine? La sua storia sarebbe un girotondo continuo, in cui si tasta disperatamente il muro cieco di una massiccia torre circolare, senz’altra gioia che tenersi ogni tanto per mano, senz’altra speranza che sperare inutilmente o attendere di morire? E la puzza dei cadaveri nel mezzo offre a tutti un insopportabile fetore! Il serpente si morde la coda, il tempo mangia ciò che genera, tutto è chiuso in un gorgo infernale, reso insopportabile dal desiderio impossibile di romperlo. E il desiderio impossibile si fa paura e la paura vertigine e sollecitudine a provocare l’arrivo di ciò che si teme.
In realtà la morte è l’unica attesa realistica dell’uomo. Ma alla sua attesa, indeducibile da essa, si contrappone la promessa di Dio. È promessa di un mondo “buono”, aperto sul cielo, totalmente diverso, che non sappiamo pensare né osiamo sperare. Dio si è accostato all’uomo, promettendogli innanzitutto la “salvezza”. Perché questa venisse positivamente compresa, è stata necessaria una lunga educazione, che passa attraverso il dono di salvezze insperate e la negazione di altre desiderate.
Il punto d’arrivo di questa pedagogia di Dio è portare alla fiducia in lui, in modo da accogliere da lui quella salvezza che noi, con la mente oscurata dalla menzogna antica, neanche potevamo immaginare.
Con la storia di Israele Dio si è dissodato un pezzo della nostra terra, vi ha seminato la sua parola e l’ha coltivata. Essa è lentamente cresciuta ed è diventata un grande albero, dai frutti maturi: “un albero di vita, che dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni” (Ap 22,2).
Il faticoso lavoro di Dio è giunto ora a compimento: in un punto e in un tempo precisi, egli stesso ha aperto una breccia nel muro della nostra storia. Caduta l’ultima pietra che faceva da velo, si è dischiusa una via di uscita dalla perdizione.
Ma nessuno se ne è accorto. Sul momento neanche i più vicini! L’opera di Dio, piccola e puntuale – come ogni realtà – è rimasta soffocata dal frastuono di tutta la grande storia. Luca vuol prendere ogni uomo e condurlo per mano a quell’apertura: è la storia di Gesù, luogo in cui è stato abbattuto il muro. Attraverso “questa” porta, con tutte le sue ferite e delusioni, con tutta la sua disperazione e angoscia, l’uomo esce dalla prigione della morte e si affaccia alla luce della vita.
Quello di Luca è un Vangelo “storico”: si fa carico della storia dell’uomo concreto e la apre alla salvezza, prima promessa e ora realizzata in Gesù. Lui è il centro del tempo, l’oggi eterno di Dio per il mondo. Attraverso lui, “oggi la salvezza è entrata in questa casa” (19,9).
Nel prologo Luca dà le sue credenziali di “storico della salvezza”. Parla di “quelle cose che si compirono tra noi”, trasmesse da “testimoni oculari”, divenuti “servitori della Parola”.
Il racconto ordinato che molti ne hanno fatto, è utilizzato con cura da Luca perché il lettore, Teofilo, possa rendersi conto della solidità degli insegnamenti ricevuti.
2. ANNUNCIO DELLA NASCITA DI GIOVANNI:
“LE MIE PAROLE SI COMPIRANNO NEL LORO MOMENTO”
(1,5-25)
Luca si rivolge a dei convertiti dal paganesimo. Essi ignorano la storia della salvezza. Perciò, prima di parlare di Gesù, che ne è il frutto maturo, parla delle sue radici: la promessa fatta ad Israele. L’intento è presentarne al destinatario le chiavi essenziali di lettura. Gesù infatti è il compimento della promessa di cui Dio ha fatto depositario Israele a favore di tutti i popoli. Per tutti la salvezza non viene da altri alberi se non da quello che lui si è piantato e coltivato in Palestina. In quest’albero è inserito ogni credente, di tutti i tempi e di tutti i luoghi (cf. Rm 11,17s). Luca, attraverso queste figure emblematiche dell’AT – padre e madre vecchi, un figlio “impossibile”, ma donato – introduce il lettore a comprendere le caratteristiche fondamentali dell’azione di Dio nel mondo, come le ha rivelate a Israele. Così anch’egli è in grado di riconoscere e accogliere le modalità del suo intervento nella storia. È una miniatura sapiente, un racconto policromo centrato sul tempio, che fa da sintesi catechetica per comprendere il modulo di fondo della storia della salvezza: è Dio che compie la sua promessa, proprio quando l’uomo la ritiene impossibile. È il nocciolo della fede, che ogni israelita ha succhiato con il latte materno. Il lettore pagano non può ignorare queste cose, perché sono le costanti dell’esperienza di fede nel Dio della storia: come furono indispensabili per Israele, così lo sono anche per il cristiano, se vuol cogliere l’azione di Dio e del suo Cristo.
