Sconfinamenti della missione (5)

mosaico nella Cattedrale di Saint Sebastian progettato da gesuita Marko Ivan Rupnik (2011) con i Santi Cirillo e Metodio

Mosaico nella Cattedrale di Saint Sebastian a Bratislava, Slovacchia, progettato dal gesuita Marko Rupnik (2011) con i Santi Cirillo e Metodio

Luca 10, 1-9: “Evangelizzare non è conquistare…”.
(Commento di don Franco Mastrolonardo)

Il Vangelo di oggi e la festività di due grandissimi evangelizzatori come Cirillo e Metodio mi danno l’opportunità di tirar fuori dal  cilindro un pensiero che mi è maturato dopo la visione del film “Silence” di Martin Scorsese.
Il film racconta delle missioni in Giappone a meta del XVII secolo.
Il regista Scorsese non ha voluto semplicemente raccontare la cronaca e l’eroicità dei martiri. E’ andato a guardare invece la complessità della missione ponendo come protagonisti dei lapsi, cioè dei cristiani che hanno abiurato la loro fede.
In qualche modo ha costretto lo spettatore a demitizzare la figura eroica dei gesuiti e a guardare la missione nè come una conquista, ma neppure come una vetrina di martiri. No, la missione è passata grazie a uomini che, per motivi che non andiamo ad esaminare ora, hanno accettato di assumere la religiosità, la cultura e i riti della popolazione indigena giapponese, fin quasi al paradosso di aver rinnegato pubblicamente la propria fede. Una sorta di martirio nel martirio, una kenosi, uno spogliamento totale. Davvero agnelli in mezzo ai lupi, tenuti lì prigionieri per tutta una vita a vivere come lupi. Ma questo ci ha dato modo di scoprire che i lupi non sono poi così cattivi. Mi spiego meglio. Quando Gesù parla di lupi di fatto si riferisce anche a quelli che poi alla fine del brano di Vangelo li accolgono. Sono lupi anche quelli. Ecco, stando in casa loro, mangiando quello che mangiano loro e vivendo come loro…così è passato il Vangelo. Non c’è bisogno di portare tutti i nostri segni, i nostri schemi, la nostra cultura tant’è che Gesù chiede ai suoi discepoli di andare senza nulla. Nel film di Scorsese il gesuita Ferreira ha saputo accettare la sfida di dire il Vangelo non con le parole e i segni, che spesso diventano “idoli concettuali”, ma con un linguaggio “nuovo”, appreso dalla cultura indigena che non ha intaccato l’essenzialità del Vangelo. Così dobbiamo fare anche noi con questa cultura che sta sopravanzando: non averne paura anche se siamo in inferiorità, non osteggiarla con i nostri schemi trapassati e cogliere il nuovo e il bello che c’è. Gesù sa difendersi da solo, non ha bisogno di soldati ma di amanti.

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