Libro della Genesi (1)
RACCONTI SULLE ORIGINI DELL’UMANITA’ E DEL POPOLO EBREO COMMENTO ATTUALIZZATO DELLA GENESI A CURA DI DON SERGIO CARRARINI
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INTRODUZIONE
Nel nostro cammino alla riscoperta della Bibbia approfondiremo quest’anno uno dei libri più affascinanti e discussi, quello che apre la Torah, la Legge, compendio e fondamento di tutta la Scrittura: il Libro della Genesi. Genesi è la traduzione (nella versione greca dei Settanta) della parola ebraica Bereshît (che vuol dire “in principio”) con la quale inizia il primo libro della Bibbia. In principio Dio…: è l’inizio della Rivelazione, di quella catena ininterrotta di persone, fatti, parole, eventi che noi chiamiamo storia della salvezza. Essa risale a prima del tempo; entra poi nella storia dell’umanità e del popolo ebraico per sfociare in un nuovo inizio: In principio era il Verbo…(Gv 1).
Il Libro della Genesi ha per argomento le origini, gli inizi, il progetto ideale che ha ispirato la nascita del mondo, dei popoli, di Israele. Si rifà a dei comuni racconti mesopotamici sulle origini del mondo (epopee di Ghilgamesh, di Ziusudra, di Atrakhasis) per dare una spiegazione “filosofica” e “teologica” ad una serie di interrogativi che gli Ebrei si ponevano su Dio e sull’uomo, sull’origine del male e sul senso della storia, sul valore delle istituzioni e delle leggi morali, sulla sua elezione.
Il Libro della Genesi vuole annunciare delle verità di fede e delle interpretazioni sapienziali sul senso della vita e della storia (non delle certezze scientifiche sullo svolgimento dei fatti) e lo fa con il genere letterario della narrazione, cioè costruendo dei racconti simbolici (ricalcati su quelli già presenti nel suo contesto culturale) che illustrano in modo plastico questo messaggio. La Genesi non è un libro di storia o un trattato scientifico sull’origine del mondo, ma una riflessione sapienziale e un annuncio di fede su Dio e il suo rapporto con l’umanità, sull’uomo e sul male che ha dentro, sui popoli e il loro inarrestabile degrado, su Israele e la sua elezione.
Molte discussioni e difficoltà (specie sui primi 11 capitoli) che hanno segnato dolorosamente la storia della Chiesa per molti secoli, hanno origine proprio dal non aver colto la finalità di questo libro (come di tutta la Bibbia) e aver confuso il piano della fede con quello della scienza: sono due piani diversi e si propongono finalità diverse. Non è un problema di farli “concordare”, ma che ognuno resti nel suo ambito di competenza. E’ ciò che ha ben chiarito il Concilio Vaticano Secondo nella Dichiarazione Dei Verbum quando afferma: “I libri della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza, ha voluto veder consegnata nelle lettere sacre” (III, 11). Giovanni Paolo II, nelle catechesi del mercoledì sul libro della Genesi, dice: “Il livello del racconto è soprattutto di carattere teologico e nasconde in sé una potente carica metafisica”. Il testo, perciò, non vuole rispondere alla domanda: che cosa è successo alle origini del cosmo e dell’uomo? Risponde invece a quest’altra domanda: che senso ha l’uomo nel cosmo?
La Genesi (come del resto tutto il Pentateuco, cioè i primi cinque libri della Bibbia) è stata attribuita dagli Ebrei (e poi dai cristiani) alla stesura diretta di Mosè, sotto dettatura di Dio. Oggi c’è un sostanziale accordo tra gli studiosi nel ritenere il Pentateuco come il frutto di un lungo lavoro redazionale, compiuto durante l’esilio o subito dopo (500 a.C.), per unire varie tradizioni orali e vari documenti scritti (Jahvista, Eloista, Deuteronomista, Sacerdotale) in un testo ben strutturato e finalizzato ad un messaggio di fede sulle origini del mondo e del popolo ebraico.
Il Libro della Genesi si divide in due parti e ognuna si sviluppa attorno a tre nuclei fondamentali:
Gen 1-11: origine del mondo e delle nazioni | Gen 12-50: origine del popolo ebraico |
La creazione del mondo e dell’uomo (cap. 1-5) | Abramo e Sara (cap. 12-25) |
Il diluvio e la nuova alleanza (cap. 6-9) | Giacobbe e i suoi figli (cap. 26-36) |
Babele e la dispersione dei popoli (cap. 10-11) | Giuseppe e i suoi fratelli (cap. 37-50) |
DAL CAOS ALL’ARMONIA
I racconti sulle origini dell’universo e della vita sulla terra si trovano nei primi 11 capitoli della Genesi e raccolgono una serie di tradizioni diverse su varie tappe (che alcuni hanno voluto legare alle varie tappe della teoria evoluzionistica) della storia dell’umanità. Lo scopo di questi racconti, però, non è quello di dare una spiegazione su come è nato il mondo, ma di dare una risposta ad alcuni interrogativi: qual è il posto e il compito dell’uomo sulla terra? Perché nel mondo ci sono il male e la morte e da dove vengono? Questi racconti vogliono dare inoltre un fondamento teologico a delle usanze consolidate quali: il calendario liturgico con la settimana di 7 giorni, le feste annuali e mensili, l’istituzione del matrimonio, la legislazione che metteva un freno alla violenza…
Quando il Libro della Genesi assume la sua stesura attuale siamo durante (o subito dopo) l’esilio a Babilonia: il dio Marduk sembra trionfare e il Dio d’Israele essere sconfitto. Perché avviene questo? Dio è indifferente alla situazione degli uomini? Le tradizioni religiose d’Israele hanno ancora valore? In cosa credere? Su quali fondamenti ricostruire la propria identità nazionale? La risposta a questi interrogativi viene data da un gruppo di credenti più sensibili i quali raccolgono una serie di racconti (già precedentemente scritti o tramandati oralmente) e li rielaborano in un testo che propone una chiave interpretativa dei problemi che il popolo stava vivendo in quel periodo tormentato e difficile della sua storia. Il lavoro del redattore finale non ha tolto il sapore e le caratteristiche dei testi o tradizioni originali, ma li ha arricchiti e armonizzati in un messaggio di grande suggestione emotiva e di grande profondità teologica.
