Lectio divina sul Vangelo di Luca
Silvano Fausti
Capitoli 11-12
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Testo doc Lectio Luca Cap 11-12 Fausti (7)
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68. PADRE
(11,1-4)
La missione del samaritano sarà compiuta solo quando tutti gli uomini diranno “Abbà”. Questa è la parola che ci genera nella nostra verità di figli. Gesù è venuto a insegnarcela, se lo ascoltiamo come Maria. Dopo averci svelato il suo mistero di Figlio e di fratello, con questa preghiera ci fa entrare nella paternità di Dio: in essa desideriamo quanto ci occorre per viverla. È quanto lui stesso ci dona nell’eucaristia, in cui offre se stesso come nostro cibo.
Solo alla fine cesserà la preghiera di richiesta del pane (vv. 3.5-8) e dello Spirito (vv. 9-13) perché avremo la sua pienezza di vita. Allora esulteremo con lui nello Spirito. Questa danza di amore è il fine di tutta la creazione, delle sue sofferenze e delle sue doglie (Rm 8,19-23). È il suo fine perché è la sorgente da cui è scaturita.
Questa preghiera è un dialogo diretto tra un “tu”, che è il Padre, e un “noi”, che è il vero io, in quanto in comunione con il Figlio e con i fratelli. In Gesù posso riprendere a rispondere “tu” al Padre che nel suo infinito amore da sempre mi ha rivolto la sua parola. In questo “tu” che rivolgo al Padre, nella solidarietà con me del suo Figlio, ritrovo :anche il “noi” dei fratelli. La scoperta della paternità fonda e costruisce la fraternità.
Senza il “tu” non c’è preghiera. E non c’è neanche l’uomo, che è o fuga da sé o risposta al “tu” che Dio gli rivolge.
Ma anche senza il “noi” non c’è preghiera, perché non si può stare davanti al Padre separati dal Figlio e dai fratelli. Sarebbe negare la sua paternità, proprio mentre lo chiamiamo: “Padre”. Per questo, se non amo e perdono i fratelli, non amo il Padre: non ho accettato il suo amore e il suo perdono nel Figlio.
Pregare in spirito di verità questa preghiera, è già l’esaudimento stesso di ogni preghiera. Infatti, chiamando Dio col nome di Padre, ne accettiamo la paternità e gli chiediamo quel pane che è sempre necessario ogni giorno: il suo amore e il suo perdono, per amare e perdonare i fratelli.
Ciò che chiediamo nel Padre nostro è già tutto realizzato e donato a noi nel Figlio: la santificazione del Nome, il regno, il pane, il perdono e la forza della fiducia. Chiedendolo, apriamo la mano per riceverlo. È la miglior preghiera che possiamo fare sia per noi che per i fratelli; chiediamo quei doni che il Padre vuol fare a tutti nel Figlio.
69. PER LA SUA SFACCIATAGGINE DARÀ A LUI QUANTO ABBISOGNA
(11,5-8)
Questa parabola è un commento al v. 3: “Dacci oggi il nostro pane di domani”. Ci esorta a una preghiera sostenuta da una fede “sfacciata” nell’amico che dorme. L’inizio e la fine parlano di tre pani di cui abbiamo bisogno – dono dell’amico “sorto” e “destatosi” – da donare all’amico in cammino nella notte. Si tratta dell’eucaristia, che mette lui in comunione di vita con noi e noi con chi ancora viaggia nelle tenebre. Così circola in tutti i fratelli la stessa vita del Figlio, donata a noi dal Signore morto e risorto. Associati a lui che si prende cura di noi, anche noi possiamo prenderci cura degli altri, nei quali vediamo lui caricato dei nostri mali. Come nessuno ama se non è amato, così nessuno, se accetta di essere amato, non ama. L’amore vive in pienezza solo se è insieme accolto e corrisposto. Ricevendo da lui il pane, che è la sua vita data per noi, siamo in grado di amare come lui ci ha amati. E amiamo con un unico atto Dio, che per amore si è fatto nostro fratello nel bisogno, e il fratello nel bisogno, amando il quale veniamo fatti Dio (cf. 6,36). Veramente prodigioso questo pane: fa circolare nel mondo l’unica vita del Figlio e porta tutti all’unità!
L’eucaristia realmente ci trasforma in lui. Essa è l’esaudimento pieno della preghiera al Padre: riceviamo quel pane che ci permette di gridare “Abbà”, e accogliamo ciò che lui da sempre desidera darci, suo Figlio come nostra vita.
