Fabiola Pozzer, caposala del pronto soccorso dell’ospedale di Santorso ricoverata per Covid-19, racconta il suo calvario (estratti)


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Fabiola Pozzer ancora convalescente il giorno di Pasqua

Arrivo in Pronto Soccorso… Da questo momento, per 16 giorni, non vedo più nessuno dei miei familiari.  Mi viene in mente che alla partenza mio figlio Marco non era in casa. Mi aveva chiamato finché salivo in auto e ironicamente mi aveva detto: “Mamma, non ti ho neanche salutata! Poi magari non ti vedo più e resto con questo magone!”. Durante i momenti tosti, questa battuta ironica, che allora era sembrata impossibile e assurda, continua a tornarmi in mente, perché con questa malattia succede proprio così: parti con le tue gambe, saluti, e poi non torni più.

È tutto strano: io sono stata caposala in Pronto Soccorso e ora invece mi trovo dall’altra parte. Mi fanno gli esami del sangue e una radiografia del torace, mi iniettano anche il paracetamolo in vena che mi fa scendere la febbre: mi sembra di essere rinata. Il referto del torace fa decidere per il ricovero. Dentro di me sono pronta. Mi accompagnano in stanza, i miei colleghi sono di una cortesia disarmante, quasi a cercare di ricompensare la mia preoccupazione, la paura di quello che mi sta succedendo. Arriva in stanza il dottor Carlotto: lo conosco bene, sono abituata a vederlo per i problemi infettivi dei pazienti ricoverati, ma ora è lì per me. E’ pallido, parla con un filo di voce, percepisco la sua stanchezza. 

Il personale mi aiuta, mi sta vicino come fossi un familiare. Ricoverano vicino a me una signora: è la moglie di un mio paziente. Siamo state insieme in reparto il giorno in cui tutta questa storia è iniziata. Mi dice che anche suo marito è positivo. Nei giorni a seguire, oltre a lei che è in stanza con me, sono ricoverati altri sei pazienti del mio reparto nelle stanze vicine. La situazione è assurda: li sento urlare, proprio come facevano quando io ero la caposala della corsia che li ospitava. Ora vedo la loro sofferenza da un’altra prospettiva.

Prego, non ho forze, ma ho la sensazione che il pensiero e le preghiere di chi mi vuol bene mi sostengono, come un tronco che scivola dentro un torrente: io non riesco a fare niente ma è l’acqua mi sostiene, mi fa progredire, mi tiene su. Questa sensazione mi dà pace. Sono tanto preoccupata per Marco e Ilaria, i miei figli: non riesco a rispondere ai messaggi, le telefonate mi mettono in difficoltà ma devo cercare di non angosciarli.

La notte è dura. Ad un tratto sento in corridoio Silvia, un’infermiera e un’anima cara, che accoglie una famiglia con un bimbo molto piccolo e dice: “Ciao piccolo miracolino!”. Questa cosa mi fa tanto bene al cuore, sono contenta di sentire tanto amore verso una creatura! Gli infermieri mi rilevano la saturimetria ogni mezz’ora o un’ora, io mi assopisco, non sono del tutto lucida. Provo a pregare, chiedo con tutte le mie forze a chi è in Paradiso di preservarmi per i miei figli. Ho paura di lasciarli soli. Mi sembra di avere vicino quel Gesù del Crocifisso che vedo appeso: è li con me. Con una mano mi chiede, ma con una mano mi dà: faccio esperienza, intensissima, di tante cose, quella notte.

Arriva giorno, entra un raggio di luce dalla finestraScoppio in un pianto dirotto, non riesco a smettere. Ho la percezione – precisa – di averla passata, non so né come né perché, ma in cuore sento che sono e starò ancora qua con i miei figli. Le condizioni cliniche si stabilizzano, io non riesco a mangiare neppure a bere, la nausea non mi lascia un attimo, sono a letto con 12 litri di ossigeno e non posso neppure andare in bagno, ma sono serena. Dentro di me sento forte che devo fidarmi. Come avessi in mano un tizzone ardente e me ne dovessi liberare in fretta per non scottarmi. Lo butto via e non devo più pensarci. I giorni si susseguono, la paura spesso ha il sopravvento, allora faccio un atto di fede, prego e pian piano mi calmo.

Sono ricoverata nel reparto dove ero caposala qualche anno fa: alcuni infermieri sono miei ex colleghi, amiciMi sento voluta bene, coccolata. Pian piano mi riducono l’ossigeno fino a toglierlo, la situazione è controllata.  Mi fanno i tamponi, sono negativi: posso tornare a casa.

Quando lascio il reparto, esco dalla stanza un po’ traballante: infermieri, caposala e operatori sono tutti a salutarmi in corridoio. Sono tanti. Una strana sensazione mi pervade: non mi sembra neanche il “mio” ospedale, il reparto dove ho lavorato. Non riesco a trattenere le lacrime, non riesco esprimere la riconoscenza che provo per ciascuno di loro, che rischiando ogni giorno ce la mette tutta per prendersi cura di ogni paziente. Esco dal reparto e vedo Gianni, pallido, dimagrito, anche lui con i segni visibili di questo Covid. E’ una sensazione strana, le lacrime scendono e cadono sul pavimento,  ma provo una gioia incontenibile! Torno a casa da Marco e Ilaria!!! Il peggio è passato!

Fabiola Pozzer
da: https://www.ecovicentino.it/