FP italiano 2/2014
Il Dio delle donne.
1. Immergersi nella concretezza
Ad ascoltare le donne che parlano di Dio, si scopre una sorta di potenza di visione, che permette loro di guardare il mondo del quotidiano come abitato dalla Trascendenza, vivificato dall’energia che da essa promana, e per ciò stesso luogo santo in cui immergersi. Il Dio-persona dell’antico ebraismo, il Dio-Padre e Madre di Gesù Cristo, è anche il Dio-Terra e Acqua e Vita che informa di sé il creato, gli dona la sua benedizione e lo chiama ogni giorno all’esistenza. (…)
E’, quella delle donne che dicono Dio, una ancestrale capacità, di tenere assieme i diversi piani dell’esistenza, quello abissale ed elevato – un tempo lo si sarebbe detto dell’anima, se a tanti irrigidimenti questo non ci avesse portato – e quello concreto, della quotidianità con i suoi umili gesti, che svela così nel suo grembo tutta la sacralità dell’esser-ci.
Una capacità che le donne hanno concepito e sviluppato nel corso di secoli di silenzio imposto e di dialoghi con Dio coltivati nell’intimo, tanto da scoprire in questa pratica relazionale la fonte di un’energia insospettata che diveniva essa sola motivo di vita. E’ quanto accadde alle mistiche dei secoli XIII e XIV, al movimento delle Beghine che fiorì l’Europa di cuori pensanti, molti dei quali arsi sul rogo dell’incapacità istituzionale (maschile) a comprendere un così differente modo di essere da Dio.
Nel suo bellissimo libro, Il Dio delle donne (Mondadori), Luisa Muraro così narra la scoperta degli scritti di Margherita Porete: Un giorno si aprì la porta di una vacanza senza fine, (…), cominciai a udire le parole di una conversazione, non semplicemente nuova ma inaudita, tra due che, per brevità, chiameremo una donna e Dio. Una donna c’era di sicuro, Dio non so, ma di sicuro lei non era sola, c’era un altro o un’altra la cui voce non arrivava fino a me ma che sentivo lo stesso perché faceva un’interruzione nelle parole di lei, o meglio una cavità che trasformava la lettura, la rendeva simile al gesto di chi beve lentamente da una tazza.
Nelle voci di queste e molte altre donne prende corpo una narrazione su Dio generata dal grembo della propria esperienza: come avvenne per l’Israele dei Padri, che incontrarono un Dio liberante partendo dalla loro esperienza di prigionia e liberazione, un Dio madre-nutrice, partendo dall’aver conosciuto la fame, un Dio fedele, a partire dall’infedeltà scovata dentro i loro cuori…
Così fu per le mistiche studiate da Muraro, il cui Dio-Amore prende vita nelle loro parole a partire dall’essersi scoperte amate-amanti. E così fu anche per Etty (Esther Hillesum, detta Etty, 1914–1943, scrittrice olandese di origine ebraica, vittima della Shoah), che lo incontrò nel campo di prigionia di Westerbork, in attesa di essere trasferita ad Auschwitz, come il Dio-relazione, colui che accoglie e ascolta e culla tra le sue braccia la creatura stanca e ferita. Ma così fu anche per le molte altre che camminarono con Lui lungo le strade delle loro storie, dentro le stanze di un manicomio (Alda Merini, 1931–2009, poetessa, aforista e scrittrice italiana) o nell’angustia soffocante di un esilio (Maria Zambrano, 1904–1991, filosofa e saggista spagnola).
In tutte loro pare aver preso corpo la certezza che Dio non abita i luoghi che gli uomini si ostinano a dedicargli, poiché Egli è sempre la stessa divinità zingara e nomade che rifiutò a Davide il tempio per continuare ad abitare la tenda lungo le piste nel deserto (2Sam 7,5-7). In loro si fa strada la convinzione che tutto è grazia, che ogni frammento di vita, ogni dolore, ogni fallimento, ogni fatica, diviene locus theologicus entro cui il suo amore prende dimora. Per questo Etty dalla baracca di Westerbork, proromperà nell’inaudita affermazione: Io non ho mai la sensazione che devo volgere qualcosa in bene. Tutto è sempre e completamente un bene così com’è.
