Formazione Permanente – italiano 7/2018:
Testo word: FP.it 2018-7 L’altro bussa alla nostra porta
Testo PDF : FP.it 2018-7 L’altro bussa alla nostra porta
L’altro bussa alla nostra porta. Un segno dei tempi?
I. la dimensione spirituale ed ecclesiale
Introduzione di Franco Passuello
1. Perché la scelta delle migrazioni e dei migranti
(…) Abbiamo scelto la questione dei migranti e delle migrazioni perché la avvertiamo come una realtà drammatica che racchiude in sé importanti significati etici, sociali, politici… E spirituali.
L’esodo di grandi moltitudini ci rivela la gravità dell’ingiustizia di questo mondo: fuggono dal terrorismo, dalla guerra, da regimi integralisti e autoritari, dalla fame e dal degrado umano. Accade in molte parti del mondo e accade, vicino a noi, in Medio Oriente e in Africa. È una realtà che ci chiama in causa anzitutto come esseri umani e anche perché sta avendo un forte impatto nei paesi di arrivo, cominciando dal nostro e dall’Europa. Un impatto destinato a durare ancora a lungo.
Vediamo le condizioni lesive della dignità umana in cui molti sono costretti a vivere. Milioni di persone – soprattutto donne, vecchi, bambini – sono ammassati in immensi campi profughi; centinaia di migliaia tentano di giungere in un’Europa vista come terra promessa e nel loro percorso vengono vessati, violati e depredati da trafficanti senza scrupoli; a migliaia muoiono nel deserto o in mare. E quando riescono a giungere in Italia, Turchia, Grecia o Spagna, vengono rinchiusi e respinti oppure costretti ad entrare in clandestinità e a vivere in condizioni di vera marginalità e schiavitù. Accade anche a molti che pure, stando al diritto internazionale, dovrebbero essere riconosciuti come rifugiati.
Siamo in presenza di una gigantesca violazione dei più elementari diritti umani, di un dramma umanitario di proporzioni inaudite che esige risposte di accoglienza, di solidarietà e pretende con urgenza politiche incisive di riduzione degli squilibri e delle disuguaglianze. Prevalgono, invece, atteggiamenti di paura, rifiuto, ipocrisia, indifferenza…
Sia chiaro, noi siamo consapevoli che nelle chiese e nella società civile, ci sono molte esperienze, anche splendide, di accoglienza e condivisione… Purtroppo, però, restano insufficienti e minoritarie. Anche tra i cristiani. E decisamente carente è la risposta politica degli Stati e dell’Unione Europea, nonostante si debba riconoscere che l’Italia appare meno inadempiente di altri.
Questa, insomma, è una questione che ci chiama in causa come esseri umani e come cittadini e che tanto più ci interpella come cristiani. L’incontro di oggi lo dedichiamo alla risonanza spirituale che questa tematica ha in ciascuno di noi e all’invocazione di un discernimento che illumini questa piccola comunità riunita nel Suo nome.
2. Un importante “luogo teologico”
- Cosa ci dice questo esodo di popoli nella luce della nostra fede?
- Nel nostro essere popolo di Dio in cammino alla sequela del nostro Signore che è Signore della storia?
- Lo riconosciamo come un luogo teologico, cioè come un luogo privilegiato nel quale è possibile discernere la presenza operante di Dio?
- Lo avvertiamo come una chiamata all’assunzione operosa di responsabilità per i credenti e per le donne e gli uomini di buona volontà?
Che la storia sia un “luogo teologico” oggi è chiaro. Una crescente consapevolezza la si deve alla riflessione teologica del Novecento che ha influenzato e interpretato il Concilio Vaticano II (Teilhard de Chardin, Congar, Chenu, Daniélou, Rahner, De Lubac, Schillebeeckx…). Nell’incontro reale tra il Dio trinitario e l’uomo sta il senso vero della storia. È qui che Dio si è fatto parola ed evento: il cristianesimo non è un sistema di idee, ma un'”economia” di salvezza. La fede cristiana è risposta a un evento che ha radici escatologiche ma si esprime nella storia. È stato così con il Mistero Pasquale, con l’incarnazione, crocifissione, resurrezione e glorificazione del Figlio di Dio. Ed è così con la Chiesa in cammino.
Per il cristiano, dunque, il creato e la storia sono attraversati dai segni del kairos, del Tempo che si sta compiendo. Un tempo non lineare, fortemente segnato dal conflitto con le forze che si oppongono a quel disegno di salvezza. Per questo è necessario un continuo discernimento spirituale. Solo nella fede, solo lasciandosi guidare dallo Spirito del Figlio, possiamo individuare i luoghi della storia dove è possibile riconoscere e incontrare l’agire salvifico di Dio.