La settimana di Dio (1,1 – 2,4)
Il primo racconto di creazione è della Tradizione Sacerdotale (la più recente, 500 a.C.) perché ha una chiara impronta liturgica (la settimana e la giustificazione del sabato) ed è costruito per favorire la memorizzazione e la recita corale. Al centro del racconto c’è Dio e il suo progetto sul mondo. Si rifà ai miti mesopotamici (conosciuti dagli Ebrei durante l’esilio a Babilonia) ma con una grande diversità di fondo: in questo racconto Dio crea senza sforzo, senza lotte con altre divinità, senza usare membra di dèi vinti; il suo operare è gioioso, artistico. Cogliamo gli elementi fondamentali.
vv. 1-2: il caos iniziale. Un primo aspetto da sottolineare è legato alla traduzione del primo versetto: la tradizione ebraica e cristiana dice: In principio Dio creò il cielo e la terra… mettendo l’accento sulla “creazione dal nulla” di tutte le cose, mentre le traduzioni più recenti sottolineano la possibilità di tradurre: In principio, quando Dio cominciò a creare il cielo e la terra… mettendo l’accento sulla creazione come “completamento, abbellimento”. Quando Dio ha iniziato la sua opera creatrice c’era il caos. L’autore non vuole indagare su chi ha fatto il caos (o se Dio non era capace di fare già il mondo ordinato); dice solo: l’opera creatrice di Dio consiste nel far passare il mondo dal caos all’armonia, dal disordine alla bellezza (sottolineata molte volte: e vide che era bello). Questa opera avviene con tre separazioni e tre abbellimenti (10 parole-azioni come le Dieci Parole della Legge). Lo stesso problema lo ritroviamo per la traduzione del termine ruah, dai primi reso con spirito di Dio (come forza creatrice), mentre gli altri mettono vento impetuoso (legato al caos iniziale).
In realtà quella che viene descritta è l’opera che sarà poi affidata all’uomo da completare; è il senso del rapporto dell’uomo con il creato e il suo ruolo sulla terra, modellato su quello di Dio. E’ il progetto ideale (era molto bello, molto buono) che l’uomo non saprà realizzare, ma che Dio porterà a compimento alla fine dei tempi con i cieli nuovi e la nuova terra donati dalla sua misericordia.
Da notare infine che la Bibbia non inizia con la lettera A dell’alfabeto, ma con la lettera B (Bereshît) quasi ad indicare che l’inizio vero del mondo sfugge all’uomo, è nella mente di Dio.
vv. 3-13: Tre separazioni. Al centro e come motore della creazione c’è la parola, il linguaggio. Dio dà un’identità ad ogni cosa separandola dall’altra e attribuendole un nome. La somiglianza dell’uomo con Dio è proprio l’uso della parola, del linguaggio; la capacita e il compito di dare un nome, una finalità alle cose. Gesù stesso sarà chiamato Verbo, Parola, venuto a completare l’opera della creazione. Si passa dal caos all’armonia quando ogni cosa ha il suo posto, il suo senso, il suo ordine, il suo scopo (espresso dal nome). La prima separazione (luce e tenebre, notte e giorno) è legata al tempo; la seconda (cielo e terra) allo spazio; la terza (terra e mare, terra deserta e terra fertile) è legata alla vita dell’uomo. L’armonia comporta separazione, identità, limite.
vv. 14-25: Tre abbellimenti. Il secondo momento dell’atto creativo è l’abbellimento, migliorare il mondo; l’armonia si crea attraverso la bellezza e la bellezza diventa armonia e splendore delle cose. Il primo abbellimento (sole, luna e stelle) riprende la prima separazione ed è legato sempre al senso del tempo, con la creazione del calendario. Gli astri (adorati come divinità dagli antichi) sono declassati a ruolo di lampade, di orologi per segnare il tempo e fissare il calendario delle feste. Il secondo abbellimento, legato alla seconda separazione, introduce nel mondo la vita (pesci, mostri marini e uccelli) secondo un ordine (specie). Con la vita inizia anche l’impegno alla procreazione, vista come benedizione di Dio, come continuazione della sua opera creatrice. Il terzo abbellimento continua il precedente con l’apparizione della vita terrestre in due momenti: gli animali (domestici, rettili, bestie selvatiche) e infine l’uomo, il vertice dell’opera di Dio.
vv. 26-29: La creazione dell’uomo. Forse in origine era un racconto autonomo, inserito qui a completare l’opera di Dio, per dare un continuatore alla sua azione di abbellimento, visto che l’uomo è fatto simile a Dio, come sua immagine sulla terra. Per sottolineare l’importanza e la diversità dell’uomo rispetto alle altre opere di creazione, vengono inseriti due particolari: il plurale nel soliloquio di Dio alla sua corte celeste (Facciamo l’uomo…) e il riferimento ad un dialogo con gli esseri appena creati (Disse loro…), che mette Dio in una relazione unica e personale con l’uomo e la donna. D’ora in avanti la storia del mondo sarà segnata dal dialogo tra Dio e l’umanità e dalla risposta (gioiosa o ribelle) delle persone alla sua proposta e ai suoi doni.
I due termini con i quali viene sottolineata l’unicità dell’uomo e la sua diversità dagli altri esseri viventi sono immagine e somiglianza di Dio. Il riferimento letterale di immagine è la statua (=idolo) che rappresentava la divinità (o il re) in un dato luogo, immagine alla quale gli antichi attribuivano reali poteri vicari. Nello stesso tempo l’uomo non è Dio, ma somigliante. I due termini indicano vicinanza e differenza (sia nei riguardi di Dio, sia nei riguardi degli altri esseri viventi). L’uomo è l’immagine di Dio; per questo gli Ebrei non volevano nessuna raffigurazione o immagine di Dio. Noi cristiani vediamo in Gesù la vera immagine di Dio (Chi vede me vede il Padre…) e crediamo che in ogni persona c’è un riflesso della sua presenza, un germe della sua dignità e bellezza.
