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ALTRE AFRICHE
di Davide Maggiore

Negli anni, l’ha vista prendere tante forme: quella delle leggi razziali, degli slogan da comizio, delle semplificazioni di stampa. Ma se gli si chiede di definire cos’è la xenofobia, Paul Verryn, vescovo metodista sudafricano, usa una parola sola: “È una maledizione”. E continua: “Come altro definire il fatto che persone già vulnerabili vengono attaccate e marginalizzate proprio nel luogo che doveva essere, per loro, sicuro?”. Di rifugiati, al centro delle cronache in Sudafrica come in Europa e negli Stati Uniti, questo 65enne religioso dagli occhiali tondi e dalla barba curata parla da esperto: sono migliaia quelli a cui ha dato protezione fino al 2015, quando era responsabile della Central Methodist Mission, nel centro di Johannesburg. Una chiesa diventata un riparo per i fuggiaschi, nella tradizione delle “città rifugio”, che da tempo ha ripreso vigore. E dopo la fine di quell’esperienza, Verryn non ha smesso di impegnarsi perché nuovi “santuari” sorgessero, cercando di coinvolgere nella sua battaglia anche altri leader religiosi sudafricani.

Dei migranti si prende cura perché è stato, a sua volta, un perseguitato. Bianco nel Sudafrica dell’apartheid, aveva tutto per stare dalla parte dei forti e dei potenti. Scelse di schierarsi con chi chiedeva uguaglianza. Di abitare a Soweto, cuore della rivolta nera. E dopo l’avvento della democrazia continuò a guardare a chi restava senza diritti. Migranti e rifugiati, in fuga – soprattutto – dalla povertà e dalla repressione in Zimbabwe. Tra le due esperienze, traccia un parallelo illuminante: “Io ero all’opposizione e la prima cosa che il regime sudafricano cercò di fare fu togliermi una fonte di reddito. Allo stesso modo, non è facile definire qualcuno ‘migrante economico’, perché le sue difficoltà finanziarie possono essere dovute al fatto di trovarsi dalla parte opposta rispetto a chi ha il potere”.

Il potere e chi lo detiene è per Verryn la chiave della questione. Può esserlo nel male: “Prendiamo Donald Trump, che usa la situazione dei rifugiati per cercare di guadagnare punti, politicamente, agli occhi di un pubblico disinformato: questo è l’opportunismo politico più perverso che si possa immaginare”. Ma il potere può – e deve – diventare strumento anche di bene. Si può partire dal basso, come nel caso dell’ultimo progetto a cui il prelato si sta dedicando: trovare spazi in cui i rifugiati possano riprendersi dai traumi subiti durante il viaggio. “È una questione di cui non ci siamo quasi occupati – spiega – ma queste persone hanno ferite profonde e servono cure”. Tuttavia  le iniziative nate nella società, non potranno andare avanti se la questione non diventerà politica: “Mi rivolgo a chi è al governo – conclude infatti Verryn – perché questo tipo di lavoro e il suo finanziamento non possono essere lasciati solo a organizzazioni no profit e ong; non è un comportamento responsabile!”.

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16.6.2017