2. Il paradiso è qui?
Il dolore, il dubbio, il limite, la fragilità, il bisogno, l’esilio, la follia, divengono così altrettante “occasioni” entro le quali può sprigionarsi l’epifania del divino che abita il mondo. E’ quanto tenta di dirci Margherita (Porete) quando afferma che il paradiso è in questa vita e che consiste nella scoperta della propria nudità e mancanza, uniche condizioni per far accadere quell’impossibile che è Dio stesso, nell’angustia delle vicende umane.
Solo nello scoprirci mancanti, e per questo disposti ad esser colmati da Altro, si apre la via di una relazione, che si connota come disponibilità a fare spazio, a sporgersi verso l’altro e a fargli posto, abbandonando i modi di una ricerca ingombrante ed aggressiva per imparare a disfarsi di sé. (Muraro, pp. 84-94).
Questo spinge ad abitare l’attesa, ad assumere l’esistenza come continua speranza, che pone attenzione più alla dimensione passiva dell’accogliere che a quella attiva del cercare, del definire, del conquistare. Per Maria Zambrano, l’attesa connota il femminile stare al cospetto di Dio e figura di questa attesa, che diviene ascolto attento, è per la filosofa andalusa Maria di Nazaret.
Ella incarna la consapevolezza dell’esistere in risposta ad un’alterità che chiama, che supera e che eccede; risposta che si fa ricettività, che si lascia plasmare sino a divenire figura teologica essenziale, emblema della libertà dell’azione dello Spirito nella creatura che sa essere disponibile. (…)
In Etty del resto, la stessa disposizione ad accogliere, si fa ascolto, sensibilità empatica che permette di scoprire oltre i volti il Volto, che giace in fondo, abbarbicato ad ogni essere, irriducibile all’annientamento: la mia vita è un ininterrotto ascoltar dentro me stessa, gli altri e Dio. E quando dico che ascolto dentro, in realtà è Dio che ascolta dentro di me. La parte più essenziale e profonda di me che ascolta la parte più essenziale e profonda dell’altro. Dio a Dio.
Scoprire Dio a partire dall’incontro/ascolto con l’umano è del resto uno degli snodi cruciali dell’esperienza di Etty: il suo sguardo si posa su quanti le stanno intorno, uomini, cose, storie. Ella se ne immerge, sentendosi parte dell’ininterrotto movimento del cosmo, della sua tensione al compimento, del suo eterno fluire. E in questo amoroso consenso all’esistenza, si abbandona con fiducia al Dio disseminato nelle cose, sepolto nei cuori.
Al Dio che tutto ha fatto per il bene. Al Dio che resta, per aiutarla a comprendere come anche ora tutto è sempre un bene: la vita e la morte, il dolore e la gioia, le vesciche ai piedi estenuati dal camminare e il gelsomino dietro casa, le persecuzioni, le innumerevoli atrocità, tutto, tutto è in me come un unico potente insieme, e come tale lo accetto e comincio a capirlo sempre meglio.
Il Dio che abita il dolore, che lo attraversa sino a risolverlo nella misteriosa rinascita della Pasqua, è uno dei temi cari a Maria Zambrano, che tenta una rilettura al femminile della passione del Cristo (così definita in opposizione ad un paradigma maschile, incapace di accettare la kenosi del Figlio e la sconfinata misericordia che l’ha generata, tanto incapace, da costruire un muro di teorie e di astrazioni a giustificazione di quello che ancor oggi appare più un fallimento, un sacrificio, che una parola d’amore).