Ma il dono eucaristico esige una fede “sfacciata”, davanti alla porta chiusa, capace di varcare la soglia della casa del Padre ed entrare nel riposo dei figli. La sfacciataggine consiste nel credere che il sonno dell’amico è il luogo stesso in cui siamo esauditi: la sua morte è il dono della sua vita, fatta per noi pane di domani. Proprio quando sembra sottrarsi a noi, si dona tutto a noi (cf. il suo sonno sulla barca 8,22-25!), affinché noi possiamo diventare, come lui, pane per chiunque è in viaggio. Siccome noi abbiamo perso il nostro volto di figli, anche Dio ha perso il suo volto, che è il Figlio (cf. Col 1,15; Eb 1,3), per venirci a cercare. Questo suo amore è colto solo da una fede che non viene meno neanche davanti alla croce. Anzi, come uno dei due malfattori, ha l’audacia di riconoscerlo proprio in essa (23,40-43).
L’eucaristia, celebrata con fede sicura nel sonno dell’amico che si risveglia, è la preghiera dove otteniamo quel pane che chiediamo al Padre per donarlo ai fratelli. Questo pane, sfacciataggine somma dell’amore di Dio per noi, trasfigura il nostro volto in quello del Figlio, che tutto riceve e tutto dà, e ama pienamente come pienamente è amato.
Questa parabola risponde anche a un interrogativo che sorge comunemente in chi prega: se Dio ci vuol bene, e parliamo a lui come l’amico parla con l’amico (Es 33,11), perché ci sembra di trovarci davanti a un nemico, restio a dare? La preghiera è il luogo dove percepiamo per la prima volta la realtà del peccato: la nostra lontananza e ostilità nei confronti di Dio, che proiettiamo su di lui. Per scoprire il suo vero volto sarà necessario vederlo sfigurato per noi mentre porta su di sé la nostra inimicizia (cf. Is 53,4). Il suo silenzio sordo e ostile ha un significato profondo di salvezza: esige una fede senza limiti nel suo amore senza limiti, una fede sfacciata nel suo amore sfacciato che lo porta a fare del suo sonno il luogo in cui si dona a noi. Nel suo silenzio ci affidiamo a lui, senz’altra prova che la fiducia in lui che si è consegnato a noi. Proprio così vinciamo la menzogna antica che ci fece vedere in Dio un nemico, e ci abbandoniamo a colui che abbiamo abbandonato. Torniamo a essere figli!
70. CHIEDETE: IL PADRE DAL CIELO DARÀ LO SPIRITO SANTO
(11,9-13)
La presente parabola è caratterizzata da nove parole che indicano il desiderio (cinque volte “chiedere” più due volte ciascuno “cercare” e “bussare”) e da undici che indicano il dono (sei volte “dare”, più due volte ciascuna “trovare” ed “essere aperto”, più una volta “prendere”). Il desiderio rappresenta la creatura, in quanto bisogno; il dono Dio, in quanto creatore. Il desiderio di Dio è il più grande dono fatto all’uomo: lo costituisce tale, libero da tutto perché fatto per l’infinito. Solo Dio può colmare il suo cuore. Egli ci dà “molto di più di quanto possiamo domandare o pensare” (Ef 3,20): essendo amore infinito, desidera dare tutto se stesso; non si nega a nessuno e si comunica a ciascuno secondo il suo desiderio. Questa è l’unica misura del dono. E il suo dono è lo Spirito santo, Dio stesso come amore mutuo Padre/Figlio.
Il pane notturno dei vv. 5-8 ci fa entrare col Figlio sempre più profondamente nell’amore del Padre e ce lo fa invocare con sempre maggior fiducia e abbandono. Il suo nome è la medicina che ci guarisce il cuore dallo spirito muto (v. 14): ogni volta che lo invochiamo, la nostra bocca ne sorbisce una goccia.
Anche il Padre, come l’amico, sembra restio a dare. Pare che doni addirittura cose cattive: pietra, serpente, scorpione. Non ha forse dato il sonno della morte anche al Figlio? Ma questo è il mistero del pane, che è la sua vita per noi!
Il tema dominante è la paternità di Dio, che si esprime nel “dare”. Ma per questo bisogna chiedere. Non perché lui ignori o trascuri il nostro bisogno, ma perché il dono può essere ricevuto solo da chi lo desidera. Se lui tarda nel dare, è solo perché il desiderio cresca; non esaudisce perché la dilazione lo dilati; non dà ciò che chiediamo, perché lo purifichiamo e chiediamo non più un dono, ma lui in dono. L’aridità nella preghiera serve a rendere puro il desiderio e a romperne ogni argine, perché diventi capace di ricevere, oltre ogni dono, il Donatore stesso che desidera donarsi.
La pedagogia del Padre ci fa passare dai bisogni che abbiamo al bisogno che siamo. Se abbiamo bisogno dei suoi doni, siamo soprattutto bisognosi di lui. Dalla ricerca delle consolazioni del Padre, dobbiamo passare a cercare il Padre delle consolazioni. Quando non cercheremo più noi stessi in lui, troveremo lui stesso in noi. Saremo figli che amano e conoscono il Padre come da lui sono amati e conosciuti.
