Alberto Modonesi

Padre Alberto Modonesi, nato nel 1942 a Corticelle Pieve, nel Bresciano, è stato ordinato sacerdote comboniano nel 1967. Nel 1970 è andato in Sudan dove è rimasto fino al 2010, con alcune interruzioni per studiare al Centro universitario di Nairobi e per dirigere il Centro di Studi Arabi ed islamici al Cairo, in Egitto. Oltre alla cura pastorale dei pochi cristiani di una piccola parrocchia di copti cattolici alla periferia del Cairo, l’attività di padre Alberto si è svolta nell’ambito del dialogo con il mondo musulmano e nell’impegno ecumenico.
Padre Alberto era rientrato nella comunità comboniana di Brescia dovuto alla malattia. Questa mattina, giorno di Santa Giuseppina Bakhita, ci ha lasciati per volare in Paradiso. La Bakhita era nata nel Darfur 150 anni fa (1868), dove Padre Alberto aveva lavorato come missionario per ben otto anni al servizio degli sfollati del Sud Sudan. Immaginiamo che sia proprio lei ad accogliere questo missionario che tanto ha amato la sua martoriata terra sudanese!
Ecco la testimonianza di Padre Alberto inviata agli amici in occasione del Natale.

Carissimi, è trascorso un anno circa dal Natale 2016, quando ho ricevuto il referto medico di essere stato attaccato da un cancro al pancreas con metastasi al fegato. Allora l’avevo qualificato come un dono speciale, perché nella mia ingenuità e, forse nella mia eccessiva presunzione ed orgoglio, credevo che mi fosse facile accettare di camminare a fianco di Gesù e dei miei fratelli che soffrono. Invece mi sono accorto che sono stati proprio i miei fratelli e le mie sorelle più deboli, che mi hanno dato il coraggio di continuare la salita verso la Vetta, assieme a Gesù e in loro compagnia.

È stato quindi un anno in cui ho contemplato fiori mai visti prima, i cui profumi mi hanno circondato e sono penetrati nel più profondo delle mie piccole piaghe cancerogene, portando sollievo, vita e desiderio di combattere.

Il primo fiore è stato l’incontro, dopo la prima seduta di chemioterapia, con una signora sui 30 anni di età. Era seduta accanto a me e alla fine del ciclo, improvvisamente si è messa a piangere. Prima che potessi proferire parola mi disse, asciugandosi le lacrime: “Non piango per me, ma per la mia piccola di 12 mesi” e mi si gettò al collo abbracciandomi. È stato un abbraccio che non dimenticherò mai.

Il secondo fiore è un ragazzo di 18 anni, Gabriele, che sta preparandosi alla maturità classica, ragazzo innamorato di alpinismo e di scalate in alta montagna. Ho diviso con lui la stessa cameretta del reparto oncologico e abbiamo scambiato le nostre esperienze di vita, che ci hanno arricchiti reciprocamente. Lui aveva dei noduli tumorali a livello dei polmoni che lo hanno portato rapidamente a scalare l’ultima vetta verso il Paradiso, dopo pochi mesi. Un folto gruppo di giovani sono stati affascinati dalla sua silenziosa testimonianza e dalla sua attenzione a tutti coloro che soffrivano più di lui. La fragranza e la freschezza della sua presenza è stato un dono incomparabile che serbo nel cuore.

Il terzo regalo è un mazzo di fiori i cui svariati colori e profumi mi hanno fatto gustare la bellezza e la grandezza della vocazione missionaria riflessa in una trentina di confratelli comboniani che sono venuti qui a Brescia per vari esami medici. Tutti hanno un desiderio immenso di lottare per riprendere le forze, così di poter ritornare il più presto possibile in missione. Le esperienze missionarie meravigliose, gioiose e dolorose con tutta la gamma degli insuccessi e delle delusioni mi aiutano a vivere la mia vocazione missionaria nella mia condizione di debole missionario.

Il più piccolo fiore, ma non meno splendido degli altri, è il mio fratellino Padre Renato, che il giorno 27 di ottobre 2017 mi ha consegnato queste parole (che aveva scritto nel lontano 2009), parole quasi profetiche: “Grazie Alberto per tutto… Le sofferenze ci preparano ad un Paradiso Eterno. I genitori e il Signore ci aspettano. Ti sono sempre vicino con affetto. Nella mia debolezza tutto posso con il Suo Aiuto”.

I medici mi hanno detto che l’incontro finale con il PADRE dovrebbe essere prima del Natale 2018. Ho una grande voglia di spiccare questo salto nelle SUE braccia.

LUI ORA sorregge il mio incedere un po’ instabile, cerca di mettere le mie mani nelle mani del mio fratello o della sorella che soffre più di me. A volte, ed è il più delle volte, non può far altro che prendermi in braccio, tergendomi le immancabili lacrime.

Abbraccio caloroso. BUON NATALE!

Alberto

Si, Buon NATALE a te e buona continuazione di una feconda missione in Paradiso, caro Alberto!