Ecco: a noi (ma non siamo i soli) è sembrato di intravvedere che il grande esodo migratorio, per la portata epocale delle sue radici e delle sue conseguenze, sia uno di questi luoghi. E oggi, nel rimetterci in cammino per verificare questa intuizione, ci facciamo orientare dalla bussola che non tradisce: la sua Parola.
Questi flussi migratori ci gridano un disordine del mondo che già altre volte, in un passato anche non recente, abbiamo cercato di interpretare. Questo disordine violento e ingiusto ci dice che stiamo vivendo un tempo rivelatore. L’esodo dalla guerra e dall’ingiustizia di grandi moltitudini può essere interpretato, alla luce della Parola, come l’affiorare visibile del conflitto escatologico descritto soprattutto nell’Apocalisse (in particolare Ap 20).
La Parola, però, ci dice anche altro. Il migrare dei popoli, nella narrazione biblica, è un segno in sé. Continuamente viene ricordato che all’origine e nella storia della nostra fede c’è un popolo che sperimenta la condizione di migrante e di forestiero. Non ci parla solo della loro sofferenza sociale; ha un significato spirituale: per convertirsi alla fede in Dio, per stabilire un’alleanza con lui, è necessario uscire da sé e dalla mondanità, mettersi in un esodo di liberazione.
Il libro della Genesi è pieno si riferimenti a questa condizione di continuo sradicamento delle generazioni dei Patriarchi: da Abram-Abramo (Gen 12) a Isacco (Gen 26) a Giuseppe e ai suoi fratelli (Gen 47 in particolare), per arrivare, nel Primo Libro dei Re al profeta Elia (1Re 17). E a spingerli alla migrazione sono in genere siccità e carestie (oggi sarebbero considerati migranti economici).
Ci sono poi due grandi momenti dove l’intero Israele vive l’esperienza drammatica dell’esilio e dell’esodo: la lunga schiavitù in Egitto e la deportazione in Babilonia.
Questa condizione viene del resto ritualizzata come testimoniano, ad esempio, il libro del Deuteronomio (26,14): «Mio padre era un Arameo errante…» e molti Salmi.
Il popolo dell’alleanza con Dio è sempre straniero e pellegrino su questa terra. La Bibbia ne ricava un imperativo morale universale:
Lv 19,34 (cfr. Dt 10,19): Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto.
Nel Nuovo Testamento questa condizione diventa costitutiva del tempo dell’attesa, del nostro essere cristiani. Questa indicazione può essere letta già nei primi momenti dell’incarnazione: per il solo fatto di essere nato, Gesù di Nazareth è temuto e perseguitato dal potere. E i suoi genitori, per salvarlo, debbono rifugiarsi in Egitto.
Ma nei vangeli e ancora di più nelle Lettere cattoliche, questo senso profondo della fede come esodo viene ripreso e sviluppato. I cristiani sono tutti stranieri e pellegrini; abitano il mondo ma non gli appartengono.
Dal Vangelo secondo Giovanni: 17,14: Io ho dato a loro la tua parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo.
Dalla Lettera di Paolo ai Filippesi: 3,20: La nostra patria invece è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo.
Dalla Prima Lettera di Pietro: 2,11: Carissimi, io vi esorto come stranieri e pellegrini ad astenervi dai desideri della carne che fanno guerra all’anima.
Dalla Lettera agli Ebrei (al termine di una genealogia della fede che parte da Adamo e giunge a Sara): 11,13: Nella fede morirono tutti costoro, pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati di lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sopra la terra.
E infine ci è molto nota la A Diogneto: V,5 :
«Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera»;
Dunque, nella luce della fede, sulla Terra siamo tutti stranieri o forse nessuno è straniero:
Dalla Lettera di Paolo agli Efesini: 2,19-20: Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù.
È certo comunque che Dio stesso ha a cuore il forestiero. Nel Nuovo Testamento questa predilezione è inequivocabile nel Vangelo secondo Matteo. Qui Cristo stesso si identifica con il forestiero. Incontrare e accogliere il migrante vuol dire incontrare e accogliere Lui.
Mt 25,35-36: Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi.
E nel Libro dell’Apocalisse è scritto: 3,20: Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me.
Accogliendo “il più piccolo dei suoi fratelli”, dunque, accogliamo Cristo ed entriamo in intimità con lui.
(…) O il passo del Vangelo secondo Luca (ma anche Mt 11,25-26): 10,21: In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli».