Questo brano ci esorta ai grandi desideri, che ci fanno capaci del grande Dono. Bisogna avere ali di aquila ed eccedere ogni misura umana, fino a puntare su Dio stesso. Dobbiamo desiderare lui stesso, per essere ciò che siamo e non possiamo essere senza di lui. Oggi c’è una falsa umiltà, con modelli a basso profilo e costi non elevati, in modo da evitare illusioni e delusioni. Ma in realtà è superbia, che ci suggerisce di aspirare solo a ciò che è possibile a noi. L’umiltà vera si eleva fino a concepire l’inconcepibile, e accoglie il dono impossibile di Dio. Per questo la “tapinità” assoluta di Maria attrasse l’altissimo sulla terra e generò Dio stesso. Il desiderio è sempre di ciò che manca: è necessariamente dell’altro, e solo l’altro può soddisfarlo.
Queste parole di Gesù ci esortano a chiedere, per ricevere ciò che lui già ci ha dato nel pane: lo Spirito santo. È il nuovo principio vitale, che ci fa entrare nel “sì” eterno del Figlio alla compiacenza del Padre. Ma su questa terra non deve mai cessare la nostra preghiera di richiesta, per partecipare in misura sempre maggiore alla gioia di Dio.
71. GIUNSE SU DI VOI IL REGNO DI DIO
(11,14-26)
Nella preghiera al Padre domandiamo quel pane di domani, dono dell’amico che già riposa, da dare all’amico ancora in viaggio (vv. 3.5-8): è l’eucaristia, amore ricevuto che ci abilita ad amare. In essa, preghiera infallibilmente esaudita, otteniamo lo Spirito santo (vv. 9-13), che ci libera dallo spirito muto (v. 14; cf. Mc 9,29!) e ci fa dire: “Padre”. Siamo così pienamente guariti dalla sordità a quella parola che costituisce la nostra verità di figli nel Figlio.
Questa guarigione santifica il suo nome di Padre: finalmente lo riconosciamo e proclamiamo tale. Inizia così il suo Regno, che viene sulla terra quando la nostra lingua è in grado di sciogliersi nella lode del suo nome. Il pane, che fa circolare in noi la vita del Figlio, ci autorizza a dire questa parola che fa di noi il regno dei figli.
Per il dono dell’eucaristia, al dominio dello spirito impuro succede quello dello Spirito di Dio. Essa apre l’amore del Padre e del Figlio a tutti i fratelli e libera in tutti i cuori la parola del Regno (vv. 15-22). È il compimento della missione di Gesù. Il suo passaggio tra noi è tutto un’opera del “dito di Dio” per salvare l’uomo e condurlo a questa comunione di vita con lui. Il Figlio è “il più forte”, che ci strappa dalle mani del nemico e ci restituisce al Padre. Per questo “essere con lui” è raccogliere i frutti della vita, “essere contro di lui” è perdersi (v. 23). Stare “con lui” è la decisione che ci salva perché ci rende figli: ci dà la nostra essenza.
Finché viviamo nel tempo, tale decisione è sempre instabile e insidiata dal nemico (vv. 24-26). È vero che con il pane e lo Spirito è venuto in noi il Regno; però “chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere” (1Cor 10,12). L’ultima domanda che facciamo al Padre è che ci preservi dal cadere nella tentazione (v. 4b), e che continui a liberarci dal male e dal maligno (Mt 6,13). Le ostilità non sono ancora finite. La lotta che il Figlio condusse contro Satana nel deserto, ora continua nei figli che sono condotti dallo stesso Spirito (4,1; cf. Rm 8,14). La sua forza fu lo Spirito del Padre che lo chiamò: “Figlio mio prediletto” (3,22); la nostra forza è lo stesso Spirito del Figlio, ricevuto nel battesimo, che ci fa gridare: “Abbà” (Rm 8,14ss; Gal 4,4ss). E come lui alla fine del cammino si consegnò al Padre (23,46), così il fine della nostra vita è ricondurla tutta all’abbandono filiale in lui.
Per questo il centro è il v. 23: essere con Gesù significa essere nel Regno, avere lo Spirito del Figlio; essere contro di lui significa esserne fuori, ancora schiavi dello spirito muto che ci impedisce la parola che ci fa liberi. Il seguito del Vangelo è un’opera di discernimento per distinguere i due spiriti, contro ogni tentativo di confusione.
72. BEATI QUANTI ASCOLTANO LA PAROLA DI DIO E CUSTODISCONO
(11,27-28)
Le folle erano piene di stupore per la parola restituita al muto (v. 14). Una donna è presa da stupore per chi ha generato colui che restituisce la parola, e proclama beata sua madre. Gesù estende tale beatitudine a chiunque lo ascolta.