Eucaristia di commiato di padre Alberto Modonesi

Castiglione delle Stiviere, 10.02.2018

Omelia del vescovo Marco

Lezionario biblico: 1Cor 9,16-26; Lc 23,44-46.50.52-53; 24,1-6

Stiamo celebrando una liturgia pasquale. Pasqua significa ‘passaggio’. Gesù passa attraverso la croce e giunge al Padre. Gesù non fa Pasqua da solo. Nel suo passaggio trascina con sé l’umanità, come ha promesso: “Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Celebriamo oggi la ‘pasqua eterna’ di padre Alberto attirato nel Regno dal Signore risorto.

Abbiamo ascoltato un vangelo pasquale in cui c’è tutto il mistero della vita di Gesù racchiuso in due parole: l’offerta e il passaggio.

Siamo verso mezzogiorno nell’ora dell’offerta quando Gesù pronuncia le ultime parole che sono una sintesi di tutta la sua vita vissuta da Figlio: “Padre nelle tue mani consegno il mio spirito. Il velo del tempio si squarcia a metà, come per aprire un varco che libera il passaggio che consente a Gesù di arrivare con l’offerta del suo sangue davanti al trono di Dio. Quel velo è la morte: Gesù l’attraversa e arriva nelle mani del Padre. Senza offerta non c’è passaggio, non c’è ingresso nel Regno eterno.

Segue la scena della deposizione di Gesù dalla croce. Attorno al corpo morto di Gesù si raduna la prima chiesa: Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo, le donne. E fanno dei gesti di tenerezza, di pietà, di amorevolezza sul corpo sacrificato di Gesù. Dopo che Gesù si è offerto anche l’uomo diventa capace di offrirsi.

Spicca la figura di Giuseppe d’Arimatea, uomo giusto e saggio, solitamente raffigurato nei dipinti mentre abbraccia il corpo di Gesù per deporlo dalla croce. Senza saperlo fa una cosa inaudita: mette il corpo di Gesù nel sepolcro che si era preparato per lui. Permette a Gesù di precederlo nella sua morte. Giuseppe non morirà da solo ma con Cristo che riposa nel suo sepolcro.

Ho osservato che, nelle lettere che da due anni a questa parte padre Alberto scriveva agli amici, non li aggiornava della sua condizione di salute, del progresso della malattia, ma apriva il suo cuore per dire come si stava preparando alla morte.

Nella lettera più recente, inviata in occasione dell’ultimo Natale, padre Alberto scrive: “I medici mi hanno detto che l’incontro finale con il Padre dovrebbe essere prima del Natale 2018. Ho una grande voglia di spiccare questo salto nelle sue braccia. Queste parole ricalcano quelle di Gesù sulla croce, sono belle ma hanno dentro il prezzo delle lotte e delle lacrime. Non sarà stato facile nemmeno per padre Alberto abbracciare quest’ottica pasquale. Lui stesso parla di una “ferita del disorientamento, dice di essere stato “disorientato e ricondotto al centro dell’Orientamento”. E questo è avvenuto grazie anche al suo incontro provvidenziale con un ragazzino musulmano di 10 anni che stava morendo a causa di un cancro al cervello. Sua madre piangeva disperatamente. Il ragazzino abbracciandola forte le disse: “Non piangere, mamma, lo so che mi vuoi bene, come anch’io ti amo tanto tanto, ma sono felice perché tu mi hai sempre detto che c’è Qualcuno che ci attende e ci colmerà di gioia per tutta l’eternità.

La cultura moderna tace sulla morte, è un tabù, un tema taciuto e fastidioso. È la vergogna del progresso tecnico e scientifico che non ha rimedi alla morte. I piccoli del vangelo, invece, parlano apertamente della loro morte per annunciare la vittoria di Cristo che con la sua morte ha distrutto la morte.

La Pasqua è fatta di due versanti: morte e risurrezione che sono come due ante della stessa porta. Se muori con Cristo risorgi anche con Lui. Il Vangelo che abbiamo ascoltato ci presenta anche il frutto del sacrificio che è la risurrezione. Non c’è solo il mezzogiorno del venerdì c’è anche l’alba del primo giorno della settimana, l’alba di un tempo nuovo. L’uomo che è risorto con Cristo vive già come si vive nel Paradiso, vive nella speranza della vita eterna e anticipa la vittoria della vita sulla morte. Al mattino di Pasqua le donne corrono al sepolcro per portare aromi e profumare il cadavere di Gesù. Non trovano un corpo esanime bensì un corpo glorioso che profuma di eternità. Giuseppe d’Arimatea condivide la morte di Gesù e le pie donne la sua risurrezione.

