BACINO DEL FIUME CONGO
IN PERICOLO UN SANTUARIO DELLA BIODIVERSITÀ

L’espansione demografica minaccia un’area smisurata, con la terra utilizzata per l’agricoltura commerciale e di sussistenza. La carenza di governance è il pericolo maggiore per la sopravvivenza di quelle aree protette.

di François Misser e Georges Vallès

CACCIA AL TESORO

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Mentre aumentano le aree protette, allo stesso tempo diminuiscono le foreste e la fauna, a causa di un diffuso bracconaggio di carne di selvaggina e di avorio, fonte di finanziamento per mafie e terrorismo.

L’organizzazione non governativa britannica Rainforest Foundation, in un voluminoso rapporto pubblicato lo scorso aprile e incentrato su 34 aree protette della regione – Protected Areas in the Congo Basin: failing people and biodiversity? – rileva che la biodiversità declina e che il bracconaggio prospera. Nonostante che negli ultimi dieci anni siano stati investiti per la conservazione di queste aree centinaia di milioni di dollari. La popolazione dei grandi mammiferi (elefanti, bongo o antilopi di foresta, gorilla e scimpanzé) continua a diminuire a ritmi allarmanti, anche se si moltiplicano le restrizioni all’accesso alle zone forestali.
Questo stato di cose, secondo Rainforest, pone più di un interrogativo sulla validità del modello di conservazione scelto. (…)

AREE PROTETTE, OSTACOLI PER GLI INDIGENI

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Le politiche di conservazione portano spesso a gravi violazioni dei diritti umani dei popoli che vivono nel bacino del Congo. Spostati, immiseriti e privati degli indennizzi promessi.

Di fronte alle minacce per gli ecosistemi, le politiche di conservazione perseguite finora hanno spesso peccato per la loro inefficacia e per l’assenza di consenso, perché non tengono sufficientemente conto del parere delle popolazioni rivierasche delle aree protette o che vi risiedono.
Rainforest Foundation (Rf) denuncia troppe frequenti violazioni dei diritti dell’uomo nelle iniziative di conservazione. Nel suo rapporto, dell’aprile 2016, mostra come esista un grande divario tra gli obblighi, i princìpi e gli impegni assunti dai governi nazionali, dai donatori e dalle ong, rispetto alla realtà sul terreno.
Le comunità che vivono intorno alle zone protette segnalano abusi e violazioni dei diritti umani, in particolare da parte di ecoguardie, nel quadro di una «aggressiva politica anti-bracconaggio», che mira più alle comunità che alle reti criminali coinvolte nella caccia a fini commerciali. (…)

SFRUTTAMENTO FORESTALE

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È all’origine dell’erosione del suolo e dell’inquinamento. Facilita i bracconieri e alimenta il traffico illegale di legname. Ma anche le attività estrattive sono spesso in aree protette: nel 2012,erano sovrapposti a quei terreni 3,5 milioni di ettari di concessioni minerarie.

Non è da oggi che centri studi e osservatori specifici – tra cui i rapporti dell’Osservatorio delle foreste dell’Africa centrale (Ofac) – rilevano che lo sfruttamento indiscriminato mette a rischio il patrimonio forestale dell’Africa centrale. È all’origine dell’erosione del suolo, dell’inquinamento delle acque e della riduzione della capacità di rigenerazione delle foreste. E moltiplica le reti stradali nella vegetazione, facilitando l’accesso di bracconieri, contadini e carbonai.
Il fenomeno è aggravato dallo sfruttamento illegale, a volte incoraggiato da ex direttori di parchi naturali. È il caso della riserva di Luki (sudovest dell’Rd Congo), come testimonia Theodore Trefon, americano, specialista della governance forestale e docente della Scuola di pianificazione e gestione integrata delle foreste di Kinshasa. L’esistenza di un traffico illegale di legname congolese è stato ben evidenziato nel maggio del 2013 con il sequestro, nel porto di Anversa (Belgio), di un carico di 40 m? di afrormosia (legno usato per parquet) su una nave della compagnia Tala Tina.
Rainforest denuncia un taglio di alberi particolarmente intenso nei parchi nazionali camerunesi di Boumba-Bek (238mila ettari) e di Nki (309mila ettari). Ciò non significa che gli alberi tagliati illegalmente provengano sempre da Aree protette (Ap).
Le ambientaliste britanniche Louise Rodgers (Rainforest Foundation) e Laura Sommerville (Forest Monitor) osservano che lo sfruttamento industriale, riducendo la biodiversità nell’insieme della foresta, ha ricadute negative anche nelle Ap. In particolare, lo sfruttamento industriale perturba il manto superiore delle foreste, in contatto diretto con i raggi del sole e con l’atmosfera, innescando dei microclimi e facilitando gli incendi. (…)

TERRENO DI SCONTRO

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Un suolo povero. Un’agricoltura itinerante su spazi insufficienti. Oppure un’agroindustria aggressiva. E le foreste che spariscono, con gli habitat minacciati. Una catena difficile da spezzare.