Come da seminatore divenne il seme (8,11), così ora Gesù che annuncia la Parola diviene la Parola che lo annuncia. Si passa dal tempo di Gesù a quello della chiesa. Essa, nell’ascolto e nella custodia della Parola, si fa contemporanea a lui, attuale all’oggi del Figlio che realizza il regno del Padre. È come Maria, figlia fedele di Sion, che genera nel tempo la parola eterna del Padre da cui è generata come figlia.
Gesù è il centro del tempo. Come nel passato i profeti e i re desideravano lui che doveva venire, così nel futuro tutti i credenti desidereranno lui che è venuto. Egli è la realtà prima attesa e poi compiuta, la realizzazione della Parola che da profezia si è fatta ricordo e racconto.
Gesù è il verbo eterno di Dio, promesso nell’Antico e trasmesso nel Nuovo Testamento. Tutto il passato sboccia in lui, germoglio del tronco antico; tutto il futuro matura in lui, suo frutto pieno. In lui il regno del Padre è aperto a tutti, perché egli fa fiorire sulla bocca di tutti la parola “Abbà”.
Quanto i suoi contemporanei ebbero il privilegio di vedere e di udire, resta ancora a noi accessibile nella parola su di lui. Non siamo svantaggiati nei loro confronti. Infatti, “anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così” (2Cor 5,16). La nuova e vera conoscenza di Gesù è l’ascolto della sua parola.
In questo breve dialogo ci viene indicato il passaggio che la fede deve operare in ciascuno di noi. La donna, invece di invidiare Maria, è chiamata a imitarla: la sua vera realtà di madre di Dio è ascoltare e custodire la Parola (cf. “ascoltare” e “fare” di 8,21).
La generazione del Figlio, che è dall’eternità nell’amore del Padre, avviene nel tempo nell’obbedienza di chi ne ascolta e custodisce la Parola. Questi, mentre genera il Figlio nel tempo, è generato all’eternità come figlio del Padre. L’uomo infatti è generato dalla parola che ascolta, fatto dalla Parola che fa.
Il Verbo, fatto carne in Gesù, è tornato ad essere Parola per farsi carne in chi l’ascolta. Il pane e lo Spirito (vv. 5-13) ce ne danno la possibilità.
73. IL SEGNO DI GIONA
(11,29-32)
Non dobbiamo avere invidia della generazione dei contemporanei di Gesù. Pur avendo visto, non ne hanno ascoltato la parola; invece di dare segno di obbedienza, hanno addirittura preteso che lui obbedisse loro, esibendosi con ulteriori segni. Egli rifiuta di darne, perché egli stesso è un segno come lo fu Giona: segno della misericordia di Dio per tutti, tanto efficace che perfino i niniviti si convertirono al suo annuncio.
Quanto Gesù ha detto e fatto costituisce l’anno di grazia e la salvezza offerta a ogni carne (3,6). La sua parola pone chi l’ascolta davanti al Salvatore. Invece di chiedergli segni, bisogna convertirsi al kerygma, cioè all’annuncio della sua morte e risurrezione per noi. Nessun segno sostituisce la fede; tutti portano ad essa, e in essa, in qualche modo, finiscono. Quando ci fidiamo di Dio, non gli chiediamo più delle prove; cominciamo invece a dargli fiducia. Il vero segno della fede è quindi la nostra conversione alla sua parola. Quanto Gesù ha fatto è sufficiente per credere che con lui è finito il regno di Satana e iniziato quello di Dio. La Parola che lo annuncia nella potenza dello Spirito (At 1,8), è capace di aprire il cuore (At 16,14b) e riempirlo della nuova sapienza, quella del Figlio rivelata ai piccoli (10,21). Nel brano seguente (vv. 33-36) vedremo come essa è luce che illumina chi l’ascolta e lascia nelle tenebre chi la rifiuta. Dio concede come segno definitivo l’annuncio della sua misericordia. Così rispetta sia la libertà dell’uomo, che può aderire o meno alla proposta, sia la propria verità di amore, che non può non rispettarla. Altri segni di tipo spettacolare, che costringono all’assenso, sono rifiutati come tentazioni. L’amore esige, anzi crea libertà! Chi ama è sempre esposto al rifiuto: pur di non costringere l’altro, muore lui stesso di passione non corrisposta. Ma proprio così dà, oltre ogni segno, la realtà di un amore assoluto e senza condizioni. La Parola, che ci chiama alla conversione, è l’annuncio di questo amore rifiutato e crocifisso per noi.
Dio non ci può dare nessun segno più grande di questo. Pretenderne altri, è non aver capito chi è lui e cos’è la fede. Dio è amore, e la fede è accettare questa sua prova di amore. La vera sapienza è convertirsi all’annuncio. Non ci sono altri segni di sapienza e di potenza (1Cor 1,17-25). Chiave del brano è la parola “segno”, che gioca un ruolo determinante nel rapporto con Dio, come in ogni comunicazione. L’importante è saperlo leggere e cogliere la realtà che significa.