Ma come l’uomo è immagine e somiglianza di Dio? Nel corso della storia ci sono state molte interpretazioni (posizione eretta, linguaggio, intelligenza, anima spirituale). Oggi si privilegiano due aspetti più strettamente legati al testo biblico: la “signoria” dell’uomo sul creato (Dominerà…), cioè l’impegno di proseguire nel mondo l’opera creatrice di Dio, ordinando e abbellendo la terra (civiltà, progresso, pace); la “relazione d’amore” tra persone che genera la vita (maschio e femmina li creò). Immagine di Dio è la coppia (non il maschio o la singola persona), l’uomo e la donna in relazione tra loro. Questa duplice realtà che rende ogni persona immagine di Dio, più somigliante a lui degli altri esseri viventi, è confermata con una solenne benedizione. Essa specifica ulteriormente gli aspetti legati alla procreazione e al governo della terra e conclude affermando che l’uomo sarà vegetariano. Tutto è suggellato dall’osservazione finale: era davvero molto bello!
Questo è il progetto ideale di Dio sulla storia, quello che l’uomo ha tradito; quello che Gesù ha rilanciato; quello che un giorno realizzerà in pienezza al suo ritorno.
vv. 1-4: Il settimo giorno. Il racconto Sacerdotale di creazione si conclude con i primi quattro versetti del capitolo secondo dove viene proposto un tema molto caro a questa Tradizione: il sabato. L’opera creatrice di Dio non è completa con l’uomo e la contemplazione gioiosa: era molto bello, della sera del sesto giorno. Alla settimana di lavoro di Dio manca ancora un giorno, il giorno della gratuità, del riposo, della contemplazione, del godere delle proprie opere; il giorno dell’eternità. Dopo aver operato nel tempo e nello spazio profano della storia, Dio ritorna all’eternità della gioia e compie l’ultima separazione: il giorno settimo è consacrato alla grazia, alla libertà, alla gioia di contemplare la bellezza e gustare l’armonia della creazione e della vita sulla terra. Di questo giorno non si dice più: Fu sera e fu mattino, perché è il giorno dell’eternità, del riposo di Dio e con Dio.
Il settimo giorno perciò è il vertice della settimana di Dio e dell’uomo, punto di arrivo e punto di partenza di ogni opera umana. La festa diventa per ogni credente il giorno in cui riscoprire il senso del vivere e dell’agire; il giorno in cui ritessere il rapporto con Dio e con i fratelli; il giorno in cui gustare la gioia di essere libero. Non è un giorno vuoto (o un tempo di evasione), ma il giorno della pienezza della vita, perché senza gratuità non c’è realizzazione umana e vera felicità.
La creazione dell’uomo e della donna (2,4-25)
Il secondo racconto di creazione è il più antico (900 a.C. ai tempi del re Salomone) ed è attribuito ad una Tradizione di sapienti, detta Jahvista (perché chiama Dio con il tetragramma sacro JHWH rivelato a Mosè al Sinai e usato poi nel Libro dell’Esodo). In questo racconto il protagonista è Adamo (= l’uomo) che è presentato come una figura simbolo di tutta l’umanità, di ogni persona. E’ sempre Dio che crea la terra e plasma l’uomo, che rende ogni cosa bella e armoniosa, ma in questo secondo racconto di creazione tutto ruota attorno all’uomo. Le linee di fondo sono identiche a quelle del primo (si passa dal caos all’armonia; l’uomo è il vertice del creato; tutto ha un nome e uno scopo; all’uomo è affidato il compito di governare il creato), ma sono espresse in modo diverso, partendo da un’altra prospettiva: l’uomo è creato per primo e attorno a lui cresce il giardino della pace (= paradiso) dove l’uomo e la donna vivono in armonia tra loro e con la natura.
vv. 5-6: All’inizio c’era il deserto. Nella Tradizione Jahvista l’idea del caos iniziale è espressa con l’immagine del deserto (aridità, mancanza di vegetazione, nessuna miglioria dell’uomo) nel quale non c’è ancora vita. Ma proprio da lì, dal deserto, la forza creatrice di Dio fa germogliare la vita.
v. 7: La creazione dell’uomo. La vita parte dal suo vertice, dall’uomo. La sua nascita è espressa con due immagini: Dio come vasaio, che impasta la polvere del deserto e crea una figura umana, un terroso, un essere legato alla terra (la statua somigliante a Dio dell’altra Tradizione); Dio come artista, che soffia nella sua opera lo spirito vitale, cioè la coscienza, la libertà, la capacità di capire e scegliere (il concetto di anima è di origine greca). Il primo essere creato da Dio è legato alla terra, perché di essa è impastato; ma è anche legato al cielo, perché ha lo spirito di Dio dentro di sé. Le due dimensioni dell’uomo (a lungo approfondite dalla riflessione dei sapienti: materia e spirito; corpo e anima; fragilità e grandezza; bestialità e amore) sono espresse in questo racconto non in senso negativo (come nella tradizione greca e poi cristiana), ma come armonia e ricchezza delle diversità, nell’accettazione serena della propria realtà (erano nudi e non avevano vergogna).
vv. 8-17: Il giardino di Eden. Il luogo dove Dio colloca la sua creatura è un’oasi nel deserto, un giardino (tradotto perciò nella versione greca con il termine persiano paradiso, che indicava i giardini mesopotamici ricchi di acque, di piante e di animali di ogni specie) dove l’uomo può vivere in una condizione di armonia e di pace, perché tutto ha il suo posto e il suo ruolo: Dio che viene alla sera a dialogare con l’uomo (religione); l’uomo che lavora ad abbellire il mondo e a custodirlo nella pace (scienza e politica); la natura a servizio dell’umanità (i 4 fiumi che portano vita e benessere).
I due verbi usati coltivare e custodire nella Bibbia hanno anche il significato di “rendere culto” e “osservare i Comandamenti”: scienza e fede, cultura e religione in armonia tra loro, a servizio della pace tra gli uomini e con la natura.