3. ANNUNCIAZIONE: “AVVENGA A ME SECONDO LA TUA PAROLA”
(1,26-38)
Al mattino, a mezzogiorno e a sera, per tre volte al giorno, suonano le campane. È l’Ave Maria. Il saluto dell’angelo scandisce l’inizio, il centro e la fine del giorno. L’Angelus e l’Ave Maria fanno dell’annunciazione il racconto della Scrittura più noto e ripetuto. La vita cristiana porta nel suo cuore e ha come principio e come fine l’incarnazione del Verbo. Tutta centrata su questo mistero, è una continua attualizzazione “oggi” del “sì” che ha attratto Dio nel mondo.
Maria è figura di ogni credente e della chiesa intera. Ciò che è avvenuto a lei deve accadere a ciascuno e a tutti. Il “sì” dell’uomo che accoglie e genera il Verbo, da cui tutto ha principio, è il fine stesso della creazione. La scena precedente si svolgeva nel tempio; ora nella “casa”, perché Dio ha finalmente trovato la “casa” di cui il tempio è figura.
Il mistero può essere colto sotto vari aspetti, secondo che si consideri Maria come tipo del credente, apice del mondo, resto d’Israele, realizzazione della promessa, ecc. Il modo più adeguato è quello di collocarsi, con un colpo d’ala, dalla parte stessa di Dio. È l’incontro che lui ha cercato da tutta l’eternità, il momento in vista del quale iniziò il tempo, coronamento del suo sogno d’amore, premio del suo lavoro, ricompensa alla sua fatica. Finalmente dalle profondità della sua creazione che si è allontanata da lui, s’innalza un “sì” capace di attirarlo. E lui viene, si unisce e si compromette per sempre.
Quale fu la gioia di Dio nel poter dire a Maria: “Gioisci”. Lo sposo finalmente, dopo tanti drammi, trova la sposa del suo cuore. Prima era triste, ma ora finalmente ha termine la sua sofferenza: è abbracciato da chi ama. La sua offerta trova mani che l’accolgono e le grandi braccia del mondo comprendono, concepiscono e stringono ciò senza cui l’uomo non è uomo. L’Amore è amato: ha trovato una casa dove abitare e la casa dell’uomo non è più deserta. L’incarnazione ha un carattere “passionale”: rivela la passione di Dio. È l’inizio delle nozze tra lui e l’umanità, il principio di un amore che sarà più forte della morte (Ct 8,6).
Il racconto inizia con l’angelo “mandato” (= apostolo) e termina con l’angelo che parte. L’angelo è la presenza di Dio nella sua parola annunciata. La nostra fede nella sua parola accoglie lui stesso e ci unisce a lui: è il natale di Dio sulla terra e dell’uomo nei cieli. La Parola si fa carne in noi, senza lasciarci più e l’angelo può andare ad annunciarla ad altri, fino a quando il mistero compiutosi in Maria sarà compiuto tra tutti gli uomini. La salvezza di ogni uomo è diventare come Maria: dire sì alla proposta d’amore di Dio, dare carne nel suo corpo al suo Verbo eterno, generare nel mondo il Figlio.
4. VISITAZIONE: “E BEATA COLEI CHE HA CREDUTO”
(1,39-45)
Mediante Maria, fattasi obbedienza alla Parola, Dio visita il suo popolo e il suo popolo lo riconosce. Questo riconoscimento è il termine del suo piano, fine della sua fatica (cf. 19,44; 13,34), compimento della storia della salvezza (cf. Rm 11,25-36).