Per Maria, la vicenda della sconfitta del Dio-Figlio si inscrive in quella dell’umanità, votata all’incessante rincorrersi di cadute e risurrezioni. Accettando di farne parte, Dio canta il suo amore per la storia umana, amore che lo porta a dissolversi in essa. Ma canta anche l’inesauribile forza che da esso promana. Forza capace di raccogliere i frammenti delle nostre sconfitte per riempirli nuovamente di vita.
E’ così che Maria immagina l’azione dello Spirito, accanto al Figlio, come una continua palingenesi, sotto lo sguardo materno e sorgivo del Padre. E’ questo ciò che accadde a Maria stessa nell’esperienza quarantennale dell’esilio, in cui entro la privazione e l’abbandono, scopre radici tanto profonde e luminose da permettere l’intuizione del Trascendente: nel vero esilio si apre l’immensità che può passare inosservata all’inizio. Estrema vulnerabilità. Senza l’estrema vulnerabilità l’immensità non appare.
L’abbraccio benedicente di Dio diviene così il grembo materno che prende a cuore le nostre innumerevoli morti (come non ricordare gli uteri di misericordia che connotano il Dio del Primo Testamento?), ove torniamo ad essere accolti sino ad uscirne nuovi, colmati di energia, colmati di vita: Non c’è inferno che non sia il viscere di qualche cielo, scrive allora Zambrano.
3. Immanenza e trascendenza
Il Dio di Etty, come quello di Maria e delle altre, si rivela come l’ospite che dimora nel nucleo più profondo di noi stessi. Intima vicinanza, assoluta disponibilità. Vicino eppure anche assolutamente altro, lontano, e che per questo Margherita chiama il lontanovicino, a dirne l’assoluta trascendenza, disparità, apertura ad un oltre insperabile, non conquistabile se non come dono da accogliere e, al tempo stesso, l’assoluta immanenza, che lo rende “fruibile”, coglibile nel “qui ed ora” dell’esperienza anche sensibile.
Scrive Luisa Muraro, ricordando le pratiche devozionali legate alla croce del venerdì santo, che Dio si lascia fare; si lascia vestire, spogliare, sbaciucchiare, abbracciare, toccare, anche nei punti più sensibili (le cinque piaghe) o interni (il cuore) […]. Quale che sia il concetto di Dio che i filosofi e i teologi hanno, se non comprende questo suo lasciar fare e lasciarsi fare, io dico che è un concetto mutilato (p. 39).
Anche Alda Merini, del resto, raccontando i suoi incontri fanciulli con il Dio della madre, scrive: (Mia madre) mi presentava i fiori di pesco/ e mi diceva:/ bambina mia, questa è l’immagine/ del Signore,/ una fioritura continua,/ una fioritura primaverile,/ un mandorlo in fiore./ Questa è l’immagine del tuo Gesù,/ quello che tu ami./ E io mangiavo quei fiori/ come fossero le mani di Dio./ Tu mi credi che mai bambina/ fu assetata di Dio più di me,/ che mai donna riuscì a fare l’amore/ con un fiore di pesco/ che non aveva radici,/ che volava nell’aria come un grande aquilone. (Corpo d’amore).
Eppure, prosegue Muraro, in quelle che hanno compreso di Dio questa disponibilità, si fa strada anche la scoperta di una parallela indisponibilità, che la filosofa veronese chiama anche assenza ingiustificata, una sottrazione che coinvolge l’altro nella sua possibilità libera di esser-ci o di mancare.
Una lontananza, quella di Dio, che talvolta si configura come assenza, che di nuovo esige un’attesa, che abita il deserto: bisogna vivere in un deserto – scrive Simone Weil – poiché colui che amiamo è assente. Sarà forse per questo che Maria di Nazaret, la fanciulla di cui racconta De Luca nel suo In nome della madre, nel descrivere al suo bambino il mondo, lo esorta: abituati al deserto, figlio, che è di nessuno e dove si sta tra terra e cielo…
4. Libertà di essere, libertà di dire
Nelle parole di queste donne si fa strada una religiosità libera, personale, eclettica, non facilmente riconducibile entro una dimensione confessionale. Prende corpo una libertà di dire e di essere che permette loro di respirare a pieni polmoni, di cadere, di rialzarsi, in una parola di vivere, non avendo in sé il proprio equilibrio, ma vivendo in precario equilibrio al di fuori di sé.
