PRIGIONIERI DELLA “MISSIONE EROICA”

Due encicliche di Pio XII sanciscono uno sguardo più attento alla cultura e alla fede dei popoli, e ridefiniscono il ruolo delle missioni e del clero locale. Ma molti missionari faticano a identificarsi con il nuovo corso: tirano dritto e difendono la loro visione del mondo e dell’evangelizzazione.


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Nella foto: 1906, alcuni missionari appena sbarcati dal vascello Redemptor. A prua, in alto, monsignor Franz Xavier Geyer (Archivio Nigrizia).

di Mauro Forno

Negli anni successivi al 1945, con la presa d’atto dell’ormai prossima nascita di un nuovo ordine internazionale al quale sarebbe stato necessario adeguarsi, la Santa Sede decide di imprimere una decisa accelerazione alle trasformazioni che ha già iniziato a promuovere nei decenni precedenti. Una di queste si lega alla promozione del clero locale, necessaria per il passaggio dalle missioni – fino ad allora sottoposte alla Sacra congregazione di Propaganda fide – a una serie di nuove Chiese,direttamente dipendenti dalla Segreteria di stato.

La logica, politica e pastorale, è chiara: le Chiese locali, guidate da vescovi e sacerdoti indigeni, incontreranno meno problemi a rapportarsi con i nuovi governi postcoloniali, con i quali è necessario istaurare un dialogo. Ciò soprattutto se si vogliono conservare le tante strutture essenziali per garantire un futuro alla Chiesa, a partire da ospedali, scuole e centri di formazione, attraverso cui si potrà e dovrà formare la classe dirigente dei futuri stati indipendenti.

I passaggi decisivi per la trasformazione delle missioni in giovani Chiese vengono ufficialmente sanciti da papa Pio XII attraverso due fondamentali documenti: la lettera enciclica Evangelii praecones del 1951 e la lettera enciclica Fidei donum del 1957, entrambe tese ad affermare una nuova attenzione della Chiesa per le culture, le tradizioni, i costumi e la fede degli altri. La Fidei donum sancisce non a caso il principio secondo cui non solo l’episcopato occidentale, ma tutti i vescovi del pianeta, in forza della loro appartenenza al collegio episcopale, devono ritenersi pienamente corresponsabili dell’azione missionaria. Le missioni non dovranno più essere solo delle strutture incaricate di “offrire”, ma dovranno diventare anche dei soggetti disponibili a “ricevere” e a “imparare”. Lo scambio tra il centro e la periferia dovrà essere vissuto come un fenomeno “globale” e non come un compito da delegare a piccole minoranze di volonterosi, provenienti dal nord del pianeta. (…)

LA NUOVA AFRICA TROVA VOCE IN ITALIA

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Nella foto: (1929), Il Cairo, Egitto. Due missionari seguono una lezione di arabo
(Archivio Nigrizia).
 


Con l’editoriale del gennaio 1958 si chiude l’epoca della propaganda e il mensile comboniano prende con decisione la strada dell’informazione. Non senza tensioni all’interno della congregazione. Decisiva la direzione di Enrico Bartolucci che ha guidato la rivista dal 1952 al 1962.

di Mauro Forno

La stampa missionaria rappresenta una cartina di tornasole davvero preziosa per comprendere la mentalità ancora ampiamente diffusa nel mondo missionario nel periodo considerato. A colpire è soprattutto la sua spiccata impostazione paternalistica, tesa a impressionare e coinvolgere i lettori, a commuoverli, a toccarli nel profondo.

I lettori europei non vogliono informarsi «ma divertirsi», scrivono nel 1956, nella loro riflessione sulla stampa missionaria Propagande et vérité pubblicata in Des prêtres noirs s’interrogent, due sacerdoti africani come Robert Dosseh (originario del Togo, futuro arcivescovo di Lomé) e Robert Sastre (originario del Benin, futuro vescovo di Lokossa).

Per loro, le riviste missionarie sono scritte essenzialmente per far vivere ai propri lettori occidentali i momenti salienti – veri o presunti – dell’esistenza pittoresca di una strana «fauna esotica», verso cui provano al tempo stesso ribrezzo e compassione. Esse fanno per questo molto male «a tutto un popolo e alla stessa opera missionaria», perché tendono a ridurre i problemi degli indigeni a dei problemi di bambini, a degli ineluttabili accidenti, che solo i «tutori» (i missionari) o la «commissione di tutela» (il mondo cristiano europeo) sono in grado di risolvere.

All’interno di questo orizzonte, Nigrizia è una delle poche riviste che, specie a partire dagli anni Cinquanta, dimostra la volontà di avviare una riflessione autocritica sul proprio passato, cercando anche di dare conto degli sviluppi dei movimenti di indipendenza in molte colonie e dei tentativi di adattamento del cristianesimo alle varie culture (dei cammini di inculturazione della fede, per fare riferimento al neologismo coniato nel 1956 dal missionologo Pierre Charles).