Il mistero della visitazione è l’anticipo di questo avvenimento escatologico, in cui sarà usata misericordia a tutti coloro che erano rinchiusi nella disobbedienza (Rm 11,32). È la gioia finale dell’incontro, tanto ostacolato e tanto sospirato, tra sposo e sposa, di cui parla il Cantico. La visita del Signore è il senso della storia personale e universale. Ma chi sa discernerla?
Elisabetta è gravida di due millenni di attesa, Maria porta in sé l’Eterno atteso. Nel loro incontro è l’abbraccio tra l’Antico e il Nuovo Testamento, tra la promessa e il compimento. Due donne, segno di accoglienza, si salutano. Nella loro reciproca accoglienza è riconosciuto colui che è Accoglienza. L’incontro avviene per iniziativa di colei che è beata poiché ha creduto all’adempimento della parola del Signore: Maria va da Elisabetta, segno che ha dato colui al quale “nulla è impossibile” (1,36s). Il NT va a riconoscere nell’AT il dono precontenuto come promessa dell’impossibile. Solo in questa visita e frequentazione dell’AT il NT capisce la realtà di cui è compimento. Per questo Luca introduce accuratamente il suo lettore di origine pagana nella storia di Israele, della quale offre nei primi capitoli come un riassunto. Al di fuori della promessa dell’AT è impossibile “riconoscere” il dono di Dio che è venuto a visitarci. Solo il Battista è in grado di indicarlo.
Legge e promessa sono come le mani che, attraverso Israele, Dio ha creato perché l’umanità possa tenderle verso di lui e accoglierlo. Un dono che non trova mani per riceverlo e sostenerlo, cade e si perde. Maria, visitando Elisabetta, riconosce la verità di ciò che capita in lei; la chiesa, ricorrendo all’AT, comprende ciò che ha concepito. E in Maria e nella chiesa Israele vede la visita che il Signore gli ha fatto. È un grande mistero, questo riconoscimento: segna il passaggio dalla promessa al compimento, dono della piena conoscenza del Signore.
5. GRANDIFICA L’ANIMA MIA IL SIGNORE
(1,46-56)
Il Magnificat, con il quale la chiesa conclude ogni giorno i vespri, è il canto di coloro che hanno sperimentato oggi la salvezza. È un cantico di lode, sul tipo di quello di Anna (1Sam 2), che vede la realizzazione della promessa. Esprime la beatitudine di chi ha riconosciuto l’azione di dio in suo favore; prorompe dal cuore di chi ha accolto il suo Signore. È un inno personale e insieme universale e cosmico. Maria è la bocca della figlia di Sion, di tutta l’umanità e di tutta la creazione che vede compiersi la promessa di Dio, più grande di ogni fama (Sal 138,2).È il canto nuovo che prorompe dall’uomo nuovo. L’azione di Dio culmina nel canto dell’uomo. Perché canta chi ama e l’amore riposa solo quando è amato. L’arrivo di tutta la storia sarà un canto di gioia senza fine.
Questo canto, anticipato da Maria, è il frutto maturo dell’ascolto di fede, in cui si svela compiutamente il senso della creazione e della storia.
Il Magnificat è un compendio di storia della salvezza, che descrive l’azione di Dio – esatto contrappunto di quella umana – attraverso un centone di citazioni e allusioni bibliche. La prima parte è il rendimento di grazie di Maria per ciò che Dio ha compiuto in lei (vv. 46-50), dandone i motivi (vv. 48-49). La seconda parte estende a tutti gli uomini l’azione che Dio in lei ha compiuto, descritta con sette affermazioni (vv. 51-56).
Il canto di Maria, occasionato dalla beatitudine proclamata da Elisabetta, ha la stessa melodia delle beatitudini (6,20-26).