È ancora Muraro che ci parla di questo: c’è una libertà che non troviamo scritta nella Costituzione perché non è un diritto, che si pratica senza enfasi e perciò non si nota. (…). E’ la libertà dall’ansia di indagare, dimostrare, testimoniare l’esistenza di Dio (o il suo contrario). (…). Per chi ha questa libertà, Dio smette di essere un oggetto di fede, un garante del vero e del giusto, un ricorso contro il male di questo mondo. Ma resta. Resta come una dimensione ulteriore del reale. Resta fra le parole che possiamo ascoltare o pronunciare, anche se non sappiamo quello che significa, anche se non pronunciamo il suo nome… resta come un silenzio propizio al senso libero delle parole, comprese quelle che non hanno senso (pp. 45-46).
Libertà di essere, dunque, che dà vita ad una libertà di dire e che sfocia nel bisogno di un nuovo linguaggio. Otri nuovi per il nuovo vino, capaci di narrare cose mai provate prima, atti ad accogliere anche la negazione ed il dissenso come luogo del dirsi di Dio: il resoconto di Dio – scrive Alda Merini – sta forse in tutte le nostre maledizioni, forse il resoconto di Dio sta nelle nostre bestemmie, rivendicando così il suo diritto di cantare l’alterità di Dio anche e soprattutto a partire dalla fatica di trovarla, dallo sgomento per la sua assenza, dalla rabbia per il suo silenzio.
È, questa lingua nuova, quella che Muraro chiama una teologia in lingua materna, teologia che fa cominciare Dio dal luogo ancora non-luogo, dal tempo ancora non-tempo in cui un’esperienza cerca le parole per dirsi: non dalla Bibbia né dalla tradizione né dai filosofi antichi né dall’autorità religiosa. Lo fanno cominciare con la dicibilità dell’esperienza e con la gratuità rischiosa della libertà… Non ci sono parole escluse dal loro linguaggio… Di qui l’importanza della scrittura in lingua materna, scrittura “sacra” di una vera e propria rivelazione femminile di Dio. Che all’altra non toglie validità, ma offre un nuovo inizio (pp. 60-62).
Anche Etty si confronta con la stessa esigenza e fa sua la medesima ricerca, quando scrive: A volte vorrei rifugiarmi con tutto quello che ho dentro in un paio di parole. Ma non esistono ancora parole che mi vogliano ospitare. E ancora: Mi sono resa conto che è così che voglio scrivere: con altrettanto spazio intorno a poche parole. Troppe parole mi danno fastidio… Non un vuoto, ma uno spazio che si potrebbe piuttosto definire ricco d’anima.
E Zambrano, dal canto suo, invoca quella che chiama una ragione poetica, necessaria novità anche linguistica, capace di dar voce alle continue rinascite, alle parole e agli eventi trascurati in cui ci è possibile rintracciare ciò che sopravvive, nonostante tutto, entro le nostre morti, illuminato dalla potenza vivificante dello Spirito. Ad una tale ragione poetica, che si configura come insospettata aderenza alla vita, che sa guardare la parte più fragile del nostro essere, che non lascia passare invano le nostre rinascite, ella affida il compito di recuperare ciò che giaceva sul fondo della storia, di educarci ad un nuovo sentire dell’anima.
5. Dio e corpo
Le donne cantano Dio a partire da un’esperienza del sé globale, inteso come corpo e spirito, come interno ed esterno, nel tentativo di ricucire lo strappo che marchia da sempre il pensiero (maschile) occidentale, nutrito di platonismo e dimentico dell’uomo biblico, il cui sentire, credere, pregare, affidarsi coinvolge globalmente l’essere.