Già prima dell’inizio del pontificato giovanneo, in un editoriale pubblicato nel gennaio 1958, Nigrizia scrive: «A scanso d’equivoci diciamo subito: all’Africa nuova occorre una voce nuova. Siamo orgogliosi del nostro passato, ma appunto per questo vogliamo essere degni del nostro presente. Molte cose sono oggi cambiate per quella Nigrizia che la direzione della rivista nel suo articolo programmatico del gennaio 1883 definiva “la misera schiava dell’inferno e degli uomini”. È un linguaggio questo che oggi suona falso. E nonostante la venerazione che noi abbiamo per la nostra vecchia e gloriosa rivista, non vogliamo ostinarci in una anacronistica aderenza ad una formula superata. […] Siamo fermamente convinti che i neri senza i bianchi non potranno far molto, ma i bianchi senza i neri non potranno far niente per costruire l’Africa di domani. […] Noi vogliamo che in Africa sorga una civiltà cristiana, ma nera, non bianca».

Nel numero di maggio 1958, il mensile pubblicherà una interessantissima analisi – Abbiamo riso troppo degli stregoni – firmata dal futuro vescovo e vicario apostolico di Esmeraldas (Ecuador) Enrico Bartolucci, molto lucida nei contenuti e anche piuttosto stridente con i messaggi…

LETTERA DEL COMBONIANO PIETRO TIBONI:
«DOBBIAMO ESSERE UNA COMUNITÀ APERTA»

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Nella foto: 1920, Arua, Uganda. Padre Antonio Vignato e padre Giuseppe Zambonardi davanti alla sede della missione comboniana (Archivio Nigrizia).

Nato a Tiarno di Sopra (Trento) nel 1925 e morto a Lacor-Gulu (Uganda) nel 2017, padre Tiboni indirizza questa lettera probabilmente a Franco Pellegrini, che allora si preparava a diventare prete comboniano.

di Pietro Tiboni

Kitgum, 30.1.71. Caro Franz,

[…] passo ora a descrivere alcune difficoltà in cui la nostra opera missionaria è presentemente involta. La prima è la distanza e direi l’abisso che esiste tra noi missionari e gli acholi. Tale separazione ha delle cause in noi e negli acholi (etnia ugandese, ndr) stessi. Tu sai che come preti noi siamo molto clericali, che come religiosi siamo comunità chiuse pronte a dire e fare molto bene per gli altri, ma incapaci di comunione fraterna con gli altri. A questo aggiungi che siamo stranieri di razza diversa e di cultura diversa con possibilità tecniche e finanziarie.

Assommando tutto ciò potrai capire come la Chiesa si presenta come qualcosa di verticale, capace di offrire molti servizi apprezzatissimi dagli acholi, rispettabile ed ammirabile. La missione nostra è una rocca da cui discende luce e servizio per i poveri, ma da cui non si può avere comunicazione di vita. […] Noi possiamo istruire, aiutare, guarire… ma abbiamo un’incapacità congenita di formare dei discepoli con cui condividere la vita come Cristo ha fatto con gli apostoli e gli apostoli con i loro discepoli, e anche i monaci missionari del Medioevo.

I tentativi sporadici fatti in tal senso vanno a cozzare contro difficoltà insormontabili. Esse derivano dalla nostra salute, non si resiste a una vita pari a quella della gente locale; dalla mentalità così profondamente diversa, da una struttura psicologica nostra e loro che dà origine spontaneamente a un processo di rigetto. Però mi pare chiaro che la deficienza non è solo da parte degli africani ma anche nostra, per cui anche riconoscendo l’impossibilità di realizzare le cose in modo soddisfacente non è né dovremmo dedurre un giudizio razzista, attribuendo tutta la deficienza agli altri; ma dovremmo riconoscere la nostra debolezza, fisica, morale e spirituale.

Evidentemente noi missionari reagiamo all’accusa di razzismo, neocolonialismo, clericalismo e simili nella maniera più emotiva possibile; come degli innocenti che si sentono colpiti a tradimento da quelli che hanno beneficiato (per esempio, il clero indigeno) o da altri estranei, che, venendo in Africa per poco tempo, pretendono di sputare giudizi e sentenze su uomini che hanno speso tutta la loro vita e i loro sacrifici per la missione.

Ed è certamente vero: i sacrifici dei missionari, i servizi da loro resi alla popolazione sono veramente eccezionali e superiori a qualsiasi elogio. Ma resta vero anche il resto: l’incapacità di fondare la Chiesa, la quale potrà sorgere solo con la nostra scomparsa o con un nostro molto doloroso mutamento.

Da parte degli acholi mi dà l’impressione che esiste un razzismo ancor più radicale. Essi sono pronti a ricevere e anche a…

PIÙ GIOIOSA, DIALOGICA E COSMICA.
ECCO LA MISSIONE NUOVA

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Nella foto: 1958, Teregi, Uganda. Padre Antonio Spugnardi incontra un allevatore
(Archivio Nigrizia).