6. GIOVANNI È IL SUO NOME
(1,57-66)
Il centro del racconto è la questione circa il nome da dare al frutto della promessa fatta a Zaccaria. Il nome indica la persona, il suo unico e irripetibile valore. Uno esiste se e come è chiamato dagli altri: è una relazione, di cui il nome è espressione. Il vero nome dell’uomo è dato solo da Dio. Uno è se stesso nella sua relazione con lui: fatto da lui e per lui, è chiamato da lui con un nome ineffabile di amore, che lo fa esistere come è, a sua immagine e somiglianza. Davanti a lui ha il proprio volto. Alla brezza del giorno Dio scendeva a conversare con Adamo (Gn 3,8). Allora egli era se stesso, senza nascondimenti, paure o maschere, e cresceva nel proprio nome, il “tu” di colui che lo chiama e lo fa esistere come “io”. Ma poi, dopo il peccato, si nascose al proprio nome e al proprio volto. Divenne fuga e paura. Obbedendo alla menzogna del serpente, perse la sua identità e la fece consistere nei suoi terrori. Per questo si dice nell’Apocalisse che al vincitore sarà data “una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi la riceve” (Ap 2,17; cf. 3,12; 19,12; Is 62,2; 65,15; 56,5). Il salvato riceve nuovamente il mistero profondo del proprio io, secondo la sua immagine particolare di Dio.
Al di là di quello singolo, c’è un nome comune, quasi cognome di tutta la famiglia umana. Quello falso è il nostro essere figli del serpente (3,7), disgraziati figli dell’ira (Ef 2,3), generati dalla parola di menzogna cui abbiamo prestato ascolto (cf. Gv 8,43s). In Giovanni invece ci viene presentato il nostro vero cognome: Giovanni significa “dono, grazia e amore di Dio”. Il suo amore che mi fa grazia di tutto è la mia verità e natura di uomo: sono suo dono d’amore. Il primo dono di Dio a me sono io stesso; l’ultimo è lui in persona, che nel suo amore diventa me stesso più di quanto lo sia io. Il grande mistero del mio nome sarà pienamente svelato solo alla fine nelle nozze con Dio. Allora ciascuno riceve quel nome che nessuno ha mai supposto: Dio stesso che si dona e si identifica con lui in Cristo, facendo un’unica carne.
7. BENEDETTO IL SIGNORE…
(1,67-80)
Il Benedictus è, come il Magnificat, un centone di citazioni bibliche esplicite e implicite. Con questo inno Luca ribadisce per il lettore non giudeo la lezione già data nel Magnificat: come leggere la storia con occhi di fede, secondo la promessa fatta ad Abramo (cf. vv. 55.73).
È un canto di benedizione per il passato e di profezia per il futuro. Nella prima parte (vv. 68-75) Zaccaria benedice non per suo figlio, ma per colui davanti al quale egli cammina; ringrazia per il Messia, già donato. Nella seconda (vv. 76-79) profetizza la funzione di suo figlio, che sarà precursore di colui che sorgerà come il sole. È un inno liturgico, che benedice Dio per il suo dono promesso e ora realizzato. Indirettamente mostra il rapporto tra Nuovo e Antico Testamento, come parola di benedizione per il compimento e di profezia per la promessa. Ciò che finora è avvenuto – la nascita di suo figlio e il concepimento di Gesù – è visto nella loro reciproca relazione alla luce di tutta la storia della salvezza. Questi fatti, piccoli e inosservati da tutti, nascondono, per chi sa leggerli nello Spirito, la “visita” di Dio che porta a compimento il suo disegno di amore.
Nella liturgia è il canto che conclude le lodi del mattino. Preghiera del sole che sorge, dà inizio al nuovo giorno, il giorno senza fine, l’oggi della “visita” di Dio (vv. 68.78) che nella sua “misericordia” (vv. 72.78) dona la salvezza (vv. 69.71.77), liberando dalle “mani dei nemici” (vv. 71.79), togliendo i peccati (v. 77) e illuminando le ombre di morte (v. 79), per farci servire a lui in santità e giustizia (vv. 74.75) e camminare nella via della pace (v. 79). Così Dio mantiene la sua promessa (vv. 70.72.73). Hanno parte di spicco la fedeltà di Dio alla sua promessa di salvezza e un invito al lettore a conoscerla meglio per aderirvi sempre di più.