In mancanza di una evoluzione delle tecniche agricole, l’agricoltura itinerante – che fertilizza il terreno bruciando la vegetazione o i residui di una precedente coltivazione – rimane la pratica più diffusa in Africa centrale. Nel corso dei secoli è stato mantenuto un certo equilibrio grazie alla bassa densità della popolazione e al fatto che non si usava certo la motosega per tagliare gli alberi.
Ma l’evoluzione tecnologica e l’esplosione demografica hanno rotto questo equilibrio.
Un altro aspetto da tener presente è che in quest’area, a parte le terre molto fertili del Kivu e del Rwanda, il suolo è piuttosto povero. Si tratta di suoli ferrallitici, tipici delle aree calde e umide, nei quali sia i minerali sia le sostanze organiche si alterano molto velocemente. Terreni che, se coltivati, si consumano nell’arco di tre anni. Spiega a Nigrizia lo scienziato Cédric Vermeulen: «Ci vogliono tra i 15 e 20 anni perché questi terreni si ricostituiscano. È chiaro che ciò richiede una bassa densità di popolazione: già sopra i 30 abitanti per km², il meccanismo s’inceppa. Oggi troppi praticano l’agricoltura itinerante su terreno debbiato, non c’è spazio sufficiente. Così i tempi di riposo del terreno si accorciano, il suolo si esaurisce e la foresta sparisce». (…)

LA LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE

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Le comunità locali sono escluse molto spesso dalla gestione delle aree protette, affidata solitamente, invece, alle grandi organizzazioni non governative. Assenza di trasparenza su come gli abbondanti finanziamenti vengono impiegati.

Le popolazioni locali sono state consultate in 12 delle 34 Aree protette (Ap) analizzate da Rainforest. Ma solo in 2 casi la consultazione ha avuto luogo prima della costituzione delle Ap. E in 4 aree solamente, le comunità sono state rese partecipi della gestione. L’unico meccanismo nazionale ufficiale che si propone esplicitamente di coinvolgere le comunità in iniziative di conservazione è il Comitato consultivo di gestione locale, in Gabon.
Mentre nella maggior parte dei casi, anche nelle “riserve comunitarie” del Lago Tele (Congo) e di Dzanga-Sangha (Repubblica Centrafricana), l’amministrazione è affidata, in parte, alle principali ong: vale a dire, rispettivamente, Wcs (Wildlife conservation society) e Wwf (World wildlife fund). In generale, Rf rileva la mancanza di coinvolgimento delle comunità locali in un contesto di bassa partecipazione della società civile.
Tra le rare eccezioni citate, c’è la partecipazione dal basso nel lavoro di delimitazione delle aree all’interno della Riserva naturale dell’Itombwe (Rd Congo), con popolazioni mobilitate a mantenere l’accesso alle risorse del parco. Il rapporto ricorda anche il caso della Riserva dei gorilla di Tayna (Rd Congo), riconosciuta come la prima riserva gestita da una comunità nel paese. In Camerun, i pigmei bagyeli sono stati espulsi senza indennizzo dal Parco nazionale di Campo Ma’an, nel 2000, ma sono riusciti, alla fine, a farsi riconoscere i loro diritti nell’utilizzo dei terreni ancestrali.
Gli autori del rapporto lamentano di non avere trovato esempi di approccio partecipativo nella lotta contro il bracconaggio, come, invece, si fa in Africa occidentale o in Kenya, dove, nel caso della Range Northern Trust, i ricavi del turismo sono utilizzati per finanziare progetti di sviluppo comunitario. Si è visto così che tra il 2007 e il 2008 la popolazione di elefanti è aumentata del 27%. Il bracconaggio, invece, è sceso dal 59% del 2013 al 43% nel 2014.

IL FUTURO DELLE FORESTE SI GIOCA IN CITTÀ

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Serve un cambio di mentalità: comprendere che le risorse forestali, un tempo considerate libere e inesauribili, sono invece finite. E che non si possono risolvere i problemi della biodiversità se non si rivede la stessa politica energetica, alimentare e agricola.

Lo studioso americano Theodore Trefon mette in guardia dalla tentazione populista che vorrebbe lasciar fare alle popolazioni rivierasche tutto ciò che vogliono. A suo avviso, infatti, così facendo si rischierebbe di aumentare la caccia e/o una imponente riduzione della terra disponibile per la conservazione. Allo stesso tempo, Trefon concorda con la necessità di rivisitare il concetto di conservazione. È anche il punto di vista del programma americano Carpe: conservazione non solo intesa come rafforzamento delle tutele per fauna e biodiversità all’interno dei confini di un parco; ma un concetto più vasto, dove c’è interazione con la popolazione e dove ci può essere spazio per tutti.

Rivoluzione. Il vecchio concetto, che teneva le aree protette sotto vetro e che considerava le persone come problemi, oggi è rivoluzionato. È giunto il momento di nuove strategie per stabilizzare l’agricoltura, attraverso tecniche agroforestali tali da rimpiazzare l’agricoltura su terreno debbiato. Ma è anche necessario un cambiamento di mentalità. Trefon ritiene necessario che tutte le parti debbano comprendere che le risorse forestali, un tempo considerate libere e inesauribili, sono invece finite. Come molti dei suoi colleghi, lo studioso difende un approccio integrato, sistemico. A suo avviso non si possono risolvere i problemi della biodiversità se non si rivede la stessa politica energetica, alimentare e agricola. «Il futuro delle foreste e dei loro abitanti si gioca in città», ripete il professore americano. (…)

FIUME CONGO – UN BACINO PER TUTTI
DOSSIER NIGRIZIA NOVEMBRE 2016