74. DISCERNI CHE LA TUA LUCE NON SIA TENEBRA
(11,33-36)
Gesù ha appena detto che l’unico segno concesso è quello di Giona ai niniviti: l’annuncio e la conversione alla misericordia di Dio. Ora parla per ben undici volte della luce, con termini diversi (lampada, lampadario, luce, luminoso, fulgore, illuminare). Chi si converte passa dalle tenebre alla luce; diviene lui stesso una lampada accesa, destinata a illuminare anche gli altri (v. 33; cf. 8,16; At 1,8). Ognuno però veda innanzitutto se è acceso o spento (v. 34), e poi discerna bene tra luce e luce – perché c’è anche una luce tenebrosa (v. 35)! – fino a quando tutto sarà trasfigurato in luce (v. 36). La luce in Israele è sia Dio che la sua parola come norma di vita. Ora è Gesù stesso, il Signore morto e risorto. L’uomo accende la sua lucerna convertendosi al suo annuncio.
Gesù nega segni a chi li richiede (v. 29), ma ne dà uno nuovo a chi si converte: è l’illuminazione concessa a chi si riconosce cieco e bisognoso di essere guarito. In altre parole: l’unica bontà necessaria per convertirsi è la propria cattiveria ammessa con semplicità di cuore. Il fariseo, che si ritiene giusto e non sente il bisogno di conversione, si esclude dal banchetto (15,28) e resta nella notte del peccato (18,14; 7,29-35). Il peccatore, che riconosce la sua tenebra e chiede la misericordia, entra nella luce. Gesù infatti è venuto proprio per “chiamare i peccatori a conversione” (5,32; 19,10). Una caratteristica del Gesù di Luca è quella di voler persuadere i giusti a riconoscersi peccatori, in modo da poter essere salvati (vedi 15,25-32: il fratello maggiore; 18,9-14: il fariseo e il pubblicano).
Le tematiche di questo brano sono due, strettamente connesse. La prima è missionaria (v. 33): il discepolo non dimentichi la responsabilità di illuminare anche gli altri che “entrano” nella casa del Padre. La seconda è esortativa (vv. 34-36): per illuminare bisogna essere illuminati. Si è quindi chiamati a discernere bene la luce dalle tenebre, in un processo di purificazione continua.
Sembra che l’intento del brano sia analogo a quello di Gv 9,41: scoprirsi ciechi per invocare la guarigione, riconoscersi cattivi per convertirsi. Paradossalmente, per essere “luminosi” bisogna riconoscersi tenebrosi. Diversamente si rimane ciechi che credono di vedere e rifiutano la luce.
Questa conversione al kerygma è il segno indubitabile che Gesù concede ai credenti: divenuti luminosi, sono in grado di vedere segni che prima non vedevano e di diventare segno per gli altri.
75. AHIMÈ PER VOI! SARA CHIESTO CONTO A QUESTA GENERAZIONE
(11,37-54)
Nei vv. 29-32, a chi domanda dei segni per credere in lui, Gesù dichiara che bisogna convertirsi all’annuncio di chi è ben più di Salomone e di Giona. Nei vv. 33-36, al discepolo che continua la sua missione annunciando ad altri la salvezza, ribadisce che innanzitutto deve essere lui stesso convertito dalla Parola. Nel v. 35 gli dice in particolare di saper ben discernere tra la luce luminosa e la luce tenebrosa. Mentre la luce luminosa viene dalla conversione alla parola del Signore, vera giustizia e vera sapienza, quella tenebrosa è la falsa giustizia del fariseo (vv. 37-44) e la falsa sapienza del legista (vv. 45-54). Il problema della giustizia della Legge in rapporto al vangelo di misericordia è presente nella chiesa fin dall’inizio, e si acutizza proprio nel momento della missione al mondo. Non a caso il brano inizia con “entrare” (v. 37) e termina con “uscire” (v. 53), le due parole che Gesù usa nel suo duplice discorso missionario per indicare il cammino degli apostoli e dei Settantadue (9,43; 10,8.10).
I farisei e i legisti di sempre, credenti o atei (oggi ne esistono anche di atei!), identificano la salvezza con la propria giustizia e la propria legge. Questo problema è preso di mira in modo particolare da Paolo dopo la sua conversione. Vedi le lettere ai Galati, ai Romani e Fil 3,1ss. Negli Atti degli apostoli se ne tratta dal c. 9 fino al c. 15. Alla giustizia, impossibile da ottenere mediante la Legge, è subentrata la giustificazione mediante la misericordia di Dio nella croce di Gesù (Fil 3,9).