8. LA NASCITA DI GESÙ: “SI COMPIRONO I GIORNI”
(2, 1-7)
“Si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini” (Tt 3,4). In questa scena siamo chiamati a contemplare la filantropia di Dio, fatto per noi carne in suo Figlio. La scena di un Dio che si è fatto piccolo e indifeso, per essere accolto dalle nostre mani, è un preludio già della croce. La sua nascita rivela un carattere “passionale”; manifesta la sua passione per l’uomo, la sua simpatia estrema per lui, che l’ha spinto a condividere la sua condizione. Il problema della fede cristiana è accogliere la carne di Dio che si è fatto solidale con la nostra debolezza: “Ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio” (1Gv 4,2). Essa ci rivela quel Dio che nessuno mai ha visto (Gv 1,18). La scena, compimento dell’annunciazione, è costruita come un contrappunto tra la potenza umana che si autoesalta, si dilata e si consuma in un censimento mondiale, il primo della storia, e l’impotenza di Dio che si umilia, si restringe e si concentra in un bambino.
Se il Figlio di Dio fosse venuto con potenza, nel fulgore della sua gloria, certamente non si sarebbe esposto al rifiuto. Tutti l’avremmo accolto e necessariamente. Ma non sarebbe stato Dio, bensì un idolo.
Si ritiene che Dio, mistero tremendum et alliciens, sia di “grandezza enorme” “splendore straordinario” e “terribile aspetto” (Dn 2,31). Queste per sé sono le caratteristiche dell’idolo, comuni a tutte le religioni. Dio sta piuttosto dalla parte del sassolino che abbatte l’idolo (Dn 2,34). Il segno per riconoscerlo sarà diverso (v. 12): la sua grandezza enorme sarà quella del piccolo, il suo splendore affascinante quello del bimbo fasciato, il suo aspetto tremendo quello di un corpo tremante nella mangiatoia.
S. Ignazio pone il criterio discriminante della fede nei due vessilli: il vessillo del nostro re è “povertà, umiliazione e umiltà” (cf. il Magnificat). Quello della “ricchezza, vanagloria e superbia” è di satana. Questa prima presentazione che Luca fa di Gesù, che ha colpito tanto s.Francesco, è normativa per la nostra fede: è la porta d’ingresso per entrare nella casa dove lui abita e poterlo conoscere.
Certamente un Dio piccolo si espone al rifiuto. È la vulnerabilità dell’amore, che non può non rispettare la libertà. Ma a quanti lo accolgono così com’è, dà il “potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12).
9. FU PARTORITO OGGI PER VOI UN SALVATORE
(2,8-20)
Il centro dei primi due capitoli è la conoscenza “tattile” di Dio che ha Maria nel generare, fasciare e deporre il suo figlio primogenito nella mangiatoia. La scena ci è data da contemplare ripetutamente per tre volte di fila, con le stesse parole: il fatto storico, unico, accaduto duemila anni fa, è prima narrato (vv. 6-7), poi annunciato come “segno” (v. 12) da leggere che dà significato a tutta la storia (v. 11-12), e infine verificato dai pastori (v. 16). Attraverso il racconto che per prima Maria ha fatto e che Luca – pastore diventato a sua volta annunciatore – ha trasmesso a noi, anche noi siamo chiamati a contemplare e toccare con lei lo stesso Verbo della vita. Così, come i primi pastori, diventiamo a nostra volta annunciatori della Parola: “Fu partorito per voi oggi un salvatore che è il Cristo Signore”. Lo stesso annuncio, di bocca in bocca, attraverso i pastori diventati evangelisti, trasmette a noi il compimento della promessa di Dio. Nell’obbedienza di fede a questo annuncio, veniamo condotti anche noi alla salvezza. L’oggi della nascita del Salvatore si realizza ovunque è annunciato e creduto, come presso i pastori che si mettono in cammino per andarlo a vedere. Dopo le parole dell’angelo, si apre il cielo e gli uomini possono assistere alla liturgia celeste che si svolge sopra questo bambino. A questa liturgia celeste, dischiusa dall’annuncio che ne dà l’interpretazione, corrisponde una liturgia terrestre, di povera gente obbediente alla Parola che corre a vedere un povero bambino, del quale crede “ciò che il Signore ha notificato” (v. 15). Essi, dopo aver sperimentato ciò che è stato loro detto (vv. 17-20), a loro volta lo annunciano (vv. 17-18). In questi pastori, primi ascoltatori che a loro volta si fanno annunciatori, si profila la chiesa. Essa nasce dall’annuncio, ne verifica l’oggi di salvezza e la ritrasmette agli altri con l’annunzio. È una chiesa di poveri e ultimi, come l’annunciato stesso. In forza della fede, essa riconosce, annuncia, glorifica e loda Dio che si è rivelato nell’impotenza di Gesù.
