Sconfinamenti della missione (4)
Riflessioni e testimonianze di una Chiesa “in uscita” verso le nuove periferie
Il vescovo che ha fatto del Sahara la sua cattedrale
Sabbia, silenzio e islam. Ma anche le carovane di migranti e profughi. Parla monsignor Claude Rault, sacerdote francese della congregazione dei Padri Bianchi, da undici anni vescovo di Laghouat-Ghardaïa: «la mia vera sede è l’automobile», scherza, visti i continui spostamenti in una delle diocesi più vaste al mondo (2,5 milioni di chilometri quadrati).


Padre, dopo i terribili anni ’90, segnati dalla guerra civile e dalla violenza, qual è oggi la situazione della Chiesa d’Algeria? I cristiani sono in pericolo?
«No, attualmente non si segnalano particolari situazioni di rischio. A differenza di quanto accade in altri Stati a maggioranza islamica, la Costituzione algerina prevede la libertà di coscienza e recentemente il Ministro per gli Affari Religiosi si è proclamato rappresentante tanto dei musulmani, quanto di cristiani ed ebrei. Possiamo dire che il piccolo gruppo di cristiani algerini è parte integrante del “paesaggio religioso”: abbiamo buoni rapporti col mondo islamico e di solito siamo rispettati. Ciò è anche dovuto al fatto che la nostra comunità ha un atteggiamento di apertura e non cerca di fare proselitismo. Più in generale va osservato che a partire dal 2000, così come la società civile ha cercato di voltare pagina, anche la Chiesa si è profondamente rinnovata. Non è più la chiesa post-coloniale costituita in maggioranza da Europei: attualmente tra i cattolici di Laghouat-Ghardaïa si contano 18 nazionalità e ora che, raggiunti i 75 anni, si avvicina il termine del mio mandato, lascio una comunità composta in buona parte da giovani».
Insieme al priore Christian de Chergé, lei è il fondatore del Ribat Es-Salam (Vincolo di Pace), un gruppo di dialogo islamo-cristiano che ha resistito negli anni, nonostante durissime prove e persecuzioni (nel ’96 il confratello e amico De Chergé, insieme ad altri sei religiosi del monastero di Tibhirine, è stato rapito e assassinato da un commando terrorista, ndr). In un momento difficile per il dialogo interreligioso, qual è l’insegnamento più prezioso che possiamo trarre da questa esperienza?
«Credo sia l’atteggiamento reciproco sotteso agli incontri. Non è un gruppo di discussione, ma di preghiera. E l’obiettivo è prima di tutto quello di conoscere la religione dell’altro. Ci sentiamo vicini e uniti in quanto cercatori del Dio unico. Questo ovviamente non significa annullare le differenze, ma armonizzarle. Prova ne è che il Ribat non ha mai cessato di riunirsi, anche nei momenti più drammatici, bui e dolorosi. Tuttora questa esperienza prosegue ed è radicata in tutte e quattro le diocesi d’Algeria (nella mia comunità i componenti sono una ventina tra cristiani e musulmani e gli incontri avvengono due volte l’anno). I momenti forse più toccanti sono quelli in cui restiamo in silenzio, uniti nella preghiera».


«Di sicuro serve un atteggiamento accogliente, che consideri i migranti come delle persone e non come un problema. Ma ciò non è sufficiente, perché in alcuni Stati africani l’Europa e più in generale i Paesi occidentali hanno delle responsabilità enormi. Basti pensare alle speculazioni sui prezzi di materie prime come caffè, cacao e cotone. A farne le spese sono, ovviamente, i più poveri, come ho constatato di persona in Burkina Faso. Non potremo mai affrontare la tragedia delle migrazioni se non porremo fine a queste ingiustizie. Per concludere, dopo tante traversie e tante prove, come immagina il futuro delle comunità cristiane in Algeria? Rispondo citando il pensiero di un grande mistico, la cui vita resta indissolubilmente legata a quella dell’Algeria: Charles de Foucauld. Anche quando non possiamo parlare di Gesù, possiamo essere una pagina di Vangelo. Questo è valido in ogni epoca e ad ogni latitudine. Se siamo un segno dell’amore di Cristo il futuro non ci spaventa».
10/10/2015