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ALTRE AFRICHE
di Davide Maggiore

La tentazione sarebbe citare il passo – notissimo – del romanzo “Il Gattopardo”: perché tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi. A prima vista, in effetti, la decisione di re Mswati III di modificare il nome del paese che guida, da Swaziland ad eSwatini, può sembrare un capriccio dell’ultimo monarca assoluto d’Africa: entrambi i nomi significano, in lingue diverse, ‘terra degli Swazi’.

Per quanto arrivata a 50 anni dall’indipendenza, però, la scelta non è unica: ricalca quella di altri Stati del continente al momento di lasciarsi alle spalle il colonialismo. Dal Nyasaland diventato Malawi alla Costa d’Oro, che – non senza una forzatura geografica – riportò in vita il nome dell’antico impero del Ghana. Esempio, quest’ultimo, che dimostra quanto sia diffusa in Africa la consapevolezza del valore politico – e non semplicemente simbolico – del linguaggio.

Politica è stata la scelta del Fronte Polisario e della Repubblica Araba Sahrawi Democratica (che siede all’Unione Africana ma non è riconosciuta dall’Onu), al momento di reclamare la sovranità sull’ex Sahara spagnolo contro il Marocco. Per prendere le distanze da Rabat decisero di affiancare all’arabo lo spagnolo – e non il francese – come idioma ufficiale.

Più concrete ancora le conseguenze della decisione del governo rwandese guidato dal Fronte Patriottico di passare dal francese all’inglese. Oltre a sottolineare il contrasto con Parigi, accusata di complicità nel genocidio del 1994, la mossa ha aiutato le autorità di Kigali a consolidare rapporti con altre nazioni e istituzioni anglofone, non solo a livello continentale.

E considerazioni strategiche – più che i deboli e datati legami culturali – hanno certamente giocato un ruolo anche nel tentativo (riuscito) della Guinea Equatoriale, ex colonia spagnola circondata da Stati prevalentemente francofoni, di farsi ammettere – era il 2014 – nella Cplp, la comunità dei paesi di lingua portoghese. Con ovvi benefici d’immagine e relazioni diplomatiche per la piccola nazione petrolifera, costantemente sotto accusa in materia di diritti umani e corruzione. E nel campo della “diplomazia linguistica” il paese guidato da Teodoro Obiang Nguema è certamente in buona compagnia: tra i casi più evidenti in Africa c’è – poco sorprendentemente – la Cina.

Nel continente sono ormai una quarantina gli istituti Confucio per la promozione della lingua e della cultura cinese e i corsi di mandarino si moltiplicano nelle scuole di ogni grado in molti paesi. Contribuendo, tra l’altro, a diffondere un’immagine quotidiana e rassicurante della superpotenza asiatica. E l’immagine potrebbe essere – per tornare all’inizio – anche l’obiettivo della mossa di re Mswati riguardo eSwatini. Una variazione di nome nella miglior tradizione del rebranding commerciale: cambiare l’identità di un prodotto per rilanciarlo tra il pubblico. Quel che resta da vedere, è se funzionerà.

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7.5.2018