Qual è il segno che in un uomo la morte è già vinta? Che la morte non ci fa più paura e che il pensiero della morte non ci paralizza nelle nostre chiusure e amarezze. Un uomo è già passato dalla morte alla vita se ama i fratelli (cf 1Gv 3,14). Prima di giungere alla sua Pasqua, padre Alberto ha vissuto il tempo della malattia come una quaresima di condivisione’ con la vita di altri fratelli sofferenti. Aveva forte coscienza che il sacerdote è a fianco dei fratelli che rivivono nella loro carne la morte e risurrezione del Signore.

Ancor prima della sua malattia, in una lettera in cui parla del martirio dei 21 cristiani egiziani che sono stati sgozzati in Libia scriveva: “inginocchiamoci di fronte al mistero della morte e della risurrezione di tanti fratelli e sorelle che stanno sperimentando nella loro vita la passione, la morte e la risurrezione di Gesù(lettera per la Pasqua 2015).

Quando la malattia lo ha visitato, padre Alberto dice che “reputa questo avvenimento come un dono incommensurabile”. E il motivo è che questa condizione gli fa “sentire nella sua carne tutta la sofferenza concreta della piccola famiglia di Giuseppe, Maria e Gesù, famiglia derelitta, abbandonata, ma anche la sofferenza di “milioni di fratelli e sorelle che vivono nelle stesse condizioni della piccola famigliola di Betlemme. Continua con una confidenza molto personale: “Io sono stato sempre molto sensibile al dolore e alla sofferenza degli altri, ma la malattia che lacera la mia carne debilitata e sofferente è come un raggio che entra per la prima volta nell’ intimo del mio cuore e mi fa sentire parte integrante di questo popolo che amo. Non è più il vedere da lontano come un fotografo o un giornalista una esperienza che ti ha commosso, ma un sentirti profumato piccolo fiore o dolorosa piccola piaga nel corpo sofferente e glorioso di Cristo(lettera per la Quaresima-Risurrezione 2017).

Padre Alberto ha vissuto la conclusione della sua vita così come è vissuto: condividendo. La sofferenza è stata per lui una chiamata di Dio a “mettere le mie mani nelle mani del mio fratello o della sorella che soffre più di me. E ancora scrive “è solo quando si condivide totalmente la sofferenza e la gioia dell’altro che si può entrare nel mistero della Morte e della Risurrezione di Gesù. È ciò che cerco di fare giorno dopo giorno(lettera per l’Avvento-Natale 2017).     

Parla dell’incontro con “i fratelli e le sorelle più deboli che gli hanno dato il coraggio di continuare la salita verso la Vetta, assieme a Gesù e in loro compagnia. Ogni incontro con questi malati è per padre Alberto un po’ come la contemplazione di “fiori mai visti prima”(lettera per l’Avvento-Natale 2017).

Condividere è stata la sua vita. Da sacerdote e missionario ha abbracciato il programma apostolico di San Daniele Comboni: “rigenerare l’Africa con l’Africae, sulla scia di San Paolo, si è fatto tutto a tutti per guadagnare il maggior numero al Vangelo: africano con gli africani, conosceva talmente bene l’arabo da venir scambiato per un arabo nativo. Si è immedesimato con le terre e con la gente a cui la missione lo inviava: il Sudan a Khartoum e il Sud Sudan, il Darfur, e poi l’Egitto al Cairo. Diremmo che ha ‘mescolato’ il suo destino con quello di chi ha incontrato. La Provvidenza ha fatto sì che Padre Alberto sia morto nel giorno della festa liturgica di Santa Giuseppina Bakita, figura a lui molto cara perché nativa del Sudan e in particolare del Darfur, prima missione a cui fu inviato 50 anni fa padre Alberto quasi come un pioniere, “per vedere se c’erano dei cristiani”.  

Questa omelia non è pronunciata per dare onore a un uomo cristiano, a un sacerdote e missionario. È anzitutto per dare gloria a Dio, che padre Alberto ha lasciato operare profondamente in se stesso. La sua testimonianza ci ricorda l’importanza della fede che accoglie la potenza della Pasqua. Questa omelia è per dar voce a un testimone. Leggendo gli scritti di padre Alberto ho avuto l’impressione di essere davanti a una persona pasquale”: nella sua esperienza tutto sa di morte (debolezza, piccolezza, pochezza) e tutto sa di grandezza, di ricchezza di umanità, di santità di vita. Nessun eroismo in padre Alberto che si dice “fiero di essere piccolo e debole discepolo di Gesù; e vive la malattia “nella condizione di debole missionario. E ancora dopo 50 anni di presenza sacerdotale e missionaria in terra africana e araba dice di sentirsi come un “novizio nell’incontro di questo mondo(Avvento-Natale 2016).

Le donne del mattino di Pasqua si chiedono “che senso avesse tutto questo. Molti uomini, forse tutti, si pongono questo interrogativo che è il più radicale: che senso ha vivere se poi si muore. Questa liturgia di ‘A-Dio’, cioè di ‘a rivederci’ in Dio, annuncia che il senso della vita è offrirsi per poter condividere in eterno la comunione del Cielo.

Tutto ciò che è offerto risorge.