10. ORA SCIOGLI…
(2,21-38)
Dopo la presentazione del pastore ai pastori, del Salvatore, Cristo e Signore agli umili, c’è quella ufficiale di Gesù al popolo cui fu data la legge (vv. 22.23.24.27.39), il tempio (vv. 22.27.37) e la profezia (vv. 25.26.27.28.34). Il tempo che intercorre tra l’annuncio a Zaccaria e la presentazione al tempio è di 490 giorni, 70 settimane. Si compie il tempo predetto da Daniele, che segna il passaggio dalla promessa-attesa alla realizzazione-compimento (Dn 9,24).
Legge, tempio e profezia sono le tre figure di colui che doveva venire. Egli è Parola fatta carne, Gloria di Dio e suo stesso volto. La sua prima venuta a Gerusalemme segna la soglia del passaggio dall’economia dell’attesa a quella del compimento. Termina il corso della notte, trepida attesa del giorno, e comincia il corso del sole.
L’umile entrata di Gesù al tempio, che compie la parola della legge, è da ricollegare alla terribile visione di Ml 3 sulla visita definitiva del Signore e del suo giudizio. Ora possiamo chiamare per nome il Nome (v. 21), in colui che compie la legge (vv. 22-24): nella forza dello Spirito, Simeone riconosce il Signore e profetizza, dopo aver cantato la gioia dell’attesa compiuta. Ora, Simeone, figura dell’AT e di ogni uomo, può morire in pace. La paura della morte è vinta, perché c’è la memoria di un Dio bambino che morirà. La memoria mortis non fa più paura e si trasforma in una ars vivendi nella pace, perché finalmente è possibile trovare Dio nel proprio limite (vv. 25-35). C’è infine il riconoscimento da parte di Anna, la vedova che trova lo sposo di Israele (vv. 36-38).
11. NELLE COSE DEL PADRE MIO BISOGNA CHE IO SIA
(2,39-52)
Con la presentazione dell’atteso a Israele, destinato a presentarlo a tutti i popoli, Luca termina d’introdurre il lettore nell’AT. Anche lui ora è in grado di accogliere, vedere, abbracciare e lodare Dio, identificandosi con le figure di Maria, dei pastori, di Simeone e di Anna.
Di Gesù sappiamo già che è il Figlio di Dio (1,32-35), Figlio dell’Altissimo (1,32), salvatore (v. 11), Cristo Signore (v. 11), luce delle genti e gloria di Israele (v. 32), il contraddetto e la spada (vv. 34.35), la consolazione e la redenzione di Israele (vv. 25.38). Ora si racconta come tutto ciò si rivelerà nel corso della sua vita narrata nel seguito del Vangelo. Essa si svolgerà come un pellegrinaggio a Gerusalemme, dove la sua “sapienza” lo porta e lo trattiene necessariamente, per essere Figlio in obbedienza al Padre. Il racconto anticipa il “viaggio pasquale” di Gesù. Luca, dopo aver delineato la preistoria attraverso le linee portanti della promessa, traccia con vigorosa prospettiva un disegno del suo futuro, rivelandoci la follia della sua sapienza, che lo porterà all’impotenza che ci salva. I tre giorni di smarrimento a Gerusalemme sono il preludio della sua morte e risurrezione.
A questa rivelazione folgorante del mistero di Gesù nel tempio, fa da cornice il mistero della sua vita umile e quotidiana di Nazaret, sua scuola di sapienza. Il tema dominante è la sapienza, nominata all’inizio e alla fine (vv. 40.52) e descritta nel mezzo (vv. 46.47): è la sapienza del Figlio, opposta a quella di Adamo e che consiste nell’obbedienza al Padre (v. 49). Lo intratterrà tre giorni a Gerusalemme, per rispondere alle Scritture. Il mistero di Gerusalemme è racchiuso in quello di Nazareth, come senso nascosto e cuore di ogni quotidianità.
Estratti da:
Silvano Fausti, “Una Comunità legge il Vangelo di Luca”
Edizioni Dehoniane Bologna 1991