Questa armonia si fonda e ruota attorno al simbolo di due alberi (o in realtà è uno solo?) che stanno al centro del giardino: l’albero della vita (immortalità o comunione piena con Dio) e l’albero della conoscenza del bene e del male (libertà, coscienza morale, autodeterminazione). Tutto è in armonia se ogni cosa è al suo posto: a Dio ciò che è di Dio (primato); all’uomo ciò che è dell’uomo (fedeltà, servizio); alla natura il suo posto (mezzo); alla morale il suo fondamento (coscienza, legge, amore); alla vita il suo termine (come avviene per ogni essere vivente). Se ognuno sta al suo posto e non prevarica sull’altro ci sono armonia e pace. Questo è il senso dell’ordine (= Legge) messo da Dio nel giardino e della minaccia che lo rafforza: altrimenti morirai, cioè perderai l’armonia con Dio (paura di Dio), con l’altro (vergogna di essere nudo), con il mondo (violenza, degrado).
vv. 18-25: La creazione della donna. L’uomo nel giardino continua l’opera creatrice di Dio come lavoratore e custode dell’armonia. Qui c’è tutto il senso della scienza, della tecnica, dell’arte, della filosofia, della religione a servizio della crescita dell’umanità e del suo benessere: l’uomo conosce, cataloga, dà un nome e una finalità a tutte le cose e alle leggi della natura. E’ l’intelligenza, il linguaggio, il lavoro, il progresso come dignità, arricchimento, servizio al bene di tutti. E’ il progetto dell’uomo laborioso (homo faber) che sarà cantato da molti poeti e da Giobbe (28,1-11).
Ma l’uomo non è solo intelligenza, lavoro, progresso… è anche fatto di sentimenti, di relazioni, di gratuità. L’uomo lavoratore si sente solo. Ha bisogno di relazioni affettive, di alterità, di parità, di condivisione, cioè di reciprocità. Questa può trovarla solo “nell’altro se stesso”, nella donna, dono di Dio (sonno profondo), creata uguale a lui come dignità e finalità nel mondo (osso delle mie ossa, carne della mia carne), capace di dialogo (tratta da lui), di reciprocità (lascerà suo padre e sua madre), di unità nella diversità (i due saranno una cosa sola), di amore (si unirà alla sua donna). Nel rapporto con Dio l’uomo scopre la religiosità; nel rapporto con la natura l’uomo scopre la scienza; nel rapporto con la donna l’uomo scopre l’amore. Solo allora si sente realizzato e in pace. Così può accogliere la sua nudità (fragilità, limite, mortalità) con serenità, senza essere dominato dalla paura della morte, dai sensi di colpa o dai complessi d’inferiorità e diventarne schiavo.
I due racconti sulle origini dell’umanità e sul posto dell’uomo nel creato hanno un messaggio molto chiaro: Dio vuole l’armonia e la pace nel mondo. Questo è il suo progetto e la sua volontà; questo è il progetto al quale ogni persona deve ispirare le sue scelte e il suo impegno. Il giardino di Eden, perciò, più che il riferimento ad una mitica “età dell’oro”, ad un paradiso in terra, è il simbolo plastico di quel progetto ideale che Dio realizzerà quando Cristo tornerà alla fine dei tempi per restaurare tutte le cose secondo il volere di Dio (Ef 1,10). Allora ci saranno cieli nuovi e una nuova terra dove tutto sarà secondo la sua volontà (2Pt 3,13; Ap 21,1).
Questo progetto di Dio sul mondo è messo nel primo libro della Bibbia come chiave interpretativa di tutta l’azione di Dio nella storia e ritorna alla fine dell’ultimo libro come invito all’attesa della sua realizzazione, che certamente ci sarà.
L’ARMONIA DISTRUTTA
I primi due capitoli della Genesi ci hanno presentato il progetto ideale di Dio e sono capitoli pieni di luce, di armonia, di pace. Ci sono anche il caos, il deserto, le tenebre, il vento impetuoso… ma sono dominati e superati dalla potenza e dalla sapienza di Dio. Resta però in sospeso quell’interrogativo inquietante che da sempre tormenta le persone più riflessive: se Dio è la forza del bene e ha fatto tutto con sapienza, perché nel mondo c’è il male? Da dove viene?
I capitoli dal 3 all’11 cercano di dare una risposta a questi interrogativi. Sono dei racconti segnati dalle tenebre del male, dall’angoscia per il disastro che si rinnova incessantemente, dal caos che ritorna nel mondo, dalla maledizione che pesa sull’umanità e la trascina verso la distruzione, dal fallimento del progetto di Dio per colpa dell’uomo e dello spirito del male (serpente).
Ci sono anche delle luci, dei segni di speranza, delle persone fedeli a Dio, ma la luce prenderà definitivamente corpo solo dal capitolo 12, con Abramo e Sara e la benedizione per tutti i popoli racchiusa nella promessa che avvia il tempo dei patriarchi (1800 a.C.) e la storia della salvezza.
I due racconti di creazione sono “mitologici”, cioè illustrano le radici fondanti il senso della vita dell’uomo sulla terra e del suo rapporto con la natura; gli altri racconti sono “eziologici”, cioè partono dalla realtà come è di fatto e cercano di risalire alle cause che la spiegano. Gli ulteriori interrogativi ai quali questi racconti vogliono dare una risposta sono: perché nel mondo ci sono la sofferenza, la morte, i disastri naturali, le guerre, la violenza, la fatica del lavoro, i dolori del parto…? Perché l’uomo è sempre più cattivo e violento? Di chi è la colpa? Dio cosa fa?
Il peccato originale (= che è all’origine di ogni peccato), la fonte e la causa di ogni male è la pretesa dell’uomo di sostituirsi a Dio, di elaborare un suo progetto alternativo, di decidere autonomamente ciò che è bene e ciò che è male. Questa pretesa dell’uomo crea disarmonia, disordine, caos e sconvolge tutti i rapporti dell’uomo con Dio (paura), con la donna (possesso), con la natura (violenza), con se stesso (sofferenza e morte). E’ la trama di fondo di questi racconti.