Lo straniero sradicato dalla sua terra non è forse un piccolo tra i piccoli? Nei suoi confronti, allora, non ci è chiesto solo di esprimere accoglienza nella carità, di riconoscere i suoi diritti. Ci è chiesto di metterci al suo ascolto.
Bibbia e magistero sociale, comunque, non tacciono sui diritti. Ancora il Deteuronomio (27,19) afferma: “Maledetto chi lede il diritto del forestiero, dell’orfano e della vedova!”.
E Giovanni XXIII, nella Pacem in Terris (n. 12), riprende la questione dei diritti in termini moderni:
«Ogni essere umano ha il diritto alla libertà di movimento e di dimora nell’interno della comunità politica di cui è cittadino; ed ha pure il diritto, quando legittimi interessi lo consiglino, di immigrare in altre comunità politiche e stabilirsi in esse. Per il fatto che si è cittadini di una determinata comunità politica, nulla perde di contenuto la propria appartenenza, in qualità di membri, alla stessa famiglia umana; e quindi l’appartenenza, in qualità di cittadini, alla comunità mondiale».
Possiamo dunque confermare che questa grande migrazione è un luogo teologico: basta questo per affermare che è anche un “segno del Tempo”? L’altro che bussa alla nostra porta può dunque essere un’occasione per noi? non solo per accogliere, per conoscere altre fedi e altre culture, ma per approfondire e verificare la nostra fede?
3. Un segno del Tempo?
“Segni dei tempi”: ricordate? Il concetto teologico ha radici nella parola di Dio, ma è stato ripreso e messo in luce dalla ricerca teologica del Novecento che ho già citato. La Chiesa, però, l’ha fatto proprio con Giovanni XXIII. Fu lui ad usarlo ufficialmente, per la prima volta, nel Natale 1961 in un atto che sarebbe diventato storico: la bolla Humanae Salutis con la quale indiceva il Concilio Vaticano II: «facendo nostra la raccomandazione di Gesù di saper distinguere i “segni dei tempi” (Mt 16,4), ci sembra di scorgere, in mezzo a tante tenebre, indizi non pochi che fanno bene sperare sulle sorti della chiesa e dell’umanità».
In seguito papa Giovanni confermò l’importanza innovatrice che attribuiva al concetto di “segni dei tempi” facendone un cardine della sua ultima, grande enciclica, la Pacem in Terris (1963).
Il Concilio ha poi consacrato definitivamente il concetto. Nella costituzione Gaudium et Spes:
n. 4 «Per svolgere questo compito, è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo».
n. 11 «Il popolo di Dio, mosso dalla fede, per cui crede di essere condotto dallo Spirito del Signore, che riempie l’universo, cerca di discernere negli avvenimenti, nelle esigenze e nelle aspirazioni, cui prende parte insieme con gli altri uomini del nostro tempo, quali siano i veri segni della presenza e del disegno di Dio. La fede, infatti, tutto illumina con una luce nuova…».
E nel decreto Presbyterorum Ordinis: n. 9
«…[ i presbiteri ] siano pronti ad ascoltare il parere dei laici, considerando con interesse fraterno le loro aspirazioni e giovandosi della loro esperienza e competenza nei diversi campi dell’attività umana, in modo da poter assieme riconoscere i segni dei tempi».
Anche Paolo VI, nella sua prima enciclica, Ecclesiam suam, riprende (n. 52) il concetto di segni dei tempi.
Torno però sul passo di Matteo già parzialmente citato da papa Giovanni (Mt 16,1-4):
1 I farisei e i sadducei si avvicinarono per metterlo alla prova e gli chiesero che mostrasse loro un segno dal cielo. 2 Ma egli rispose: «Quando si fa sera, voi dite: Bel tempo, perché il cielo rosseggia; 3 e al mattino: Oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo. Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non sapete distinguere i segni dei tempi? 4 Una generazione perversa e adultera cerca un segno, ma nessun segno le sarà dato se non il segno di Giona». E lasciatili, se ne andò.
Qui l’espressione “segni dei tempi” assume con chiarezza un significato escatologico: si proietta nel presente messianico che sta preparando la pienezza del Regno instaurato nel Mistero Pasquale. I “segni dei tempi”, dunque, ci rinviano al “Segno del Tempo”.
Siamo chiamati a discernere i segni di bene presenti dentro l’oscurità attuale della storia (come nella Pacem in Terris) per individuare in essi il punto d’incontro del Dio trinitario con l’umanità. E così ci mettiamo sulla traccia del «Segno del Tempo» per riconoscere la presenza efficace del Messia, il segno definitivo, il “segno di Giona”, l’unico che sarà dato a “questa generazione”.