Le donne, del resto, è così che accostano e conoscono il mondo: con il corpo. E’ così che se ne prendono cura, lo nutrono, lo ospitano, gli fanno compagnia. Almeno questo è ciò che succede se nessuna imposizione esterna giunge per costringerle a dimenticare l’intima vocazione di cui sono portatrici.
Ecco allora Etty, e la sua riflessione attorno alla preghiera. Il racconto del suo rifiuto ad inginocchiarsi, che gradualmente muta nell’urgenza fisica dello stesso gesto: Ieri sera, subito prima di andare a letto, mi sono trovata improvvisamente in ginocchio nel mezzo di questa grande stanza, tra le sedie di acciaio sulla stuoia chiara. Un gesto spontaneo: spinta a terra da qualcosa che era più forte di me.
Per lei, pregare diviene un “fare con il corpo” e l’atto di inginocchiarsi diventa la risposta del corpo alla scoperta di Dio, risposta spontanea che germina entro la quotidianità: A volte un desiderio di inginocchiarsi preme attraverso il mio corpo, è quasi come se il mio corpo fosse stato pensato e fatto apposta per questo. Nei momenti di grande gratitudine, inginocchiarsi diventa un’urgenza quasi travolgente, la testa chinata, le mani davanti al mio viso.
Anche Alda Merini, pur non negando al corpo la sua dimensione di ambiguità (nei suoi versi trova spazio anche il corpo ferito, stuprato, violato, imprigionato, reificato; un corpo che giace, che cade, che stramazza sotto un dolore troppo grande per essere sopportato….), ne rivendica la potenza generativa e relazionale, affidando ad esso la nostra sola possibilità di risollevarci. La grandezza di un Dio che si fa carne, la convince a tal punto della dignità assunta dal corpo umano, da farle scrivere il celebre verso: Se tutto un infinito ha potuto raccogliersi in un Corpo/ come da un corpo disprigionare non si può l’immenso?
L’esperienza di Dio, come l’esperienza dell’altro, non può nascere se non a partire dal corpo, che è la mia apertura sul mondo, la mia parola di carne. Alda si spinge così a cantare un incontro con Dio che diviene relazione amorosa, carnale, erotica, capace di riecheggiare sullo sfondo alcune pagine del Cantico dei cantici o gli scritti delle mistiche medievali tanto care a Luisa Muraro.
Il corpo di Alda, toccato dall’incontro con il divino, è risanato e sollevato ad una più alta dignità; esso scopre nell’estasi dei sensi il passaggio ad un’estasi più alta, che non avvilisce la prima, ma anzi la legittima; impara ad affidarsi sino all’irragionevolezza, conosce Il “bello e buono” del progetto divino e vi aderisce, vi crede anche dinanzi a tutte le apparenze contrarie. E Maria di Nazaret, difronte alle donne che le annunciano l’evidenza della morte del Figlio riesce così a gridare, a partire dal suo corpo: Egli è vivo, è vivo, lo grida la mia carne di madre. (…). La mia carne brucia di dolore, ma il mio corpo esulta.: Egli è risorto!
6. Dio madre, Dio figlio
E’ alla teologia di genere che dobbiamo anche la riscoperta del volto “materno” di Dio. Se già il Primo Testamento conosce una tale declinazione del nome divino, che è il nome di madre nel profeta Isaia (come una madre consola il figlio, così io vi consolerò), che ha il volto della madre nel profeta Osea (nel suo libro Israele è narrato infante di cui il Signore si prende cura, con cui ha una intimità affettuosa, su cui si china con infinita compassione…); se nel Nuovo Testamento Gesù prosegue a declinare l’Abbà secondo il modello dell’accoglienza, della tenerezza, dell’intimità, dell’incontro, così da rendere davvero possibile parlare di una patri-maternità divina, è innegabile che il ragionare “al femminile” è intimamente intrecciato con la possibilità che le donne hanno di essere “in contatto amoroso con la fonte della vita”, a dirla con Luisa Muraro.