Il primo peccato (3,1-24)
Il racconto Jahvista di creazione con al centro l’uomo (cap. 2) continua nel cap. 3 con un brusco cambiamento nella serena armonia del giardino di Eden, provocato dalla presenza e dall’azione del serpente. E’ il nuovo protagonista introdotto dall’autore nel filo del racconto. Esso, però, non è una divinità (come nei culti antichi), ma una creatura fatta da Dio e già presente nel giardino.
vv. 1-7: La trasgressione. Il serpente è definito come una creatura astuta, cioè sapiente, e ha un suo progetto alternativo a quello di Dio. L’autore non si preoccupa di spiegare da dove viene e perché ha elaborato un progetto contro Dio, né perché insidia l’uomo. C’è, è lì accanto all’uomo, quasi come condizione e simbolo della sua libertà. Il male, la tentazione è connaturale alla vita e la parola di Dio non ci dà una spiegazione di questo fatto. Ci dice solo che il progetto di Dio deve essere scelto liberamente dall’uomo come via di felicità, armonia e pace.
Nella cultura antica il serpente era l’immagine dell’immortalità (cambia pelle) e della fertilità. Per l’autore sacro diventa simbolo dell’idolatria (culti cananei della fertilità) che spinge il popolo ebreo a rinnegare la sua fede in Jahvè per aderire alle divinità pagane, molto più seducenti nelle loro promesse e nei loro culti. La tradizione ebraica (Sap 2,24) e quella cristiana (Ap 12,9 e 20,2) vedranno nel serpente l’immagine di satana, il divisore, il tentatore, il drago, lo spirito del male.
Il racconto si snoda sulla trama sottile e studiata di una seduzione: si parte da una mezza bugia, che però è anche una mezza verità (Dio vi ha proibito tutto… non siete liberi), alla quale la donna reagisce chiarendo le potenzialità e i limiti della libertà umana: tutto ci è possibile; solo il campo della morale è riservato a Dio. La seduzione continua facendo balenare il dubbio: perché Dio si è riservato quel terreno? Perché devono esserci dei limiti alle potenzialità umane e alla sua libertà?
Nell’affermazione del serpente (diventerete come lui, avrete la conoscenza di tutto) è racchiusa la definizione di ciò che è il peccato, di quella che è la scelta di fondo, la radice di ogni peccato: essere come Dio, mettersi al suo posto; conoscere tutto, nel senso di essere insindacabili, giudici del bene e del male, arbitri assoluti delle proprie scelte. Il peccato è questa pretesa dell’uomo di essere Dio, di mettere se stesso al posto di Dio, di fare di se stesso e delle proprie verità, ideologie, interessi, religioni, un assoluto e la fonte della salvezza. Spesso non lo si dice in modo così esplicito, ma di fatto si ragiona e si fanno le scelte come se Dio non esistesse, come se tutto dipendesse dall’uomo, come se fosse lui la fonte del diritto e della morale.
Da questo atteggiamento di fondo nascono e derivano i peccati, cioè tutti quegli atteggiamenti e quelle scelte che esprimono praticamente questa pretesa di autosufficienza dell’uomo. L’obiettivo è diventare onniscienti (capire tutto), onnipotenti (potere tutto), immortali (vivere sempre). Paradossalmente questa è anche la scelta e l’impegno della santità: Siate perfetti come il Padre vostro che è in cielo (Mt 5,48). Ma per raggiungere questa meta il peccato percorre la via della ribellione, dell’autosufficienza, della violenza, del potere; la santità percorre la via dell’obbedienza, dell’amore, della fiducia, dell’umile servizio.
Con finezza psicologica l’autore mostra il male (dubbio) che lavora nel cuore delle persone e fa vedere la realtà con occhi diversi: rende seducente proprio ciò che è disobbedienza e tradimento. I termini usati (bello per gli occhi, buono per la bocca, desiderabile per l’intelligenza) rispecchiano le tentazioni che prendono ogni persona di fronte alle scelte della vita (non a caso sono la base di ogni proposta pubblicitaria). La trasgressione è poi rappresentata simbolicamente dal gesto della donna di staccare un frutto e di mangiarne, coinvolgendo in questa scelta anche l’uomo. La tradizione popolare ha falsamente identificato l’albero in un melo, equivocando sul termine latino malus che vuol dire male, ma anche melo. Con poche parole viene rappresentata una scelta che ha conseguenze enormi sulla vita e si ripete con troppa frequenza nella storia dell’umanità.
La prima conseguenza di questo gesto di ribellione realizza una parte delle aspettative: si aprirono i loro occhi. E’ la coscienza, l’intelligenza, il confronto con la realtà che, però, mette in luce non l’essere come Dio, ma la nudità, la fragilità, il limite delle possibilità umane, la mortalità. L’uomo prende coscienza dei suoi limiti esistenziali e ne ha paura. Questa paura porta ad incrinare tutti i rapporti: con Dio, con l’altro, con il mondo. La paura ha reso l’uomo schiavo, non libero! Il sogno di diventare onnisciente, onnipotente, immortale si scontra con la realtà di essere nudo, cioè fragile, ignorante, fallibile, mortale. Questa coscienza fa diventare l’uomo pauroso, scontroso, violento, bugiardo. Nel giardino di pace viene introdotta la disarmonia, il sospetto, la fuga.
vv. 8-19: La condanna. A questo punto del dramma ritorna in scena Dio che, come un sovrano orientale, sul far della sera viene nel suo giardino per chiacchierare con i suoi familiari e amici. Ma nel giardino il clima è cambiato e si respira un’aria di sospetto e di paura. L’armonia è distrutta e inizia l’indagine per scoprirne la causa e i colpevoli. Con una serie di domande (interrogatorio) Dio mette a nudo i fatti (istruttoria) e velocemente si arriva alla sentenza di condanna nei riguardi dei tre protagonisti della trasgressione: serpente, donna, uomo.