Così, mentre i farisei e i legisti trasgrediscono la volontà salvifica di Dio su di loro, i pubblicani e i peccatori sono i figli della sapienza, perché riconoscono e accettano la misericordia di Dio.
Il brano contiene sei “ahimè!”, tre per i farisei e tre per i legisti. Non c’è il settimo, perché i sei precedenti dovrebbero bastare per convertire tutti, in modo che, al suo posto, ci sia la beatitudine di colui al quale è perdonato il peccato (Sal 32,1ss), perché ha creduto alla Parola (1,45). È la beatitudine di Saulo, fariseo e legista: guarito dalla cecità, diventa maestro dell’agápé, e accoglie tutti come il suo Signore (At 28,30). Anche i giusti e i sapienti sono chiamati alla luce della verità comunicata agli infanti. Dio vuole salvare proprio tutti i suoi figli!
Per i farisei ci vuole molta compassione, perché sono vittime della falsa sapienza. Dopo la menzogna del peccato originale, essa è diffusa quanto l’ignoranza di Dio: abita ogni uomo e sta all’origine di tutti i mali.
Nella tradizione orientale la preghiera per ottenere l’illuminazione suona così: “Gesù, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”. Combinazione della richiesta del cieco con quella del pubblicano (18,13.38), è l’invocazione che illumina le tenebre, perché convince la giustizia di peccato e la sapienza di cecità.
Luca ci tiene molto a smascherare il fariseo che si annida nel credente, perché non decada dalla grazia del battesimo. Si rivolge infatti a “Teofilo”, perché non dimentichi, anzi si consolidi nella dottrina del Salvatore.
76. GUARDATEVI DAL LIEVITO DEI FARISEI
(12,1-12)
Da 12,1 a 13,20 c’è una forma di inclusione: il “lievito” dei farisei e il “lievito” del Regno. Il discepolo è chiamato a discernere il fermento che muove la sua vita: è la paura della morte, che porta all’ipocrisia e all’accumulo dei beni, o il timore di Dio, che porta alla verità e alla libertà nella misericordia? Il primo è il regno della morte, il secondo è il regno di Dio, la cui venuta chiediamo al Padre (11,2).
Il c. 11 distingueva lo spirito del Figlio da quello muto, la luce dalle tenebre. I cc. 12 e 13 applicano questo discernimento rispettivamente all’uso dei beni e alla comprensione della storia, in relazione alle cose stabili e al tempo che fluisce. Si tratta di una teologia del mondo e della storia.
In particolare nel c. 12 Gesù si rivolge alternativamente ai discepoli e alle folle. Dietro le folle è da vedere la schiera dei futuri discepoli, sempre aperta a tutti gli uomini ai quali bisogna annunciare la volontà di Dio. Si può quindi dire che il capitolo è destinato a tutti gli uomini di tutti i tempi, chiamati a vivere da figli di Dio. Gesù smaschera l’atteggiamento del mondo e dice per contrappunto quello del discepolo. Esso deve testimoniare con coraggio il suo Signore (vv. 1-12), libero dalle preoccupazioni e dagli affanni (vv. 13-34), in attesa vigile del suo ritorno (vv. 3559). L’attesa escatologica è il motivo del suo coraggio e della sua libertà, il fine che muove il cammino fin dal principio. Forza per superare le difficoltà, le contraddizioni e la morte stessa, essa dà il tono spirituale necessario per la lotta.
Il brano presente si articola in tre parti: il discepolo deve guardarsi dall’ipocrisia (vv. 1-3), non temere gli uomini, ma temere il Signore (vv. 4-7), testimoniandolo nell’attesa fiduciosa che si manifesti il suo giudizio (vv. 8-12).
Mentre il movente segreto del pensare, del dire e dell’agire umano è la paura della morte, il discepolo è spinto dal pensiero di un Dio che per lui è morto in croce. Così vince il giudizio pervertito del mondo e tiene conto del vero “giudizio” di Dio, che ama l’uomo e gli dona il suo regno.
77. LA SUA VITA NON È DALLE COSE CHE HA
(12,13-21)
Questa parabola descrive l’uomo che fa consistere la propria sicurezza nell’accumulo dei beni. È il contrario del discepolo la cui sicurezza è nell’amore del Padre e dei fratelli (vv. 22-34). La nostra vita non sta nei beni, ma in colui che li dona. La sapienza di Dio ha previsto che la soddisfazione dei bisogni che abbiamo, diventi strumento per colmare il bisogno che siamo: la comunione con il Padre che dona e con i fratelli con cui condividiamo. Questo è il regno dei figli, il nostro vero tesoro (vv. 33s).
A questa parabola del “possidente stolto”, simile al ricco “epulone” (16,19ss), farà da contrappunto quella dell’“amministratore saggio” (16,1ss). Luca tratta spesso dei beni materiali come dono del Padre, che tale deve restare nella condivisione coi fratelli. Questa lezione è fondamentale già per Israele; ogni volta che se ne dimentica, il giardino torna di nuovo deserto!
