“È scalzo il nostro prete”, il prete che papa Francesco ha additato ai vescovi italiani come esempio cui guardare. Non è la prima volta che i vescovi italiani si ritrovano per discutere del rinnovamento e della formazione dei preti, tra i quali ci sono anche loro, che proprio di mezzo al clero sono scelti per un servizio di presidenza nelle chiese locali. Di fronte a loro papa Francesco non si è soffermato sulle urgenze di una formazione permanente teologica e spirituale, non ha tratteggiato un’ipotetica figura di vescovo ideale ma è andato con parresia a tratteggiare il prete come pastore in mezzo al gregge, intriso – come ama dire lui – dell’odore delle pecore, un pastore che condivide pienamente la vita, le fatiche, i pericoli, le gioie del suo gregge.
Allora l’essere scalzo di questo prete richiama uno stile, un modo di essere e di agire, un’esistenza che «diventa eloquente, perché diversa, alternativa»: “scalzo” evoca il modo evangelico di porsi in cammino dei discepoli inviati da Gesù a predicare, senza denaro nella bisaccia né due tuniche; “scalzo” implica la rinuncia a tutto il superfluo e il “mantenere soltanto ciò che serve per l’esperienza di fede e di carità del popolo di Dio”.
Ma essere scalzo per papa Francesco rimanda anche e prima di tutto a Mosè di fronte al roveto ardente: come colui che diventerà la guida di Israele nel deserto, il prete è “scalzo rispetto a una terra che si ostina a credere e considerare santa”. Sì, Mosè si è tolto i calzari per avvicinarsi al roveto da cui usciva la parola di Dio, perché la terra che calpestava era santa. Come lui anche l’annunciatore del vangelo oggi è chiamato a considerare “santa” quella terra che l’umanità ha avuto in dono. È chiamato a prendere sul serio la terra, l’adamah e l’Adam, l’essere umano che dalla terra è tratto: a mostrarsi prossimo e sollecito verso le fragilità di ciascuno, verso lo smarrimento di senso, verso il bisogno vitale di comunità che permea il nostro tempo “povero di amicizia”. Ne conseguirà uno stile di vita concreto, sobrio e povero, spogliato dei beni non essenziali, ricondotto all’unica cosa necessaria, il vangelo, la buona notizia della vita più forte della morte.
Può sembrare strano che papa Francesco parli a vescovi e cardinali e additi loro un prete scalzo, un povero prete animato e purificato dal fuoco della Pentecoste, un ministro che serve, che – secondo l’etimologia – si preoccupa della “minestra”, della razione di cibo quotidiano per ciascuno, un servitore fedele che sa come l’anelito più profondo deposto nel cuore degli umani si esprime attraverso un corpo che prova fame, sete, freddo, dolore. Eppure è questo il pastore esemplare: un prete scalzo che sa farsi prossimo con la povertà del suo essere e del suo agire, che non conta su oro e argento ma sulla misericordia manifestata dal Signore verso di lui, una misericordia che lo ha reso a sua volta ministro di misericordia.