In realtà la vera condanna è l’espulsione dal giardino di Eden per ritornare nel deserto dal quale l’uomo era venuto. Le condanne inflitte all’uomo, alla donna e al serpente non sono altro che la constatazione della realtà esistente (la condizione dei serpenti e la repulsione che l’uomo prova nei loro confronti; le dinamiche del rapporto uomo-donna e i dolori del parto; la fatica del lavoro e la brevità della vita) e il tentativo di darne una spiegazione: non è Dio che ha fatto male il mondo, ma è l’uomo che lo ha rovinato con la sua pretesa di mettersi al posto di Dio. Espresse come “condanna di Dio”, in realtà queste sentenze mettono in luce quelle che sono le conseguenze del peccato.
La prima sentenza (vv. 14-15) riguarda il serpente ed è in forma di maledizione. L’autore cerca di spiegare perché i rettili sono animali “impuri”, suscitano ribrezzo, strisciano nella polvere e sono schiacciati dagli uomini: è la loro condanna per aver tentato e fatto ribellare l’umanità contro Dio. Sul piano simbolico (serpente = tentatore) la condanna è verso le pretese di onnipotenza dei capi e l’astuzia dei sapienti (ideologie, imperi, religioni) che seducono gli uomini con la promessa della libertà e del benessere, ma alla fine portano il popolo all’umiliazione di strisciare nella polvere, nel fango (come in seguito si dirà attraverso l’immagine di un altro animale “impuro”, il maiale).
Il versetto 15 (che nel testo si riferisce all’interminabile lotta tra uomini e serpenti) è stato riletto successivamente in chiave messianica (promessa di salvezza e liberazione dal potere del male). L’interpretazione cristiana l’ha applicato a Cristo (esso) o a Maria (essa) e l’ha letto come un annuncio della futura salvezza portata da Gesù di Nazaret (Protovangelo) per l’affermazione sulla vittoria finale del bene sul male, richiamata dall’immagine dello schiacciare il capo. Nel mondo ci sarà sempre lotta tra bene e male, tra fede e ideologie, tra spirito di Dio e spirito del maligno, tra Chiese e imperi, tra operatori di pace e fanatici della violenza. La lotta sarà non solo nel mondo e tra i popoli, ma anche nelle Chiese, nelle comunità, nelle famiglie e nel cuore di ogni persona. Questa lotta è già stata vinta da Cristo, e dai martiri con lui, ma si concluderà solo dopo il suo ritorno glorioso alla fine dei tempi (Protovangelo e Apocalisse come inizio e fine della storia).
La seconda sentenza (v. 16) tocca due dimensioni centrali della vita della donna: la maternità e la relazione di coppia. L’autore vuole dare una spiegazione sul perché queste realtà sono segnate dalla sofferenza e dalla violenza. Perché le situazioni più belle e significative nella vita della donna devono essere così difficili e complicate? Il dolore e la violenza sono parte integrante della vita, ma sono aggravate dalle scelte delle persone, fino ad arrivare a forme inaudite di violenza, sfruttamento e prevaricazione sulla donna, proprio attraverso l’istinto sessuale. Qui non viene affermato come legge divina che la donna deve soffrire ed essere sottomessa all’uomo (come affermava una certa spiritualità distorta e come propugnano ancora oggi correnti religiose integraliste), ma solo che il peccato dell’uomo porta a disarmonie nei rapporti di coppia e aggrava le sofferenze delle persone.
La terza sentenza (vv. 17-19) tocca il rapporto con la natura e con il limite della vita. Pur essendo riferita all’uomo, riguarda anche la donna e il rapporto di coppia, che ormai è diventato un rapporto di dipendenza e, insieme, di seduzione. Da notare che non è maledetto l’uomo, ma il suolo. La maledizione consiste nel ritorno della natura a ciò che era: da giardino ricco di acque e di vita, a deserto pieno di spine e di cardi. Anche qui è la constatazione di una realtà: il lavoro è faticoso e alienante; la terra è ostile e soggetta a carestie; gli uomini sono egoisti e accaparratori; la scienza e la tecnica migliorano, ma mettono anche a rischio l’ambiente; le risorse naturali sono oggetto di sfruttamento indiscriminato e motivo di infinite guerre.
Il peccato dell’uomo estende la sua influenza e aggrava enormemente tutte le difficoltà della natura. Ogni persona, ogni gruppo umano, ogni società sarà segnata dalla lotta per la sopravvivenza, per dominare e conquistare le risorse della terra. Questa lotta porterà fame, sudore, lacrime, sangue di tantissime persone e impegnerà sempre i credenti (e gli uomini di buona volontà) a lottare per costruire la giustizia sul piano dei rapporti economici, politici, sociali, culturali, con le nuove sfide che il progresso continuamente ripropone.
Così la realtà della morte (che è connaturale all’uomo, come ad ogni animale) non è più vissuta come un fatto naturale, un ritorno a Dio, ma diventa un dramma che fa nascere paure e continui tentativi di esorcizzarla. Questa paura della morte rende l’uomo schiavo (Rom 8,15), egoista, chiuso in se stesso, attaccato alle cose. La paura (di Dio, dell’altro, della morte, del futuro) è frutto e segno del peccato. Chi ha fede vince la paura, perché accoglie Dio, si affida a lui e vive in armonia con Dio, con se stesso, con gli altri, con la natura, con il suo limite ed anche con la morte, vista come un ritorno alla casa del Padre, come un guadagno (Fil 1,21; Is 26,19), come una “sorella” da accogliere con serenità e abbandono fiducioso.
Quest’ultimo versetto indica inoltre che tutto è fragile e passeggero, perché tutto è destinato a finire. Tutto ritornerà polvere! L’estrema conseguenza del peccato è che tutto finisce e viene distrutto, che niente è assoluto ed eterno: non le persone e le cose, non le ideologie e gli imperi, non le Chiese e le religioni, non la scienza e l’arte, non il progresso e la gloria. Però: Il cielo e la terra passeranno, ma non le mie parole (Mt 24,35). Solo Dio è eterno; solo l’amore non finirà mai (1Cor 13,8).
vv. 20-24: La cacciata dal giardino. Gli ultimi versetti del racconto descrivono quello che è il vero castigo del peccato: la perdita del rapporto di comunione con Dio, con l’altro, con la natura. Questa perdita è simboleggiata dalla cacciata dal giardino e dal ritorno al deserto nel quale l’uomo era nato. Il giardino resta chiuso all’uomo e ritornerà nella storia come sogno e nostalgia di un bene perduto. Cristo trasformerà questa nostalgia in attesa del suo ritorno, quando riaprirà le porte del giardino dell’armonia e trasformerà il sogno dell’inizio del mondo nella realtà finale della presenza di Dio in tutte le persone e in tutte le cose (1Cor 15,28).