L’“economo saggio”, che vede esaurirsi i suoi beni, si fa la stessa domanda del possidente che li vede crescere: “che farò?” (v. 17; 16,3). Ma mentre il primo sa “cosa fare” (16,4), il secondo lo ignora. “L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono” (Sal 49,13.21; cf. Sal 73). L’economo sa che è amministratore e non possidente: i beni non sono suoi, e per di più vengono meno. La penuria lo fa rinsavire; e, invece di accumulare, comincia a donare ciò che in fondo non è suo. È lodato dal Signore, perché usa dei beni secondo la loro vera natura.
Si è ricchi solo di ciò che si dà. Dio infatti è tutto perché dà tutto. Il “possidente stolto” invece, che vuol possedere sempre di più, fino ad avere tutto, è sempre di meno, fino ad essere nulla. Si chiude in un egoismo insaziabile che lo fa morire come uomo.
In questa parabola si prende di mira l’atteggiamento istintivo dell’uomo, che non conosce più la paternità di Dio. Mosso dalla paura della morte, la prima cosa che fa per salvarsi è garantirsi la soddisfazione dei bisogni primari e far dipendere la vita da ciò che ha, invece che da ciò che è. È figlio di Dio e non deve sostituire il Padre con le cose che gli dà.
È meglio dare in elemosina che mettere da parte oro (Tb 12,8). Questa ci dà il nostro vero tesoro (cf. 16,11s): essere come colui che è dono per tutti.
78. NON ANGUSTIATEVI. IL PADRE VOSTRO SA CHE AVETE BISOGNO
(12,22-34)
Continua l’istruzione di Gesù sui beni del mondo.
La vita non dipende né da ciò che hai (vv. 13-21), né da ciò che non hai (vv. 22-30), bensì da ciò che sei: figlio di Dio (vv. 31-34). Quindi, come nessun affanno per l’abbondanza, così nessuna angoscia nella penuria!
I discepoli non devono rinnegare il Signore della vita per la paura della morte, che porta ad avere di più nel timore di avere di meno. Tutto infatti viene dal Padre: come dà la vita, darà anche il cibo; come dà il corpo, darà anche il vestito. La vita e il corpo sono dati fin dall’inizio. Il resto, erogato giorno per giorno, rimane sempre suo dono, anche se mediato dalle nostre mani. Come la manna, ravviva la fede quotidiana.
Alla falsa sapienza, che porta all’accumulo e all’inquietudine, il discepolo contrappone la vera sapienza di chi conosce il Padre. La sua provvidenza, più acuta e più efficace di ogni nostra previdenza, non lascia mancare nulla ai suoi figli. Se qualcosa manca, significa che non è necessaria o si sta cercando nella direzione sbagliata (cf. vv. 30-31).
La differenza tra credente e non credente non sta nel fatto che questi lavora e l’altro ozia. Tutt’altro! (cf. 1Ts 2,9; 4,11; 2Ts 3,6-15). Sta nel fatto che uno si preoccupa e l’altro si occupa, uno con angoscia e l’altro con fiducia, uno per possedere e accumulare, l’altro per ricevere in dono e donare. È utile tener presente che la preoccupazione è più snervante dell’occupazione stessa. L’ansia mangia più energia del lavoro. Mentre l’uomo in genere accumula con affanno quando ha e si agita con angoscia quando non ha, il credente dona quando ha e lavora quando non ha. Ma senza inquietudine, perché sa che Dio è la sua vita. Così, invece di chiudere la mano nel possesso e allungarla per prendere, la apre per ricevere dal Padre e la allunga per donare ai fratelli.
Quelli che dicono “Abbà!” sono esonerati dagli inutili pesi dell’affanno e dell’angustia: vivono nel Regno dei figli.
Solo questo va cercato, chiesto e desiderato in sé. Il resto è un’aggiunta.
Possiamo stare tranquilli, perché Dio, come ha fatto noi per sé, così ha fatto tutto per noi.
Il v. 32 è centrale: la certezza del dono, che il Padre ci ha fatto nel Figlio, vince ogni timore.
I vv. 22-30 richiamano tale paternità come antidoto all’angoscia: chi ha dato il più, non lascerà mancare il meno (vv. 22-23). Invece di inquietarci, è utile guardare il corvo per il cibo (vv. 24-26) e i gigli di campo per il vestito (vv. 27-28): anche a loro Dio provvede. A maggior ragione a noi, ai quali ha dato anche la capacità di seminare e di mietere, prevedere e provvedere, lavorare e tessere! Anche se siamo di poca fede, siamo suoi figli, destinati alla vita eterna con lui. Non siamo immondi come i corvi, né effimeri come l’erba che ci cuoce il pane! L’ansia per tutto ciò è di chi non conosce che Dio è Padre (vv. 29-30).