Tutte, a modo loro, ci parlano di un Dio-madre che partorisce (Alda utilizza spesso la metafora del parto in relazione con l’evento pasquale della ri-nascita, così da parlare di un Cristo-madre che, riecheggiando il Dante del Paradiso, fece diventare figlia sua madre e la ripartorì nel dolore). Un Dio-madre che allatta e cura (si leggano gli scritti di Julian of Norwich), che disseta, spezza un pane, abbraccia, accompagna, pazienta e fa crescere. Un Dio, per tornare a Zambrano nel cui grembo abissale tutto trova spazio per poter sempre, di nuovo, rinascere.
La maternità diviene così più che un’allegoria del mistero divino, è la modalità reale più comprensibile a noi di pensare la presenza di Dio nel mondo. Nella teologia femminista, inoltre, la trascendenza si caratterizza sempre in chiave relazionale, rendendo così possibile il collegamento con la Trinità relazionale dei Padri, i quali coglievano nella danza delle tre persone divine (perichoresis) quell’esser l’uno dentro l’altro, quel compenetrarsi senza confondersi che, forse, rinnova un’idea femminile di Dio, connotata dalla capacità di albergare l’altro al proprio interno.
E’ ancora Muraro che individua una tale rispondenza tra il linguaggio della dottrina trinitaria e l’esperienza che una donna può fare dell’essere a partire dal suo essere madre. La teologia trinitaria – scrive sempre Muraro – parla di una natura divina che è relazionale, fluida, spartita senza essere fatta a pezzi, trascendente ma non separata dalla natura umana, invisibile ma presente. Parla cioè il linguaggio della relazione creatrice di essere che si apre ad altro, dell’amore che libera, trasforma, fa nascere a nuova vita, e rende così dicibile un’esperienza dell’essere che il resto della dottrina cristiana, troppo influenzata dalla metafisica greca, ignora (111-112).
Non stupisca che accanto all’evidenza della maternità, sia presente anche quella della figliolanza di Dio, di un Dio-figlio debole e fragile, che chiede asilo e protezione, che mendica una insperata salvezza dalle atrocità. E’ quanto ci lascia Etty nei suoi ultimi scritti dal campo: la scoperta di una responsabilità nei confronti di un Dio, impotente per troppo amore e soffocato dall’odio, che lei, piccola e inerme, si propone di aiutare, di salvare, di riparare dentro di sé: Ti voglio promettere una cosa, mio Dio, una piccola cosa: ti aiuterò a non spegnerti dentro di me, ma non posso garantirti niente in anticipo. Tuttavia una cosa mi appare sempre con maggior chiarezza: non sei tu che puoi aiutarci, ma siamo noi che possiamo aiutare te e, facendo questo, aiutiamo noi stessi. E’ tutto quello che ci è possibile salvare in quest’epoca, ed è anche la sola cosa che conta: un po’ di te in noi, mio Dio.
Aiutare Dio è “l’espressione più alta della capacità di Etty Hillesum di essere ospite e amica, di attraversare la sventura senza cadere nella disperazione e nel nichilismo. (…). Così facendo, Etty si assume una maternità simbolica rispetto ad un Dio percepito come dipendente e bisognoso di aiuto. (…). La relazione non è verticale, ma circolare: benché Dio sia il creatore e sia colui che può tenerla tra le braccia, tuttavia egli non può esistere senza di lei. Etty, che aveva cercato un contenimento in uomini più maturi di lei, e che aveva poi cercato un riparo nel linguaggio, in parole che potessero ospitarla, alla fine non costruisce un rifugio per sé stessa, ma per l’Altro in sé, per Dio: ospitandolo dentro di sé ha la certezza che egli non l’abbandonerà nell’ultima prova, ma che la seguirà fino ad Auschwitz” (Wanda Tommasi, L’intelligenza del cuore, Messaggero).
Chiara Saletti, Coordinamento Teologhe Italiane