Ma prima di chiudere il giardino alle spalle dell’umanità, l’autore inserisce due segni di speranza:
- Il nuovo nome dato alla donna: si chiamerà Eva (= la vivente, la sorgente della vita) per indicare che la vita continuerà sulla terra; che Dio ha fiducia nell’uomo e nella donna nonostante la loro ribellione. La possibilità di dare la vita è segno della benevolenza di Dio.
- Dio diventa artigiano e fabbrica dei vestiti per la coppia. Provvedere al vestiario era compito del padre di famiglia e tesserlo era compito della madre: Dio si fa padre e madre dei suoi figli, di tutta l’umanità costretta a vivere nel deserto del mondo. Anche nelle situazioni più cupe e degradanti Dio pone sempre dei segni di speranza, di fiducia nelle persone. E’ un messaggio che ritornerà tantissime volte nelle pagine bibliche.
Il secondo peccato (4,1-16)
Il racconto Jahvista della creazione dell’uomo e della sua ribellione a Dio continua con un terzo racconto (in origine autonomo) che presenta la realizzazione concreta della condanna causata dal peccato: lo scatenarsi della violenza con la morte della prima persona, inizio e simbolo di quella catena ininterrotta di violenze e di morti che segnerà la storia dell’umanità. Il racconto è molto scarno, essenziale, ed è modellato sullo stile dei racconti precedenti, quasi a dire: ecco il secondo peccato! Poi ci sarà il terzo, il quarto… fino al diluvio; e poi di nuovo fino alla torre di Babele… Allo stesso modo dopo la trasgressione ci sarà l’interrogatorio da parte di Dio, la condanna e il segno di speranza. E’ la storia dell’umanità che si ripete continuamente.
In questo racconto il peccato, che è sempre ribellione all’ordine stabilito da Dio, passa dalla rottura del rapporto di coppia e con la natura, alla rottura del rapporto tra fratelli e nella società. I due fratelli, infatti, sono presentati come simbolo di due civiltà (pastorale e agricola), di due stili di vita (nomade e sedentario) e di due religioni in lotta fra loro. La disarmonia creata dal peccato va ad incidere su tutte le realtà della vita e il progresso ne aggrava i conflitti e le conseguenze.
vv. 1-2: I protagonisti. Il racconto si apre con la prima preghiera riportata nella Bibbia: Eva ringrazia Dio per il dono della maternità, per la vita che attraverso di lei continua nel mondo. Da questa preghiera viene il nome del figlio primogenito Caino (= dono di Dio, acquistato da Dio). Caino perciò è un bel nome, segno della gioia e della fede di Adamo ed Eva. Questo figlio è amato e prediletto da loro, è attivo e intraprendente; nel racconto è l’unico che parla, agisce, si arrabbia, supplica, prega: è un vincente! Il secondogenito invece si chiama Abele (= inconsistenza, fumo, soffio) ed è una persona smorta; non dice una parola, non fa scelte personali e non è considerato dai genitori: è un perdente! La tradizione successiva ha invece trasformato i due fratelli in simboli: Caino delle persone violente e omicide; Abele delle persone ingiustamente perseguitate e uccise.
vv. 3-7: La prova. Al centro del racconto non c’è tanto il rapporto di Caino col fratello Abele, ma il suo rapporto con Dio. Lui che è “dono di Dio”, prediletto e amato dai genitori, laborioso e intraprendente… lui che realizza il comando di Dio coltivate la terra e soggiogatela… lui si sente rifiutato da Dio, non considerato, messo dopo il fratello minore. Umanamente lui è vincente, ma sul piano religioso (sacrificio offerto a Dio) è perdente. La prova del sacrificio illustra in modo plastico questa realtà: Dio gradisce il sacrificio di Abele e rifiuta quello di Caino. Perché?
Bisogna subito notare che il testo biblico non dà una spiegazione sul perché di questa scelta di Dio: presenta solo un dato di fatto. Le letture posteriori (ed anche le varie traduzioni del testo) hanno cercato di dare una interpretazione di questo rifiuto di Dio (offriva cose superflue, poco buone; la scelta dell’ultimo o la preferenza di Dio per i deboli; la provenienza di Israele da pastori nomadi e la sua millenaria opposizione verso le civiltà cittadine; l’orgoglio di Caino che si credeva migliore…). Alcuni vi hanno letto anche il simbolo che le civiltà a diretto contatto con la natura rendono sereno e realizzato l’uomo, mentre le società urbanizzate e tecnologiche lo rendono infelice e mettono in crisi la religione; ma nel testo non c’è. Tutto resta avvolto nel mistero di ogni vita messa alla prova.
Il dialogo tra Dio e Caino (testo oscuro, variamente tradotto e interpretato dagli studiosi) sottolinea l’essenza della prova di Caino: tu sei triste, contrariato, depresso, in crisi, perché non capisci quello che ti succede, non sai darti una spiegazione di certi fatti… e così pensi che Dio è ingiusto, che è in collera con te, che fa preferenze verso chi non se lo merita e non premia chi si impegna e fa il bene. La gelosia, l’invidia, il dubbio, la rabbia che hai nel cuore sono una tentazione per te; sono come il serpente per Adamo ed Eva; sono come un leone in agguato pronto a sbranarti. Tu devi dominarlo, vincerlo, allontanarlo da te fidandoti di Dio, anche se non capisci, affidandoti a lui nella tua vita. Nella vita non si può essere sempre vincenti, forti, fortunati. La vita porta anche delusioni, sconfitte, sofferenze, morte. Accetta ogni cosa con fede e torna ad essere in pace con Dio, con te stesso, con tuo fratello. Questa è l’essenza di ogni tentazione, di ogni prova: fidarsi o no di Dio, accogliere la sua volontà o voler costruire il proprio destino assecondando i propri istinti o lasciandosi dominare dalle proprie paure. Questa è la radice di ogni peccato o la scelta stessa della santità!
