Intervista a Walter Kasper:
Intervista a Walter Kasper

«Anche molti fedeli vogliono le unioni civili. È tempo che la Chiesa accetti questa sfida».

«Uno Stato democratico deve rispettare la volontà popolare, mi pare chiaro, se la maggioranza del popolo vuole queste unioni civili è un dovere dello Stato riconoscere tali diritti. Ma non possiamo dimenticare che anche una legislazione simile, pur distinguendo fra il matrimonio e le unioni omosessuali, arriva a riconoscere a tali unioni più o meno gli stessi diritti delle famiglie formate da  uomo e donna. Questo ha un impatto enorme sulla coscienza morale della gente. Crea una certa normatività. E per la Chiesa diventa ancora più difficile spiegare la differenza». Il cardinale Walter Kasper, grande teologo cui Francesco affidò la relazione introduttiva al Sinodo  dell’anno scorso, e punto di riferimento dell’anima più riformista, tira un lungo sospiro: «Non sarà  facile».  

E perché, eminenza?  

«Vede, io penso che il referendum irlandese sia emblematico della situazione nella quale ci  troviamo, non soltanto in Europa ma in tutto l’Occidente. Guardare in faccia la realtà significa riconoscere che la concezione postmoderna, per la quale è tutto uguale, sta in contrasto con la  dottrina della Chiesa. Non possiamo accettare l’equiparazione col matrimonio. Ma è una realtà  anche il fatto che nella Chiesa irlandese molti fedeli abbiano votato a favore, e ho l’impressione che negli altri Paesi europei il clima sia simile».

E quindi, che farà la Chiesa?  

«Si è taciuto troppo, su questi temi. Adesso è il momento di discuterne».

Al Sinodo di ottobre?  

«Certo. Se il prossimo Sinodo vuole parlare della famiglia secondo la concezione cristiana, deve dire qualcosa, rispondere a questa sfida. L’ultima volta la questione è rimasta marginale ma ora diventa centrale. Io non posso immaginare un cambiamento fondamentale nella posizione della Chiesa. È chiara la Genesi, è chiaro il Vangelo. Ma le formule tradizionali con le quali abbiamo  cercato di spiegare, evidentemente, non raggiungono più la mente e il cuore della gente. Ora non si tratta di fare le barricate. Dobbiamo piuttosto trovare un nuovo linguaggio per dire i fondamenti  dell’antropologia, l’uomo e la donna, l’amore…Un linguaggio che sia comprensibile, soprattutto ai  giovani».

All’ultimo Sinodo il tema dell’«accoglienza» degli omosessuali è stato controverso, ci sono  stati contrasti tra le aperture europee e le posizioni più chiuse di episcopati come quello  africano…  

«No, non è che i vescovi europei e quelli africani la pensino diversamente, la posizione della Chiesa è sempre la stessa. Quello che differisce è il contesto, è la sensibilità della società, diversa in Africa  e in Europa. E in Europa le cose sono cambiate».

In che senso?  

«Non è più il tempo in cui la posizione della Chiesa su questi temi era più o meno supportata dalla  comunità civile. Negli ultimi decenni la Chiesa si è sforzata di dire che la sessualità è una cosa  buona, abbiamo voluto evitare un linguaggio negativo che in passato aveva prevalso. Ma ora  dobbiamo parlare anche di che cosa sia la sessualità, della pari dignità e insieme della diversità di  uomo e donna nell’ordine della creazione, della concezione dell’essere umano…».

A proposito di linguaggio, i documenti della Chiesa sull’omosessualità usano espressioni come  «inclinazione oggettivamente disordinata…». 

«Bisognerà fare attenzione a non usare espressioni che possano suonare offensive, senza peraltro dissimulare la verità. Dobbiamo superare la discriminazione che ha una lunga tradizione nella  nostra cultura. Del resto è il catechismo a dire che non dobbiamo discriminare. Le persone  omosessuali devono essere accolte, hanno un posto nella vita della Chiesa, appartengono alla  Chiesa…».

E le coppie omosessuali? La Chiesa non può riconoscere anche a loro quell’idea di «bene  possibile» di cui si parlava a proposito di divorziati risposati e nuove unioni?  

«Se c’è una unione stabile, degli elementi di bene esistono senz’altro, li dobbiamo riconoscere. Però non possiamo equiparare, questo no. La famiglia formata da uomo e donna e aperta alla  procreazione è la cellula fondamentale della società, la sorgente di vita per il futuro. Non è un  problema interecclesiale, riguarda tutti, si devono valutare con la ragione e il buon senso  conseguenze enormi per la società: pensi alle adozioni, al bene dei bambini, a pratiche come la  maternità surrogata, alle donne che tengono un bambino per nove mesi sotto il loro cuore e magari  vengono sfruttate perché povere, per qualche soldo. Non bisogna discriminare ma nemmeno essere  ingenui».

Gian Guido Vecchi

Corriere della Sera, 27 maggio 2015