Un testimone privilegiato dei mutamenti del modello missionario, in seguito al collasso del colonialismo, ci dice che Gesù è cosmico prima che storico e dommatico. E delinea i percorsi di diffusione del messaggio cristiano.

di Francesco Pierli, comboniano

Ho accettato con gioia di scrivere queste righe nel contesto del dossier di Mauro Forno. I comboniani menzionati – Rizzi, Dal Maistro, Mason, Barbisotti, Bartolucci, Tiboni – sono confratelli con i quali ho interagito, collaborato, discusso e a volte anche… litigato sui lineamenti teologici e metodologici della nuova missione emergente dopo la fine del colonialismo e il concilio Vaticano II.

Profonde trasformazioni sono state imposte non da capricci teologici ma da una storia politica, sociale, culturale, economica e religiosa in totale evoluzione. Giovanni XXIII aveva salutato la fine del colonialismo come «un segno dei tempi» (Pacem in terris, 38). Evento positivo, pregnante di regno di Dio da accogliere con speranza, a cui adeguarsi liberandosi da tutto ciò che poteva essere considerato frutto e reliquie di un tempo irreversibilmente passato.

Tanti missionari, anche alcuni di quelli menzionati sopra, fecero una enorme fatica ad aprirsi alla visione di papa Roncalli. La paura che la missione fosse travolta dal collasso del colonialismo era molto più diffusa di quanto non si pensi.

La primavera del Vaticano II

Il concilio aveva aperto le finestre – secondo Giovanni XXIII – a una nuova primavera e a una ventata di aria fresca. Io sono figlio di tale ondata di novità! L’apertura al futuro fa parte della mia identità cristiana e missionaria oltre che essere costitutiva del documento carismatico di Daniele Comboni: il Piano per la rigenerazione dell’Africa. Qui a Nairobi, nel contesto universitario (Università cattolica) nel quale lavoro dal 1992, sto elaborando e accompagnando un programma di dottorato sulla trasformazione sociale. Programma che sta avendo un impatto sociale ed ecclesiale più profondo e duraturo di quanto ci saremmo augurati all’inizio di questo percorso.

La mia formazione teologica a Roma si svolse durante gli anni del concilio. Su di me ebbero più impatto le discussioni dei padri conciliari in San Pietro – seguite attraverso bollettini e giornali e le conferenze serali organizzate da Vagaggini, Rahner, Congar, Flick, Neunhueser, De Lubac, Cullmann – che i libri di testo e le classi a cui attendevo la mattina.

Ero accorso in piazza San Pietro quella mattina dell’11 ottobre 1962, ad ascoltare il discorso di apertura del concilio di Giovanni XXIII, traboccante di speranza: Gaudet Mater Ecclesia, che invitava a esultare e a gioire perché tempi nuovi albeggiavano all’orizzonte. Annunciò che non ci sarebbe stata nessuna scomunica (anathema sit), prassi di tutti i precedenti 20 concili ecumenici per chi dissentisse dagli insegnamenti conciliari, sia dottrinali che giuridici.

Il futuro della Chiesa sarebbe dipeso dalla bellezza e dal fascino del messaggio cristiano e non dalla paura di sanzioni canoniche. Giovanni XXIII si dichiarava chiaramente in disaccordo con i “profeti di sventura” che temevano una imminente fine del mondo. La parola gioia caratterizza sia il Vaticano II che la testimonianza di papa Francesco nei nostri tempi: due papi simbolo della missione nuova! Ambedue non si identificano con la Chiesa del presente come struttura dottrinale e canonica ingessata con una liturgia romana scritta in latino da pochi esperti e poi tradotta nelle molte lingue del mondo di oggi e con una teologia greco-latina come l’ultima e definitiva espressione della fede. Due papi veramente escatologici, aperti cioè al futuro di Dio che non è mai una ripetizione di ieri e sacralizzazione del passato.

Alla primavera ecclesiale e civile e alla novità missionaria contribuiscono anche le donne, la cui presenza sia nel mondo ministeriale, missionario, politico ed economico sta crescendo esponenzialmente. Anche tale nuovo fenomeno è salutato da Giovanni XXIII come “segno dei tempi”, quindi evento carico del futuro del regno di Dio.

La scienza e la missione

Un mondo che la scienza ci dice iniziato dal big-bang (l’esplosione primordiale che ha formato l’universo) è radicalmente diverso da quello a cui eravamo abituati, fondato cioè su una concezione statica della creazione, secondo cui Dio, fin dall’inizio, aveva creato tutto nei dettagli, dalla formica, per così dire, all’uomo, secondo la lettera dei primi 11 capitoli della Genesi. La scienza ci sta aiutando a scoprire un nuovo Dio! Per conoscerlo non basta la rivelazione di Gesù. È necessaria la rivelazione del..

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LA RIVOLUZIONE COPERNICANA DELLA MISSIONE – DOSSIER NIGRIZIA GIUGNO 2018