V 8: L’omicidio. Il demone dell’invidia, del progresso ad ogni costo, della concorrenza spietata si è impossessato di Caino e lo porta fino a progettare l’uccisione del fratello. In aperta campagna, di fronte alla conquista e allo sfruttamento delle risorse della terra, si scatena il conflitto, fino alla soppressione violenta di una parte (anche se è il fratello), in un gesto che diventerà per sempre un tragico simbolo di violenza e ingiustizia. La concisione del racconto lascia spazio a tutte le violenze che seguiranno questa prima, fino alla condanna di Cristo (come lui stesso ricorderà in Mt 23,35). Abele diventa il simbolo di ogni innocente ucciso dalla violenza di altri uomini; il simbolo di ogni minoranza soffocata dalla prepotenza dei forti. Abele è diventato simbolo di Cristo stesso, tradito e messo a morte dai suoi fratelli, come troppi altri martiri della storia umana.
vv. 9-12: La condanna. Anche questo secondo peccato avviene lontano dagli occhi di Dio, ma esso non può sfuggire al suo giudizio (coscienza). Dio istruisce un processo e pronuncia una sentenza di condanna. L’istruttoria parte sempre dalla domanda: Dove sei? Dov’è Abele tuo fratello? Caino fa il sicuro, l’arrogante e, come i suoi genitori, rifiuta di assumersi le sue responsabilità, di guardare in faccia le conseguenze delle sue scelte. Ma c’è un testimone che accusa, una voce che si alza dalla terra, un grido che sale a Dio da ogni luogo di violenza: è il sangue dei martiri, sono le preghiere dei perseguitati, sono le lacrime dei torturati, è la voce di tutte le ingiustizie commesse nel mondo. E’ un grido che non si può coprire con un po’ di terra (come facevano gli antichi con il sangue) e neppure con la censura e la manipolazione dell’informazione (come fanno oggi i potenti). Dio non è indifferente al dolore umano, alle ingiustizie: ne chiederà conto nel giorno del giudizio.
La condanna di Caino esprime il giudizio negativo di Dio verso ogni forma di violenza e ingiustizia. E la condanna è dura, assoluta, tanto da essere espressa sotto forma di maledizione: la terra stessa maledirà e respingerà Caino perché l’ha contaminata col sangue di suo fratello. La violenza e lo sfruttamento indiscriminato delle risorse portano in sé la loro condanna: l’inaridimento del suolo e la fine delle civiltà che li praticano. La violenza genera morte, sterilità, insicurezza (vagabondo e fuggiasco) fino al rischio che la natura si rivolti contro l’uomo e lo distrugga. La tragicità dei rischi nucleare ed ecologico che oggi viviamo è già iscritta nell’arroganza violenta di una globalizzazione senza regole, senza rispetto della vita e dei più deboli. Caino distrugge, non migliora la terra!
vv. 13-16: La misericordia. La condanna insita in ogni atto di violenza e di ingiustizia (perdita della comunione con Dio e con il fratello, lotta per le risorse della terra, solitudine e sensi di colpa) porta Caino al pentimento e ad una supplica accorata verso Dio, intrisa di sofferenza: voleva essere felice da solo, essere padrone di tutta la terra, mettersi al posto di Dio giudicando le sue scelte… e si ritrova solo, debole, scacciato dalla sua stessa terra, senza protezione e difesa. Retaggio della violenza sono il rimorso, l’aumento delle paure e il terrore della morte.
Ma Dio è più grande dell’uomo; il suo amore è più forte del giudizio; la sua misericordia è più immensa del peccato. Dio resta vicino a Caino, lo protegge e gli dona un segno: lui lo difenderà dalla sua stessa violenza, dalle conseguenze di quello che lui ha messo in moto. Con questo segno Dio mette un freno alla violenza, le pone un limite invalicabile. Il “segno di Caino” (tatuaggio, acconciatura dei capelli, legge del taglione?) è stato variamente interpretato lungo i secoli, ma certamente indica il rifiuto della vendetta e un limite nella pena per i delitti commessi. Nessuno, neppure lo Stato, deve essere mosso da sete di vendetta nell’intervenire contro il male, nell’impegno di fare giustizia. Deve essere guidato invece dalla ricerca del riscatto della persona e dalla tutela dei suoi diritti fondamentali. Incresciosi episodi di recidività non devono offuscare questa scelta di fondo di ogni società che voglia dirsi civile.
Il “segno di Caino” diventa anche un fatto collettivo: una città di rifugio per i senza patria, gli esuli, i perseguitati. E’ l’esperienza storica delle città-rifugio create dal popolo ebraico per attutire la dura legge della vendetta (Nm 35,9-28). E’ diventato poi il diritto di asilo, riconosciuto in moltissime civiltà. E’ sempre un segno che rompe la catena della violenza e dà alle persone la possibilità di riscattare i loro errori, di ricominciare di nuovo, di avere un minimo di sicurezze e di dignità. Il “segno di Caino” contiene l’annuncio che la persona è più importante degli errori che ha fatto; che Dio è difensore dei deboli e degli oppressi; che nessuno è padrone della vita di un’altra persona e che per tutti deve esserci una possibilità di riscatto, secondo lo stile e la proposta di Dio.
Anche questo racconto si chiude con un segno di speranza: la nascita di Set, terzo figlio di Adamo ed Eva, che viene a mitigare il dolore per la perdita di Abele e a controbilanciare la discendenza di Caino che porta nel mondo una civilizzazione sempre più violenta (canto della vendetta di Lamech). Enos, figlio di Set, è presentato come un vero credente, iniziatore della religione e figura che anticipa Noè, l’unico uomo giusto in mezzo a un’umanità peccatrice.