Ecco, al cuore del nostro discernimento sta Cristo. Lo dice esplicitamente un passo del Vangelo di Luca (12,29-32) dove non si parla di segni dei tempi in senso stretto e dove è ancora più evidente che ci si riferisce a Cristo come l’unico segno messianico che ci è chiesto di riconoscere.
Provo a proporre una sintesi di quel che la Parola mi ispira sul nostro tema: questo esodo è certo il frutto velenoso di un mondo sempre più ingiusto ma è anche un’istanza di ribellione dei popoli a questa ingiustizia, la ricerca di ristabilire la propria dignità umana negata. La Pacem in Terris (nn 23-25) aveva individuato come segno dei tempi i movimenti di liberazione dal colonialismo:
Quei movimenti, ora lo sappiamo, sono poi rimasti imbrigliati (e in parte svuotati) dalle nuove forme di dominio e di sviluppo ineguale imposte prima dagli opposti imperialismi del mondo diviso in blocchi, poi dalla globalizzazione neoliberista.
È arbitrario individuare una continuità tra quelle istanze di ribellione e di liberazione e questo tentativo estremo di sottrarsi ad un destino ingiusto attraverso migrazioni di massa?
Nei flussi di migranti di questi anni, non si profila anche la fine di una forma non dichiarata di apartheid imposto ai popoli del Sud del mondo? Chi vuole liberarsi dall’ingiustizia non libera anche chi l’ha praticata?
4. Riconoscere e accogliere questo segno
La nostra fede può discernere, dentro il travaglio del presente, i riflessi della Luce che cresce. Il grande esodo migratorio ha certamente caratteri ambivalenti. Può essere o non essere riconosciuto come un “Segno del Tempo”. È certamente nostra responsabilità di cristiani, però, non assecondare lo spirito egoistico e puramente difensivo che prevale intorno a noi.
Si può comprendere ma non si può accettare e, soprattutto, noi non possiamo condividere che i migranti suscitino in molti, anche cristiani, paura e rifiuto.
Tocca senz’altro a noi riconoscere che nell’esodo di queste moltitudini c’è disperazione, sofferenza, violazione di elementari diritti umani ma c’è anche il loro coraggio di mettersi in un nuovo cammino, di affrontare rischi e pericoli enormi; e c’è il loro concreto presentarsi nelle nostre città, chiedendoci personalmente riconoscimento e accoglienza. C’è il loro interpellare e inquietare la nostra fede, il loro offrire a noi la possibilità di convertirci e di fare la volontà di Dio, di coadiuvare l’azione salvifica del Figlio e del suo Spirito.
Il nostro discernimento sarà una cosa seria solo se sarà un’occasione di conversione che ci motiva a fare la nostra parte: per testimoniare, per accogliere, per ascoltare. Ci è chiesto di collaborare al compiersi del Regno, di “ordinare le cose del mondo secondo Dio”, come afferma la Lumen Gentium: n. 31: Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio.
- Siamo disposti a coltivare in noi questa tensione collaborativa?
- a tradurla in “passione attiva e paziente”, quindi in capacità reale di agire superando gli ostacoli, sopportando le prove, promuovendo ogni germoglio del tempo che nasce?
5. Invocare risposte d’amore e di conversione
Esprimere, per quel che ci è dato, una risposta d’amore e di conversione: sono questi i frutti che invochiamo nel nostro discernimento spirituale. Se accadrà, allora potremo contribuire a trasformare un fenomeno drammatico e sconvolgente come un segno del Veniente, come un segno del Regno.
Nello straniero sradicato che bussa alla nostra porta, Cristo stesso ci chiede di essere accolto e ci offre una possibilità privilegiata di essere accolti da lui. Ma può essere vero anche il contrario.
Nel racconto dei discepoli di Emmaus (Lc 24, 13-35), il Risorto viene scambiato per uno straniero che attraverso il dialogo e la condivisione del cammino conduce al riconoscimento del Mistero Pasquale.
- Fino a che punto ci lasciamo interpellare da questi esseri umani sofferenti che bussano alla nostra porta?
- Che senso ha, per noi, la loro sofferenza?
- La avvertiamo come chiamata del Signore?
- Sentiamo che la nostra risposta d’amore e di conversione può contribuire a trasformare questa realtà sconvolgente in un Segno del Tempo?
- Fino a che punto siamo consapevoli che questo esodo giudica gli assetti attuali delle nostre società e ci spinge a ripensarle per renderle meno ingiuste?
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