I vv. 31-34 dicono il rapporto che hanno i figli con i beni del Padre: non li cercano come fine, ma li usano come mezzo. Egli ha predisposto di darli in omaggio a chi cerca il Regno (v. 31). Questo è già loro donato (v. 32), e vi entrano donando (v. 33a). Il dare è l’unico modo di tesorizzare (v. 33b), perché rende il figlio simile al Padre che dona (v. 34).
Lo sfondo di queste considerazioni di Luca è il rapporto che nell’AT Dio vuole tra popolo e terra promessa (cf. ad es. Dt 8,1ss; 15,1ss).
79. UOMINI IN ATTESA DEL LORO SIGNORE
(12,35-48)
L’uomo diventa ciò che attende. Chi attende la morte, diventa suo figlio e produce morte. Chi attende il Signore Gesù, ha la sua stessa vita di Figlio del Padre. L’esistenza cristiana è attesa di colui che deve tornare: lo sposo! Il discepolo non ha qui la sua patria. La casa della sua nostalgia è altrove. Straniero e pellegrino sulla terra (1Pt 2,11), non ha quaggiù una città stabile, ma cerca quella futura (Eb 13,14), dove sta colui che attende (Fil 3,20).
La comunità di Luca è cosciente che il Signore non verrà tanto presto. Il momento del suo ritorno sarà la notte, figura della morte personale, anticipo della notte cosmica.
Ma il tempo dell’attesa non è vuoto. È il tempo della salvezza, in cui la chiesa testimonia il suo Signore davanti a tutto il mondo. La sua salvezza è affidata ormai alla responsabilità dei credenti. La storia diventa il luogo della decisione e della conversione, della vigilanza e della fedeltà alla Parola, che ci trasforma a immagine del Figlio. La nostra vigilanza non è uno scrutare nel buio. È un tenere accesa davanti al mondo la luce del Signore, continuando la sua missione tra i fratelli. Quando camminiamo come lui ha camminato, prestiamo i piedi al suo ritorno.
In Luca vi sono come tre livelli escatologici. Uno passato: il mondo è già finito e il Regno già venuto in Gesù. Uno futuro: il mondo finirà e il Regno verrà alla fine del mondo, anticipata per ciascuno nella morte personale. Uno presente: il mondo finisce e il Regno viene quando il credente vive l’eucaristia. Culmine e origine di tutta la vita cristiana, essa riporta nel presente il passato e il futuro di Gesù; il Signore morto e risorto si fa nostro cibo per farci condurre una vita pasquale in attesa del suo ritorno. Questo brano si mette in quest’ottica. Ricco di termini eucaristico-pasquali, chiama tutti, specialmente chi nella comunità ha qualche ministero, a vivere da amministratore fedele e saggio, libero da ogni avidità e attento al servizio dei fratelli.
80. COME NON SAPETE DISCERNERE QUESTO MOMENTO?
(12,49-59)
Il discepolo vive alla luce del giudizio di Dio, antidoto di ogni ipocrisia (cf. vv. 1-9). Esso si rivela nel mistero pasquale di Gesù, che ci battezza nel fuoco dello Spirito dopo che lui stesso è passato attraverso le acque della morte (vv. 49-50). Questa è la sua venuta escatologica, già realizzata sulla croce, che giudica il mondo per salvarlo (vv. 51-53). Nell’eucaristia ne facciamo il centro della nostra vita. Lì attingiamo la forza per discernere il presente di male (vv. 54-57) – interpersonale (vv. 58-59), sociale (13,1-3) e naturale (13,43) – come appello a cambiare criterio di vita, a convertirci dal lievito dei farisei a quello del Regno. Tutto il c. 12 elabora cosa significa “ora” aver fede nel ritorno di colui che è morto, risorto e ci ha dato il suo Spirito. Luca riflette sulla fede come storia: è memoria di un passato e progetto per un futuro che si realizza al presente. Colui che deve venire, viene ora nella testimonianza di chi segue il suo cammino di allora.
Il brano è caratterizzato dall’urgenza: Gesù deve attraversare le acque e il fuoco per compiere l’amore del Padre; il discepolo a sua volta deve decidersi per lui.
Per questo è necessario riconoscere il tempo presente come il momento per la conversione. Questo è il vero discernimento, in base al quale gli uomini si dividono in due categorie: da una parte i sedicenti giusti, atei o religiosi, che non hanno bisogno di salvezza e non si convertono; dall’altra i poveri peccatori, che sanno di non farcela e si convertono al dono di Dio. Solo così cessa la presunzione o la disperazione, e viene la salvezza.
Estratti da:
Silvano Fausti, “Una Comunità legge il Vangelo di Luca”
Edizioni Dehoniane Bologna 1991